XIV

../XIII ../XV IncludiIntestazione 10 aprile 2019 75% Da definire

XIII XV

[p. 153 modifica]

XIV.

Le precauzioni di Daria non bastavano a deludere l’astuta accortezza della Tatta che, avvertita da un senso misterioso, sorvegliava con sospetto la condotta della nuova nipote.

Dopo il colloquio con Daria, Ippolito aveva fatto chiamare Matilde, e pare che le cose da lui dette alla sorella fossero serie molto, perchè Matilde uscì dalla casa bianca tutta alterata in volto e cogli occhi rossi.

La Tatta la vide attraversare la corte, salire rapidamente nella sua camera e rinchiudervisi.

— Gatta ci cova — brontolò la vecchia.

— Oh perchè — fece Daria con naturalezza. Sai che tra loro due vanno poco d’accordo; il signor Ippolito è così severo, così rigido e Matilde è viva... [p. 154 modifica]

— Vorresti concludere — interruppe la vecchia fissando sulla giovanetta il suo sguardo acuto e sardonico — che il signor Ippolito ha torto?

Daria chinò il capo senza rispondere.

— I Regaldi — continuò la Tatta con impeto — sono forse deboli, inetti e fannulloni, ma vivaddio sono onesti. E questa civetta che si è fatta sposare per forza....

— Parla piano, zia — implorò Daria — le finestre sono tutte aperte.

— Non mi importa affatto. Non ho niente da nascondere io, e se c’è qualcuno cui preme il silenzio peggio per lui, o per lei, o per loro!

L’esplosione furiosa della Tatta terminò con un violento sbattere dell’uscio.

Daria, rimasta sola, pensava più che tutto ad evitare uno scandalo, che sarebbe ricaduto sull’intera famiglia e sulla povera piccina, che non sapeva nulla, che non doveva mai saper nulla.

Se qualche volta il disgusto di vivere in quel paese e in quella casa suggeriva a Daria la tentazione di andarsene via — e la tentazione era forte perchè anche Ippolito la sentiva — la sola immagine della Lena abbandonata la faceva tornare in sè e le ribadiva la catena. — Sono legata qui — sospirava la povera ragazza — chi sa — forse per sempre! [p. 155 modifica]

E intanto che rifletteva, a capo chino, colle mani abbandonate sui ginocchi, entrò Rodolfo e andò come il solito a gettarsi sul divano bigio.

Il bel giovane d’una volta era assai mutato. Divenuto immensamente pingue e acceso nel volto per l’uso del bere, aveva perduto ogni grazia giovanile; sembrava vecchio di dieci anni. L’occhio aveva imbambolato, le labbra cadenti; la fronte, senza ideale, muta e triste sotto l’abbondante capigliatura, nerissima una volta, ora già brizzolata.

— E’ pronto il desinare? — domandò, sbadigliando.

— Non ancora ma...

Rodolfo cacciò fuori una bestemmia.

— Non c’è mai niente all’ordine in questa casa. Voglio che il pranzo sia in tavola alle quattro, voglio. Sono o non sono il padrone?

Per tutta risposta Daria gli indicò il quadrante del cucù, che segnava le tre e mezzo.

Egli si rabbonì.

— Non dico questo per te sai? Tu sei buona. Anzi voglio dirti una cosa.

Si fermò un poco, grattandosi la testa, cercando le parole.

— Se bai bisogno di me, Rodolfo, parla. [p. 156 modifica]

— Bisogno, bisogno, sicuro! Di tutto ho bisogno. Di denaro ho bisogno.

— Ohimè.

— Non ne hai nemmeno tu, lo so. Tutti spendono e nessuno ne ha. Ma non sapresti tirar fuori qualche cosa... qualche cosa da vendere, qui?

Si rizzò sul gomito guardandosi attorno.

Nò occorse che Daria gli rispondesse. Lo stipo antico, la sola cosa bella e rara che fosse rimasta in casa, era già stato venduto. Al suo posto la bambola della Leno aveva trovato un lettuccio provvisorio sul guancialino dei conigli, e Quattrina diventata vecchia e pigra russava lì accanto.

Rodolfo si fermò a guardare quel posto e quella bambola; scosse il capo, tornò a grattarsi, sbuffò e ricadde pesantemente sul divano.

Daria incominciò ad apparecchiare la tavola, in apparenza tranquilla, ma con uno struggimento che le rodeva il cuore. Ad ogni tratto le lagrime le facevano groppo ed ella le cacciava giù, come un boccone amaro che è duopo ingollare per forza. La sua famiglia le si sfasciava sotto gli occhi, andava a rotoli; ogni pena era stata inutile, ogni sacrificio sprecato.

Si fermò un momento davanti al ritratto del maggiore dei Regaldi — l’onore della famiglia [p. 157 modifica]— come essa lo chiamava, e le parve davvero che con ini fosse morta la parte più nobile.

Rifece aneoia colla mente l'ultimo loro dialogo, in riva alla gora: ripensò alla fatalità, che fin d’allora poneva Matilde sul sentiero dei Regaldi e l’avversione che le aveva sempre destati, e le sue paure, le sue preghiere, finalmente il suo trionfo dell’anello; povero trionfo, che non era bastato a scongiurare il destino.

Continuando a frugare nel passato, le venne il rimorso di essere stata troppo pronta a favorire le nozze di Rodolfo con Matilde e volle scrutare a vivo il proprio cuore per sapere se l’amore di Ippolito avesse fatto traboccare la bilancia. Ma dopo un esame coscienzioso, durante il quale ella si sentiva disposta a tutte le espiazioni, rialzò la testa fieramente e disse: No — ho fatto soltanto il mio dovere.

Questo pensiero consolante, l’unico che abbia la potenza di rialzare un’anima abbattuta, colorì di lieve incarnato le guancie di Daria.

Ella posò i piatti, le quattro posate, e poi un piattino e un cucchiaino. Rodolfo seguiva macchinalmente cogli occhi ogni suo movimento.

— Dov’è lei? — domandò bruscamente.

Lei era Matilde. Daria si affrettò a rispondere in modo conciliativo: [p. 158 modifica]

— E’ di sopra; forse ripassa gli abitini di Lena.

Rodolfo fece un sogghigno incredulo, ma non aggiunse altro.

La tavola era pronta; la Tatta venne dalla cucina colla zuppiera in mano e colla Lena attaccata alle gonne. Daria le corse incontro, prese la piccina e la pose sul suo piccolo trono davanti al piattino della pappa.

La vecchia girò intorno gli occhi.

— Vado a chiamarla — disse Daria rispondendo a quella muta interrogazione.

E intanto che Rodolfo e la Tatta sedevano al desco, ella volò su per le scale fino all’uscio della camera di Matilde.

La chiamò due o tre volte, invano, premette la molla, l’uscio era aperto, entrò.

Matilde, era seduta nel corsello colla faccia sprofondata in mezzo ai guanciali; aveva i capelli scarmigliati, le vesti in disordine, tutte le apparenze di essersi abbandonata ad uno di quegli eccessi nervosi che in lei erano frequenti.

Sollevò la testa all’udire i passi di Daria e, sgarbatamente, senza frenare l’impulso di una viva contrarietà gridò subito:

— Cosa vieni a fare qui? Va via. [p. 159 modifica]

— Ti aspettano al desinare — disse la ragazza, fedele al suo partito preso dalla calma.

— Non ho fame.

Daria esitò un momento; Matilde si era ricacciata colla fronte nei guanciali, decisa a non muoversi.

Ella le si avvicinò, e, accarezzandole blandamente le treccie scomposte:

— Andiamo Matilde. Tuo marito è già a tavola; la Lena chiama la mamma... Ti senti male? Vieni, ti daremo qualche cosa; non istar qui tutta sola abbandonata ai cattivi pensieri.

— Bella pretesa di voler conoscere, se i pensieri degli altri sono buoni o cattivi.

— Tutti abbiamo dei momenti tristi....

— E a mettere insieme i momenti si fanno le ore — esclamò Matilde con impeto irato — poi i giorni e gli anni, e le vite intere. Oh! va, lasciami.

— No, non ti lascio così. Tu soffri, sei afflitta, malcontenta, inquieta...

— Come posso essere allegra e contenta, se tutti fate a gara per seccarmi, per tormentarmi? Sono stanca, stanca, stanca. Vi odio tutti. Va via.

Daria fu presa da un singhiozzo doloroso; il cuore le si schiantava a vedere tanta ingratitudine; pure cedendo a’ suoi nobili impulsi di carità [p. 160 modifica]e di perdono disse: — Iddio sa, Matilde, quanto ti sono amica e come vorrei vederti tranquilla.

Ella la interruppe con immensa collera.

— Tu peggio degli altri! Tu sei una ipocrita, che lavori al coperto, tu aizzi Rodolfo, tu travî mio fratello, tu mi togli l’amore di mia figlia per ornartene e fartene un vanto.

Alle prime parole di questa sfuriata, Daria si era fatta pallida; all’ultima accusa gettò un grido e incapace di frenarsi più a lungo, ruppe in un dirottissimo pianto.

— Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio!

Daria non diceva altro, e si stringeva le tempia colle dita, perchè le pareva che la testa scoppiasse.

Era troppo.

Matilde invio!entità continuò a ingiuriarla, trovando uno sfogo impensato, esaltandosi al suono delle proprie parole, e così contraffatta nel viso e nella voce che la si sarebbe presa per una furia. Finalmente vieppiù irritata dal contegno passivo di Daria e da quel pianto insistente, la prese per le spalle e tornò a gridare:

— Va via, va via, va via.

Daria ebbe un momento di rivolta. Le balenò l’idea di gridare anche lei, di ricacciarle in volto tutto il passato, tutto, incominciando dall’a[p. 161 modifica]nello di corniola; e dirle, che soltanto in grazia sua aveva trovato un nome onorato in quella famiglia, che essa ora trascinava alla rovina. Si voltò indietro, piena di giusta alterezza, ma nel mirarla ravvisò, sulla bocca di lei, quella linea che la faceva tanto rassomigliare a Ippolito e allora ebbe vergogna della propria debolezza. Un altro ordine di idee venne a sovrapporsi al bollore dello sdegno; riprese d’un tratto la sua forza, la sua superiorità, serena; dimenticò sè stessa; e ferma e dignitosa, s’avviò fuori dell’uscio dicendo con voce che non era più tremante, ma che vibrava sotto l’ispirazione di un pensiero altissimo:

— Vado poichè tu non mi conosci ancora.

Matilde balzò in piedi e lanciando un’ultima parola iraconda chiuse a doppio giro la chiave dell’uscio.