La Regaldina/V
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V.
Il caldo quell’estate non finiva mai. Tutto il giorno la casa bianca e la casa nera restavano chiuse, mute sotto la vampa del sole che sembrava sferzarle con raggi di fuoco, accendendo sulle loro grondaie dei bagliori incandescenti.
Nella piccola casa bianca Matilde si aggirava sola, nervosa, in attitudine di un’aspettativa perenne; fiutando nell’aria gli atomi di vita gaudente, che a lei venivano dal borgo, attraverso la solitudine degli orti e della roggia placida scorrente a’ suoi piedi.
Si aggirava lenta sugli alti tacchi, respirando a fatica nel busto, che la modellava come fusa nel bronzo; palpitando negli abiti, così stretti, che le premevano le carni con un lungo e continuato amplesso. Si aggirava e spesso cadeva, languida, in una poltroncina, coi piedi l’uno sull’altro, le braccia pendenti, la testa rovesciata in dietro, le labbra arse, l’occhio vagante; e poi si rizzava scattando come una molla, invasa da un subito rossore, che la prendeva alla nuca e alle guancie.
Intorno a lei, nella sua camera, nel salottino c’erano sempre dei giornali di mode, dei volumi nuovi tagliati soltanto ai capitoli più interessanti; dei fiori dal profumo acuto e vertiginoso — gelsomini, tuberose, gardenie — ella si compiaceva a sprofondare la faccia tra le foglie, chiudendo gli occhi e assorbendone gli effluvî con un fremito intenso di voluttà.
Non amava il lavoro, nè l’intimità raccolta della famiglia, passava le giornate fantasticando, cambiando toelette e quando Ippolito tornava dallo studio sentiva subito, mettendo piede sulla soglia, il vuoto di una casa dove non c’è la donna.
Egli occupava un modesto impiego niente conforme alle sue inclinazioni e ai suoi gusti. La sua gioventù rovinata prima da una lunga malattia, poi da dissesti di affari non gli aveva permesso di sviluppare tutte le facoltà dell’intelletto. La madre, che lo adorava, non se l’era mai spiccato dal fianco, proteggendo col suo soffio innamorato la fragile salute di lui, tenendolo vivo a furia di cure e d’affetto; ma quando, fatto uomo, volle sprigionare a volo le fantasie accarezzate nei lunghi sogni, non trovò aperta nessuna via e, precipitando le sventure domestiche, dovette accontentarsi del misero pane quotidiano.
Ippolito si sapeva perduto per sempre e nella totale rinuncia di sè stesso aveva accettata la vita, per la sorella che restava senza appoggio.
La sua era un’esistenza priva di gioie, egli lo sapeva; sapeva di più, che Matilde non avrebbe mai preso per lui il posto lasciato vuoto dalla madre. Una infinita tristezza lo accompagnava in quella casa abbandonata, segnando la sua fronte di rughe precoci.
Eppure, qualche volta la natura parlava anche a lui l’appassionato linguaggio dell’amore; in quell’anima vergine le sensazioni erano profonde, vive, e ad onta della ragione, il cuore di quel giovine di venticinque anni chiedeva la sua parte di luce e di calore.
Da qualche tempo, specialmente, una insolita serenità era scesa nel suo cuore; in certi momenti si sentiva felice senza saperne il perchè. L’aria intorno a lui gli sembrava più leggera, più ampio l’orizzonte, meno deserta la vita.
Le ore che passava allo studio, gli venivano allietate da visioni incerte, fluttuanti ancora nei veli del dubbio e della speranza, tuttavia dolcissime; come avviene di alcuni sogni, che non si sanno raccontare e che pure lasciano nella mente e nei sensi un’impressione soave di piacere.
Non sapeva di chi fosse l’occhio amoroso che vedeva raggiare fra una riga e l’altra de’ suoi numeri; tal fiata gli sembrava l’occhio della madre, tal altra brillava così vivido, così pieno di rigoglio giovanile, che il pensiero della madre si ritirava, lasciandolo alle prese con un palpito nuovo.
Gli accadeva anche di sentirsi chiamare all’improvviso e non sapere quello che gli dicevano; doveva allora fare uno sforzo per raccogliersi e gli pareva di discendere a picco da un’altezza smisurata, ubbriaco dell’ebbrezza dell’infinito. I suoi polsi battevano concitati e un leggero sudore gli spuntava in piccole goccio alla radice dei capelli.
Queste estasi solitarie non lo seguivano in mezzo alla gente; cogli altri non era affatto mutato. Parlava poco, sottomettendosi facilmente al gusto altrui, non per debolezza, ma per un concetto soverchiamente umile di sè stesso; quella stessa umiltà che lo faceva sembrare freddo, quando non osava manifestare le proprie idee; quell’umiltà schiva e dignitosa, che si rinchiude perchè non vuole offendere, che si nasconde per salire libera alle altezze del giudizio impersonale.
Tornava dallo studio tranquillo, soddisfatto dei compiuti doveri, pronto ad accettarne degli altri, a prendersi per lui la parte brutta e materiale dell’esistenza, per lasciare sua sorella nelle dolcezze e negli agi. Egli faceva questo con tanta naturalezza, senza ostentazione di sacrificio, si faceva così poco valere, che a nessuno veniva in mente, potessero camminare le cose in modo diverso. Pareva giustizia, che egli dovesse lavorare per due e che ella non avesse altra missione sulla terra, fuorchè quella di vestirsi con eleganza e di sedurre colla sua grazia.
Si mormorava anzi in paese; si diceva che Ippolito era un egoista, che quando si ha una sorella giovane e bellina non bisogna tenerla fra quattro mura a morir di noia; che egli la sacrificava a’ suoi gusti d’orso; che facendo così le chiudeva la via a un matrimonio brillante com’essa lo avrebbe meritato.
Ma egli non sapeva nulla di queste ciarle.
Aveva conosciuto abbastanza la gente, che lo circondava, per sapere, che in tutto il borgo non avrebbe trovato un amico; e perciò viveva ritirato, nella rassegnazione di un destino oscuro, pensando, che gli eroi non sono soltanto quelli che versano il sangue e che spargono intorno insieme al terrore il rimbombo del loro nome. Anche nella volgarità di una esistenza comune si può trovare l’eroismo, perchè è eroismo il vincere sè stessi; è eroismo il sopportare la sventura, è eroismo il rinunciare ai desiderî più cari, è eroismo il soffrire con dignità, è eroismo il sostituire all’amore personale l’amore per l’umanità che soffre. Egli non chiedeva nulla al mondo e non sospettava che il mondo potesse occuparsi di lui.
Era troppo nobile per accorgersi della rete che tutti quegli ignoranti maligni e vigliacchi gli tessevano intorno. Nel suo disprezzo alto e sereno non prendeva nessuna precauzione per difendersi dai loro morsi.
Viveva come in una solitudine ideale frammezzo a quel popolo di gretti pigmei dei quali schiacciava senza saperlo, la boria meschina e che se ne vendicavano dilaniando la sua riputazione, gettandosela a brani l’un l’altro come fiere stupide e selvaggie.
Le sue ore più dolci erano quelle della sera — seduto nel bigio salotto dei Regaldi, o fuori nella piccola corte lastricala, accanto alla roggia, dove Daria portava il suo sgabello e cuciva, cuciva fino a notte fatta, sollevando tratto tratto le pupille intelligenti, illanguidite da un vago bisogno di tenerezza. Anche con lei, Ippolito parlava poco, ma una sola parola detta fra loro teneva il posto di lunghi discorsi; si capivano a volo. Non si erano mai spiegate le loro teorie, ma le sapevano; i loro occhi correvano sempre insieme sul medesimo oggetto; si interessavano per le stesse cose; il sorriso, che qualche volta spuntava sulle labbra di Daria, Ippolito lo completava — ed era per lei sola, che lo si vedeva sorridere.
Tuttavia, meno queste apparenze di simpatia, il contegno di Ippolito non usciva dalla sua riguardosa freddezza; nè c’era dubbio che oggi facesse più di quanto avesse fatto ieri.
Ciò irritava sommamente la Tatta, che avrebbe voluto vederlo più entusiasmato dei meriti della sua Daria e che sospettava una egoistica finzione laddove era un partito preso — eroicamente preso — di sorvegliare sè stesso per non cedere a tentazioni che egli sapeva di non poter accettare.
Fu per lui certamente che un giorno, a proposito di una scappatella di Pierino, ella uscì in questa sfuriata contro gli uomini:
— Pierino, si sa, è un cattivo soggetto; chi lo nega? Del resto in fatto di uomini non saprei quale stracciare per rappezzare gli altri; sono tutti compagni. La colpa è delle donne che ci credono ancora; perchè ci credono? Io ho visto una volta un serraglio di belve; una si chiamava leone e faceva il forte, colla criniera arricciata, l'occhio ardito, il ruggito potente; un’altra la dicevano il leopardo, molto elegante, molto ben vestito; l'orso sembrava un filosofo, serio e grave, alieno da ogni debolezza; un grazioso scimmiotto poi, aveva l’aria di dominare la compagnia. Ebbene, erano tutti educati in modo inappuntabile, si rizzavano sulle zampe di dietro come ballerini, si inchinavano su quelle davanti salutando il pubblico come gentiluomini. A un tratto saltò imprudentemente nella gabbia una bella colomba bianca e i quattro gentiluomini per farle la corte se la sbranarono in un minuto. Tutte bestie! Tutte bestie! Tutte bestie! Ah! non sono altro che bestie.
La zitella terminando il suo apologo scuoteva violentemente la testa, appoggiando su quel sostantivo che essa dedicava al sesso nemico, come il riassunto di una lunga esperienza e di un profondo disprezzo.
Ma l’effetto fu diverso da quello che lei voleva.
Dalia, sorridendo a quel concetto generale della bestialità umana, si chinò verso Ippolito:
— Fortunatamente vi è qualche eccezione alla regola.
Egli la ringraziò con un sorriso.
Avevano entrambi la medesima opinione su questo argomento. Consideravano i difetti dei loro simili dal lato vasto e ideale di una umanità sofferente; tutto ciò che era antipatia o rancore personale scompariva per essi; in ogni delinquente vedevano un infelice. Soli, librati al di sopra di un immondo formicolaio di passioni, essi colla generosità dei forti compativano e si sentivano felici della loro regione pura, come areonauti che vedono la terra lontana, smarrita fra le nebbie miasmatiche.
Su Matilde le parole della vecchia avevano fatta una impressione piacevole e stuzzicante. Sdraiata in una seggioletta bassa, si mordeva le labbra, palpitando fortemente col seno. L’abito di lana chiara la disegnava in modo da parere nuda, accentuando la rotondità della spalla e l’alto del braccio che si mostrava intero nella sua morbida densità di donna giovane; la vita stretta prolungata con esagerazione aveva una lubrica apparenza di biscia distesa. Con un ginocchio accavallato sull’altro dondolava in alto il piedino coperto di calze rosse traforate e da una scarpa che portava nel posto della fibbia una piccola testa da serpente.
— Se fosse stata lei quella colomba... — domandò Rodolfo, che le era sempre stato accanto, alternando parole basse e misteriose, sorrisi equivoci e morsicature sensuali al suo sigaro spento.
E Matilde rise a voce repressa, quasi soffocata; con un fremito che l’agitò tutta partendo dalle spalle giù per le reni fino al piede che si contrasse, come se il serpentino di metallo animato improvvisamente l’avesse morsicata.
In un angolo della stanza, sotto al cucù, la signora Luigina allibita, non fiatava. S’avrebbe potuto credere che le colpe del leone, del leopardo, dell’orso e della scimmia, pesassero tutte su di lei a guisa di un gigantesco rimorso.