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III V

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IV.

Dopo la notte che Matilde aveva trascorsa sotto il tetto dei Regaldi, si stabilì una certa intimità fra le due famiglie; o per meglio dire era Matilde che faceva spesso le sue apparizioni nel salotto terreno, dove la sua spigliatezza portava un elemento affatto nuovo.

Appena terminato l’anno di lutto ella si era affrettata a coprire di piccoli smerli bianchi il suo abitino nero; la ci aveva un gusto matto a vestirsi, a pettinarsi; era graziosa, aveva certe mossettine di gatta giovane piene di eleganza e di perfidia.

Forse questa sua somiglianza con Quattrina metteva la Tatta in diffidenza verso di lei; doveva essere una diffidenza d’istinti, perchè Matilde era gentilissima colla vecchia, come con tutti. [p. 46 modifica]Non aveva nè bellezza, nè ingegno, nè cuore; ma uno spolvero di tutto ciò; civetteria, intelligenza e nervi ne tenevano le veci con molta naturalezza. Sapeva piangere, sapeva ridere a tempo; muoveva gli occhi con profonda cognizione e si serviva in modo ammirabile del sorriso, che era la bellezza tradizionale della sua famiglia.

La sua gioventù, la sua posizione d’orfanella, la presentavano nel mondo sotto un punto di vista interessante, del quale ella sapeva approfittare per farsi compiangere.

Veniva a passare le mattinate insieme a Daria; aveva in tasca un ricamino o un romanzo — il romanzo più spesso che il ricamo; — leggeva volentieri i racconti febbrili, le storie d’amore dove l’eroina fosse molto elegante; aveva nel sangue la febbre delle emozioni precoci, l’avida bramosìa del frutto proibito.

Cresciuta nei primi anni, per vicende di famìglia, lontana dalla madre, presso parenti trascurati che la viziavano, il germe di mollezza e di epicureismo che ondeggia nella presente generazione, le si era sviluppato potente. A diciotto anni vagheggiava già la ricchezza come bene sommo — il piacere come unica meta. Era troppo scaltra per dirlo — ma un osservatore avrebbe trovato tutto ciò ne’ suoi occhi curiosi, dai bagliori [p. 47 modifica]superficiali, dall’espressione falsamente pudica che vuol celare la lascivia dei desiderî.

Daria, che non l’aveva mai amata, che aveva sempre sentito per lei l’istintiva ripugnanza delle anime grandi per le animuccie meschine, Daria, che l’aveva temuta una volta, la sopportava ora, compassionandola, cercando di metterla a parte dei suoi pensieri, dei suoi studi, delle sue continue ricerche sulla verità delle cose. Ma poi Daria non era troppo paziente, e l’alterezza sdegnosa del suo carattere la facevano poco adatta alla parte di missionaria; visto che ogni tentativo di ravvicinamento morale era inutile, fatta persuasa che non si sarebbero intese mai, Daria si restrinse ad una cortesia comune, lasciando a lei la direzione del discorso, che veniva continuato a scatti e a sussulti dalla Tatta, oppure trascinato blandemente dalla inoffensiva signora Luigina.

Rodolfo e Pierino, superata la selvatichezza dei primi incontri, si erano avvezzati alla forestiera.

Rodolfo tornando dalla caccia, entrava nel salottino, si gettava a fumare sul divano bigio, colla testa appoggiata sulle ciliege rosse del guanciale, parlava poco, accontentandosi di qualche , e di qualche no, facendo salire a vortici, a striscie, a cerchietti il fumo del suo sigaro; cacciandosi la mano nei folti capelli bruni inanellati; [p. 48 modifica]arricciando i baffi sulle sue labbra tumide e vermiglie; allungando un piede per tentare Quattrina e del resto restando immobile per ore ed ore nella sua parte passiva di bel giovine.

Pierino si mostrava raramente e solo per fare qualche dispetto, fra i quali il favorito era di nascondere il gomitolo o la calza della signora Luigina, lasciarle cadere in grembo un ragno, o gridarle improvvisamente nelle orecchie, oh! oh! — con immancabile sgomento della povera zitella che si sentiva incapace di reagire.

In questo ambiente monotono il cucù segnava ogni ora un’ora di più senza che un avvenimento qualsiasi venisse a cambiare la fisionomia grigiastra e cupa del salottino.

Il sole di luglio lo rendeva un po’ più allegro del solito, disegnando una larga fascia luminosa sul pavimento di mattoni, mettendo una tinta calda sulla bianchezza rigida delle tende di percallo insaldate. Fu appunto in una giornata di luglio, che Ippolito capitò per la prima volta in casa Regaldi. Fermandosi sull’uscio in mezzo al raggio di sole, i suoi capelli biondo ardente gli facevano intorno alla testa un’aureola di fuoco — ciò fece molta impressione alla signora Luigina, la quale aveva sempre udito dire che gli uomini rossi sono cattivi. [p. 49 modifica]

Rodolfo dichiarò che quel giovine smilzo gli era sommamente antipatico. La Tatta pareva indecisa, ma come massima generale, disse che le persone fredde non le piacevano. Daria pensava.

Però, tutte le volte che Ippolito veniva a prendere sua sorella, una specie di malessere si diffondeva nel salotto; restavano tutti imbarazzati, e Ippolito confuso del proprio insuccesso si faceva ancora più taciturno.

Qualche volta, sull’ora del tramonto, le donne andavano a fare una passeggiata, a capo scoperto, col grembiule davanti, e, secondo l’uso del paese, mettendo in tasca un piccolo velo, da gettare sui capelli quando entravano nella loro chiesuola favorita.

Era questa una specie d’oratorio nascosto fra i castagni del gran viale del Santuario, nel quale si entrava per una porticina verde, bassa, semplice come la porta di una casetta rustica. E rustica era la chiesa, quadrata, col soffitto a travicelli, circondata per due lati da altarini affondati nelle loro nicchie. Di fronte alla porta un arco si apriva in una seconda chiesa, dove c’era l’altare maggiore cinto da una balaustra di legno dipinta in color turchino, colla cornice dell’altare barocca, [p. 50 modifica]tutta a nastri svolazzanti e a ghirlande di fiori che davano alla chiesuola un aspetto gaio d’alcova, accresciuto dalle tendinette di filugello giallo, che chiudevano le entrate delle cappelle con una discrezione piena di mistero.

Una luce soave, blanda, entrava dalle finestre gotiche sui vetri delle quali si protendevano i rami dei castagni, disegnando delle ombre fantastiche — e fuori nel silenzio del viale, nell’intimità dei cortili adiacenti trillava acuto il canto del gallo e il muggito placido dei buoi, recando fra le pareti della solitaria chiesuola le note di una vita calda e serena.

Quando Ippolito non trovava nessuno in casa Regaldi sapeva dove andare, e già un paio di volte le donne uscendo dall’oratorio lo avevano incontrato sotto i castagni del viale. Si univano allora ritornando a piccoli passi, facendo qualche osservazione tratto tratto sul tempo, sulla campagna o sulle persone che incontravano.

Una volta, Daria che usciva per l’ultima dalla chiesetta, si fermò a fare l’elemosina a un poverello.

— Non è del paese — aveva osservato la signora Luigina, senz’ombra di cattiveria, ma solo perchè era una frase fatta.

E la sua burbera amica subito l’ammonì. [p. 51 modifica]

— E tu sei del paese, tu? Bella roba se si dovesse soccorrere soltanto quelli che si conoscono. Valgono poi tanto alle volte quelli che si conoscono!

Ci doveva essere una allusione misteriosa e pungente in queste parole della Tatta, perchè la signora Luigina non rispose verbo e tirò via cheta cheta.

Daria era rimasta indietro, attratta dallo stato pietoso di quel meschino che sembrava mezzo morto di fame; stava per chiamare la Tatta, volendo interessarla maggiormente al poverello, quando si trovò al fianco Ippolito.

La cosa era abbastanza naturale, eppure Daria trasalì. Quel giovine le faceva anche a lei un effetto strano, non di ripulsione però, ma come di turbamento.

Egli sorrise di quel suo sorriso buono, intelligente, così raro, che Daria lo vedeva per la prima volta — e per la prima volta negli occhi di lui piccoli e semichiusi, vide allargarsi un’onda di luce, come se la sensazione di una dolcezza ineffabile gli salisse dal cuore alla pupilla. Sguardo e sorriso erano rivolti al povero, ma di riverbero caddero su Daria, mentre con voce tremola diceva:

— Ho qui io qualche cosa. [p. 52 modifica]

Per Daria fu quella una rivelazione.

Ma intanto Ippolito, fatta la sua offerta, era ricaduto nella abituale espressione di indifferenza. L’immagine della madre, che gli era balenata davanti vedendo Daria pietosa accanto al povero, si ritirava dalla momentanea illusione, e più freddo e più duro si fece il suo sguardo sotto l’aculeo del rimpianto.

La giovanetta volle continuare il dialogo per tentare di conoscere alla fine quell’uomo, che le si presentava ora sotto un aspetto nuovo e inaspettato. Come un cercatore paziente che abbia trovato la vena d’oro ella si infervorava nella scoperta; però Ippolito restava muto.

Egli aveva una strana ritrosìa di carattere; anche le emozioni più forti non trovavano nel suo esterno, che una leggerissima manifestazione.

Camminava a fianco della fanciulla, calmo, formando un contrasto colla energica vivacità di lei; mentre davanti a loro le due vecchie tiravano avanti bisticciandosi e Matilde correndo dall’uno all’altro a passettini brevi e saltellanti, sbirciava attraverso gli alberi le poche persone che s’incontravano nel viale, esercitando la pupilla alle lunghe occhiate fatali.

Quando furono a casa, la Tatta vedendo Daria [p. 53 modifica]pensierosa accanto alla finestra, le disse a bruciapelo:

— Impiega un po’ meglio il tuo tempo, ragazza; quelle acque morte lì sono di quelle che rodono i ponti.

La ruvidezza dell’accento non colpì tanto Daria, quanto la sottigliezza dell’osservazione. Come mai la vecchia si era già accorta di ciò, che non conosceva bene lei stessa?

Il sorriso ironico della terribile zitella le passò sul cuore come una lama a due tagli; impallidì leggermente e non rispose.