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in una poltroncina, coi piedi l’uno sull’altro, le braccia pendenti, la testa rovesciata in dietro, le labbra arse, l’occhio vagante; e poi si rizzava scattando come una molla, invasa da un subito rossore, che la prendeva alla nuca e alle guancie.
Intorno a lei, nella sua camera, nel salottino c’erano sempre dei giornali di mode, dei volumi nuovi tagliati soltanto ai capitoli più interessanti; dei fiori dal profumo acuto e vertiginoso — gelsomini, tuberose, gardenie — ella si compiaceva a sprofondare la faccia tra le foglie, chiudendo gli occhi e assorbendone gli effluvî con un fremito intenso di voluttà.
Non amava il lavoro, nè l’intimità raccolta della famiglia, passava le giornate fantasticando, cambiando toelette e quando Ippolito tornava dallo studio sentiva subito, mettendo piede sulla soglia, il vuoto di una casa dove non c’è la donna.
Egli occupava un modesto impiego niente conforme alle sue inclinazioni e ai suoi gusti. La sua gioventù rovinata prima da una lunga malattia, poi da dissesti di affari non gli aveva permesso di sviluppare tutte le facoltà dell’intelletto. La madre, che lo adorava, non se l’era mai spiccato dal fianco, proteggendo col suo soffio innamorato la fragile salute di lui, tenendolo vivo a furia di cure e d’affetto; ma quando, fatto uomo, volle