La Dama della Regina/VIII
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VIII.
In quegli anni pieni di avvenimenti minacciosi, prima di partire per la campagna, i signori possidenti dovevano pensare a varie cose poco piacevoli. Innanzi tutto ora d’uopo prevedere gli eventuali sbarchi di corsari o armatori: il passaggio di truppe schiavone: poi la fermata di qualche nave da guerra francese o inglese con sbarco di ufficiali. E per queste diverse eventualità conveniva istruire i servi che rimanevano a custodia delle abitazioni e impartir loro gli ordini relativi. Trattandosi di ufficiali francesi o inglesi l’ordine era di accoglierli gentilmente in podesteria e mandare subito un espresso ai padroni che sarebbero venuti, o avrebbero mandato qualcuno ad incontrarli. I militi schiavoni, conveniva nutrirli e, se dovevano passar la notte in paese, ricoverarli nel cortile a porticato della podesteria e nel chiostro di un vecchio convento dove non vivevano più che due soli frati. Quanto ai corsari poi, bisognava stare bene in guardia: dar loro i viveri che chiedevano ed anche un po’ di denaro, a patto che se ne andassero al più presto.
Il denaro occorrente rimaneva depositato nelle mani del segretario del podestà, uomo integerrimo e abbastanza scaltro. Di solito però i corsari non entravano in paese e trattavano gli affari alla spiccia. Temevano troppo di essere sorpresi da qualche grossa nave da guerra, specialmente inglese.
Provveduto così a tutte queste eventualità, i signori potevano far le valigie e partire con una relativa sicurezza.
Le loro case di campagna erano quasi tutte semplici e solide sul tipo di quella dei Castellani, che era la più bella. Quelli che le avevano fabbricate si erano preoccupati evidentemente di tenersi quanto più potevano lontani dal mare. La sola casa del capitano Cori sorgeva sulla costa. Quelle dei Castellani, delle Alvisi e di Ettore Almerighi si trovavano a poca distanza l’una dall’altra, riparate dal promontorio su cui sorgeva quella del capitano Gori e dal grande bosco di quercie che sembrava avvolgerle come in un gran manto, quando le piante rinverdivano. La casa dell’Alessandri stava un po’ discosta dal primo gruppo, e la circondavano quindici o venti casuccie di contadini, una specie di villaggio appena abbozzato, con la sua chiesetta, una bottega di commestibili e l’immancabile osteria. Non molto lungi di là verso levante, si nascondeva tra i cipressi ed i pioppi la bella casa del gran cacciatore Virgilio de’ Grassi e un po’ più in là ancora, era quella assai rustica di Annibaie Rigo, in mezzo ai campi, coltivati con tanta cura che non un pezzetto di terreno rimaneva infruttuoso.
La vita di campagna non era molto diversa da quella che i signori possidenti menavano in quel loro borgo illustrato pomposamente col nome di città.
Gli uomini andavano quasi tutti a caccia: anche se uscivano a diporto o per sorvegliare i lavori campestri, portavano sempre il fucile e li seguiva il fido cane. Aurelio che aveva fatto in Africa la grande caccia, trovava insulse quelle caccie troppo famigliri; ed Ettore Almerighi, sempre di gusto opposto ai più, odiava ogni sorta di caccia, forse appunto perchè i suoi concittadini ne andavano pazzi; ma sopra tutto egli odiava le uccellande, passione dell’arciprete, che faceva il viaggio innanzi e indietro un paio di volte la settimana per rimanere ore ed ore chiuso nell’uccellanda di casa Castellani. Sua sorella e la signora Alvisi andavano qualche volta a trovarlo in quel suo regno, quasi sempre per farlo arrabbiare perchè chiacchieravano.
Di solito però le due signore passavano la giornata in giardino, dove donna Anna Maria riceveva quasi tutti i giorni le solite visite. Vi capitava pure la nipote del podestà, la timida Irene, sul suo asinello, che: ella non era mai stata capace di montar a cavallo. I cavalli le facevano paura. Là, nel vecchio giardino, l’esile corpo abbandonato su una sedia a sdraio, ella rimaneva ore ed ore, con le gambe al sole, come le ordinava il medico; il bel visetto color della cera illuminato da un vago sorriso e gli occhi fisi nel cielo, seguendo gli aerei viaggi delle nuvole e interpretandone gli aggruppamenti e le mutevoli forme, con bizzarre immagini. Le sfuggivano a volte esclamazioni di meraviglia, parole di ammirazione.
— Cos’hai, cara? — le chiedevano gli astanti.
— Cosa vedi di straordinario?
— Guardate, oh! guardate — ella diceva. — Non vedete una donna con la corona? Essa fugge: Un leone la insegue... Com’è grande il leone!. Non vedete?... E là in fondo sta un gigante......
Tutti guardavano, ma nessuno riesciva a cogliere le immagini indicate tra quelle forme confuse.
E la bimba alzava le spalle con un sorriso di compassione. La sola Elena sapeva seguirla in quelle fantasie. Ma Bianca che non poteva soffrire quel giardino dalle linee classiche, dai colossali cipressi, conduceva Elena via di là, nel bosco, o nel giardino di Ettore Almerighi assai più ridente.
Bianca era malinconica. Suo padre non le aveva scritto che due volte, ed ella se lo figurava sempre in pericolo, in mezzo alla guerra civile, in Vandea, o in Brettagna. Si diceva vagamente che la Vandea era vinta, che Hoche l’aveva ridotta a sommettersi; ma Bianca conosceva troppo suo padre: «Se non è morto — ella diceva — se non è prigioniero, in qualunque luogo si trovi, egli non pensa che alla contro-rivoluzione e la rianima, o la rinnova con tutte le sue forze».
Elena che era divenuta la sua inseparabile compagna cercava di consolarla con buone parole di speranza e alcune di quelle logiche considerazioni, che noi troviamo tutti assai facilmente per consolare i dolori altrui, mentre le rigettiamo quasi con disprezzo quando si tratta di noi stessi. Ma Elena aveva una dolce voce e le sue parole se non potevano convincere la dolente emigrata, le scendevano al cuore come una carezza. Con essa e con Ettore Almerighi, che si recava tutt’i giorni a casa Castellani, Bianca passava le ore più gradite. Facevano insieme lunghe passeggiate, qualche corsa a cavallo e lunghissime soste nel bosco, sotto le annose magnifiche querce dai poderosi rami, dalle ombrose fronde. Qualche volta anche Aurelio prendeva parte alle passeggiate, se non aveva troppo da fare, o se non reclamavano la sua compagnia gli altri amici, sua madre e i suoi zii. Il capitano Gori, Virgilio de Grassi e Annibale Rigo, sempre in collera con Ettore Almerighi lo sfuggivano: anche l’arciprete e il podestà, se pure non lo sfuggivano, lo trattavano con freddezza, dopo la famosa scenata. Almerighi invece si divertiva a salutarli con la massima cordialità appena li incontrava, e a metterli in imbarazzo.
Quando Aurelio si univa ai giovani, le soste nella foresta divenivano più brevi; più lunghe le camminate.
Aurelio non poteva stare in ozio e non era più — diceva egli — abbastanza giovine nè ancora vecchio da dedicarsi alle lunghe meditazioni. Se stava nel bosco, gli piaceva leggere, altrimenti voleva camminare: e camminare pei vedere.
Essendo stato molti anni lontano da quelle campagne, e poco smanioso di visitarle durante i periodici ritorni in famiglia, egli vi trovava sempre qualcosa di nuovo, o di dimenticato che risorgeva improvvisamente nel suo spirito con una quantità di particolari della sua infanzia e della prima giovinezza. Là era stato con suo padre un giorno d’autunno: voleva ritornarvi. Gli amici lo seguivano ascoltando con deferenza ciò che egli raccontava, tanto più che Aurelio sapeva raccontare. Camminavano, quando il sentiero lo permetteva, tutt’e quattro in fila: le due donne nel mezzo, Aurelio vicino ad Elena: Ettore al fianco di Bianca.
Se capitava una traversata difficile, un fosso da saltare od un ruscello, da passare al guado, Aurelio offriva il suo appoggio ad Elena, che faccettava con gioja: Ettore a Bianca; ma Bianca spesso si schermiva. A volte anche Elena rifiutava perchè le pareva che il cugino facesse per complimento; egli allora l’afferrava alla vita e se la portava in braccio come una bimba, sottile e leggera, benchè già alta. Ella andava in collera a quelle mosse.
— Non son più una bimba! — gli gridava fissandolo con i grandi occhi velati di tristezza. — Non voglio che tu mi tratti come una bambina: avrò diciott’anni a Natale.
— Hai ragione, non sei più una bambina — rispondeva egli malinconicamente. — Ma io sono vecchio: ho il doppio anni di te!..
Tali parole dispiacevano a lei sovra ogni cosa: protestava energicamente: non era vero: non aveva il doppio anni di lei!
Aurelio rideva, scherzava: voleva darsi a credere che fossero giuccherie non più adatte alla sua età; ma in fondo al cuore l’ingenua tenerezza della fanciulla gli dava un compiacimento dolcissimo.
Ettore tremava quando Bianca gli sfiorava il braccio; quando si appoggiava a lui, impallidiva. Il suo amore si era accresciuto nella lontananza; invano lo aveva combattuto; epperò non lottava più: si abbandonava al destino. Capiva bene che quella donna non sarebbe mai sua; che troppe difficoltà esistevano e quasi insormontabili; ella non poteva rimanere eternamente là; ed egli non poteva seguirla; e poi, erano troppo diversi d’idee, d’abitudini, di tutto. Pure, in certi momenti una timida speranza gli scendeva al cuore; ma egli taceva, e nascondeva stoicamente l’ardore della sua passione perchè quella tenue speranza, simile ad una larva, non venisse distrutta, non dileguasse come un sogno. L’avvenire stava chiuso dinanzi a lui, come da un muro alto e possente; tuttavia, non avvengono a volte tali scosse titaniche capaci di spezzare muri fortissimi? Non poteva sopraggiungere un cataclisma?...
Forse egli l’attendeva; i tempi si mostravano propizi alle più strane cose. Non tentava nulla per affrettare gli avvenimenti: non voleva: preferiva attendere. Impetuoso, intraprendente, capace di rischiare tutto per una idea, forse per un capriccio, sembrava l’ultimo uomo al mondo capace di rassegnarsi ad un amore fatto di rinunzia e di sacrificio. Per comprenderlo era d’uopo studiario attentamente, non tener conto de’ suoi sarcasmi, nè de’ suoi paradossi, i quali non rivelavano che la parte più superficiale del suo carattere. Chi fosse riescito a penetrare nel suo animo vi avrebbe trovato una delicatezza squisita e l’orrore di ogni violenza. Era forse un debole? Egli si poneva talvolta questo problema: Cosa avrebbe fatto un uomo forte al suo posto? Come avrebbe agito? Rispondeva con un sorriso ironico. La risoluzione virile l’aveva presa quand’era partito per Venezia col proponimento di non ritornare. Ma poi? Cosa ne aveva ricavato? Giorni amarissimi, un disgusto profondo di tutto ed un aumento di passione. Non voleva ricominciare. Preferiva essere debole e godere quel po’ di bene che il destino gli concedeva. Non era più saggio? «La saggezza in che cosa consiste? Nei grandi gesti di superbo rifiuto, o nell’accontentamento, sia pure incompleto, di un bisogno impellente?».
Non s’accingeva a sciogliere questi problemi. Già, egli non aveva mai aspirato alla saggezza. Fin da piccino, un giorno che gli toccò di leggere la famosa favola «La cicala e la formica» e il buon maestro si sfiatava per fargli ammirare la saggia previdenza della formica, egli aveva risposto audacemente: «La formica è un insetto odioso; mi piace più la cicala.»
Per non soffrire eccessivamente e sopportare la sua sorte, egli si era fatto un programma di vita, appena ritornato da Venezia: non spingere mai il pensiero oltre il domani: godere con tutta l’intensità di cui era capace il piacere dei ritrovi innocenti; essere felice d’uno sguardo, di un sorriso, d’una inflessione di voce più tenera, di una stretta di mano. Così, poco a poco, il suo amore per quella donna, si accrebbe dell’amore, in lui innato, per le cose impossibili: e s’innamorò delle proprie sofferenze: s’innamorò del sogno per il sogno ed aspettò il miracolo dell’amore, il grande miracolo che innalza i cuori e sa tramutare in verità tangibili le più ardite e meravigliose fantasie dello spirito. Poeta, nato per creare, egli creava in sè un uomo nuovo, spiritualmente perfetto, spoglio d’ogni egoismo e sempre più lontano dalla vita comune; non già come il povero viandante che abbagliato da un fallace miraggio va alla rovina, mentre crede di raggiungere la diletta casa; bensì come uno spirito superiore, che, in un istante di suprema tensione, riescisse a staccare dall’involucro di creta gli elementi eterei che lo compongono, senza perdere la coscienza della vita. Terribili sforzi, istanti paurosi, nei quali la ragione pende a un filo sovra un mare di tenebre; ma per coloro che ne sono capaci, sforzi pieni di fascino, istanti di ebbrezza innenarrabile.
Bianca di Verdier, se pure non penetrava in fondo all’anima del suo singolare innamorato, ne intuiva il nobile amore e gli era grata di quella discretezza, di quel tenero, rispetto, per cui ella poteva concedersi il piacere di tenerselo al fianco, di discorrere a lungo con lui, chiamandolo col dolce nome di amico. Ella sentiva per lui una viva simpatia; quanto più imparava a conoscerlo, tanto più lo apprezzava. Egli le piaceva anche per le sue contraddizioni, per le sue bizzarrie, perchè da queste pure traspariva l’animo generoso e delicato.
Così la giovine vedova che non voleva più amare, si abbandonava ai teneri sentimenti e si compiaceva certo di avere ispirato un così nobile amore all’uomo più interessante ch’ella avesse conosciuto nel suo esilio.
Lo amava? È probabile ch’ella non si ponesse tale quesito. Forse non vi pensava neppure. Parlando di lui, qualche volta, con Elena, lo lodava sempre; ma lodava anche Aurelio, senza però nascondere la sua preferenza per Ettore, che ella diceva più vivace, più originale, plus curieux.
A volte ella esternava una specie di meraviglia che gentiluomini così distinti si rassegnassero a vivere in un ambiente così ristretto, o in quella «triste Venezia». Ma non accennò mai alla possibilità di rimanere, ella, nel paese; anzi esprimeva spesso la speranza e il desiderio di raggiungere il padre e di accompagnarlo nell’esilio fino al giorno in cui il re trionfante ritornerebbe in Francia. Dunque?.. Chissà! Il suo segreto rimase inviolato per tutti quelli che l’hanno conosciuta nel paese. Certo, se la preferenza, il desiderio continuo di stare con una persona sono sintomi d’amore, si dovrebbe dire che la giovine emigrata amava veramente il poetico rivoluzionario.
Ma il conte Aurelio, osservatore e pensatore più calmo, rifletteva che la dama di Maria Antonietta, per quanto avesse vissuto alla corte di Francia negli anni burrascosi, doveva avervi contratto abitudini e bisogni di svago, che ella aveva forse potuto soddisfare anche alla corte clandestina del conte di Provenza — Luigi XVIII — ma che nella misera cittaduzza non potevano trovare alcun contentamento. Secondo Aurelio dunque, la bellissima giovane signora si annoiava; e l’amore di Ettore Almerighi bizzarro e fantasioso era per lei una potente distrazione.
Troppo assoluto, probabilmente, troppo pessimista questo giudizio del conte: sebbene naturale in lui. Forse Bianca corrispondeva, se non con molto ardore, con sufficiente tenerezza all’amore di Ettore; e si dominava e voleva mantenere i suoi sentimenti nel sereno campo dell’amicizia solo per la consapevolezza delle insuperabili difficoltà che si sarebbero frapposte alla loro unione; ed una di tali difficoltà, poteva anche essere la ripugnanza di lei stessa a passar la vita in quel misero borgo ed anche a Venezia, l’unica grande città dove Ettore Almerighi, possidente istriano, avrebbe potuto stabilirsi. Comunque fosse di ciò, la villeggiatura, in quell’annata così minacciosa, fu assai dolce per i due giovani. In quella quotidiana vicinanza le loro relazioni divennero più facili, più liberi gli atteggiamenti, che sotto il velo della blanda amicizia manifestarono poco a poco il carattere, la poesia, l’incanto di un vero idillio.
L’aria mite, le fragranze dei fiori, i tramonti dorati e la deliziosa foresta incorniciavano divinamente l’idillio beato. Ogni giornata preparava un nuovo incanto a quelle delicate e pensose anime. Quell’autunno fu veramente una sosta paradisiaca in mezzo alle tempeste; un tramonto roseo sotto le tenebre incombenti. L’amore non confessato che si appalesa involontariamente ad ogni sguardo, ad ogni accento, è come una musica lontana, che giunge al nostro cuore più intelligibile che all’udito, apportatrice di misteriose ebbrezze, di arcani, deliziosi turbamenti. Le anime sentimentali non dimenticano mai più quel dolce tempo.
Nella foresta, o nel giardino della villa Almerighi così ricco di fiori e di piante rare, le due coppie passavano i tepidi pomeriggi, leggendo o conversando, intrecciando corone o formando magnifici mazzi con i bellissimi fiori, che il giardino di Almerighi forniva in sì gran copia. Il giorno della vendemmia nella grande possessione dei conti Castellani fu una vera festa; e la sera ballarono. Aurelio ne approfittò per pacificare Ettore col capitano Gori; o meglio per pacificare quest’ultimo, perchè Ettore non era punto in collera: si prestò anzi volentieri a fare i primi passi, chiedendo scusa, al parente attempato, delle parole troppo vivaci sfuggite al suo labbro in un istante d’eccitazione. In tal modo la pace fu fatta anche con Annibaie Rigo e col gran cacciatore: l’arciprete e il podestà, meno offesi avevano già dimenticato.
Nelle altre possessioni si vendemmiò un po’ più tardi, così le feste si prolungarono. Per fortuna, in tutto quel mese, neppure uno sbarco importuno. Il tempo era sempre bello, il mare placido e le navi filavano. I corsari predavano probabilmente in alto mare.
Un giorno d’ottobre, tornando dai suoi campi, Aurelio s’avviava alla grande quercia dove i suoi tre compagni l’attendevano intorno alla tavola di pietra. Approssimandosi sentì la voce di Bianca recitare una composizione in versi nella sua lingua; alcuni passi più innanzi s’accorse che ossa leggeva e si fermò ad ascoltare.
Dolci e malinconici erano i versi. Il poeta aveva dato forma lirica ai lamenti, alle speranze, ai voti di una giovine prigioniera che temeva di essere condannata, e non voleva morire ancora. No, ella non voleva morire, perchè era giovine, perchè era bella, perchè aveva diritto di vivere, come la spiga immatura, come i pampini verdi. Ella non voleva l’orribile morte. La sua vita breve si era svolta in mezzo alle tempeste, ai turbini, in continua tristezza: ma ella sapeva che non tutti i giorni sono così brutti; sapeva che vi sono giorni belli, deliziosi: ore dolci; e il suo cuore pieno d’illusioni sperava di godere alcuni di quei bei giorni, di quelle dolci ore... e non voleva morire prima. La morte doveva allontanarsi da lei; lontano, lontano doveva andare; doveva colpire i disperati, gli stanchi della vita; i vecchi insecchiti, col cuore logoro da rimorsi... ella era giovine: ella sognava la dolcezza dell’amore, e non voleva morire ancora.
La voce della lettrice già illanguidita si spense in un singhiozzo. Anche Elena, anche Ettore avevano gli occhi umidi di pianto.
— Di chi sono questi versi? — domandò Aurelio.
— Di Andrea Chénier. Durante la sua prigionia alla Conciergérie egli sentiva i lamenti di una giovinetta prigioniera, e sebbene oppresso e triste a sua volta, diede forma poetica ai pensieri della fanciulla. Ecco, le due ultime strofe lo dicono.
Bianca riprese il manoscritto e lesse:
«Ainsi triste et captif, ma lyre, toutefois,
«S’évellait écoutant ecs plaintes, cotte voix,
«Ces veux d’une jeune captive.
«Et secouant le joug de mes jours languissants,
«Aux douces lois de vers je pliais les accents
«De sa bouche aimable et naïve.
«Ces chants de ma prison temoins harmonieux
«Fairont à quelque amant dee loisirs studieux
«Chercher quelle fut cette belle:
«La grace décorait son front et ses discours:
«Et comma elle craindront de voir finir leurs jours
«Ceux qui les passeront pres d’elle».
Come avete avuto questi versi? — domandò ancora Aurelio.
— Una mia amica, rimasta a Parigi potè averne una copia e me la mandò mentre ero a Torino. La stessa mi scrisse poi che la giovine prigioniera era la signorina de Coigny che fu liberata, mentre il povero poeta moriva sul patibolo come ben sapete.
— Povero Chénier! Ed era egli pure un figlio della rivoluzione, come Camille des Moulins, come tanti altri che furono massacrati.
— Des Moulins non mi fa compassione: ha votato la morte del re. Chénier ed altri non meritavano quella fine, ma i veri democratici, i più abbietti e infami uomini, volevano distruggere tutto ciò che la Francia aveva di bello, di grande, per trascinarla nel loro fango.
Ettore si scosse a tali parole. Sapeva bene che la figlia del marchese di Verdier, vedova del cavaliere di Clarance, dama di Maria Antonietta, pensava a quel modo; sapeva tutto da un pezzo; pure in quel momento, chi sa per quale particolare eccitabilità, egli se ne adirò.
Con voce di collera mal contenuta egli proruppe:
— Non dite questo, signora! Non è vero. Non tutti i veri democratici sono quali voi li dipingete. Voi calunniate con le vostre parole troppi uomini onesti e d’alto sentire: calunniate anche la vostra patria.
Severe parole. La voce per altro, aspra in sul principio, s’era addolcita a poco a poco.
Bianca scattò.
— La mia patria?.. Io non ne ho più. La Francia repubblicana non è la mia patria. Io non la riconoscerò fino a che essa non avrà riconosciuto il suo legittimo re.
Ettore non seppe trattenere un significativo movimento di spalle.
Aurelio ed Elena non si mossero e non parlarono.
— Voi non credete? — domandò la dama in aria di sfida.
— Non credo che i Capetingi possano riconquistare così presto il trono di Francia; e, se devo dire la verità, spero che ciò non avvenga mai. Sarebbe un disastro enorme, e non solo per la Francia.
Bianca tacque un istante quasi atterrita. Volse uno sguardo in giro, pallida, tremante: guardò il suo contradditore e mormorò:
— Voi parlate così, voi... che mi dimostrate tanta amicizia!...
— Più che amicizia, Bianca: più assai che amico io vi sono. Darei la mia vita per voi; ma avrei vergogna di voi e di me stesso, se non vi dicessi la verità.
Un lungo profondo silenzio seguì alle ardenti parole.
Bianca piangeva sommessamente col volto sulle palme delle mani. Gravi momenti passarono inavvertiti. Sullo spiazzato di un verde intenso sparso di foglie ingiallite, la colossale quercia centenaria allungava sempre più l’ombra sua gigantesca, che già si mischiava con le ombre minori.
Ettore finalmente si alzò e fece il giro della tavola per accostarsi a Bianca Verdier che sedeva di fronte a lui.
— Bianca — egli disse — non piangete così. Vi prego non piangete. Io non credevo di offendervi esprimendo quello che penso. Se l’avessi sospettato, avrei taciuto.
— Oh! non è l’offesa che mi rattrista tanto. So che non avete voluto offendermi. Ma io credevo... speravo... oh! che illusione mi ero fatta! — Rise di un riso stridulo che finì in un singhiozzo.
Elena sbigottita abbracciò l’amica, le accarezzò i capelli, parlandole a bassa voce per confortarla.
— Quale illusione, Bianca?.. Quale?.. Dite...
Ella alzò il capo e lo guardò traverso le lagrime. La commozione, gli occhi natanti, le guance arrossate, i capelli sollevati, come un’aureola luminosa, le davano una bellezza nuova, irresistibile. Ettore fremeva guardandola.
— Oh! una illusione folle!... Mi pareva... speravo.. che, per me, per l’affetto... di vero amico che mi portate, avreste modificate almeno in parte le vostre idee.. almeno per ciò che riguarda la Francia.. M’illudevo che la restituzione dei beni ai nobili.. la restituzione del trono ai legittimi eredi dovesse sembrarvi una cosa equa....
— Dei beni personali?.. Ma sì, certo! ai nobili ed anche ai superstiti della famiglia reale... Ma non il potere, non i privilegi... Oh! Bianca; non tormentiamoci per queste cose... Ciascuno pensa come la natura e le condizioni della vita gl’impongono di pensare... Io non posso mutare le mie idee, e se le mutassi, forse voi stessa non mi stimereste più. Non scrollate il capo: è così. Non vi ricordate con quale severità avete giudicato il vostro amico d’infanzia, il nobile Paolo di Saint-Morlain?
— K tutt’altra cosa...
— E la stessa cosa... Se sapeste come soffro di non potervi assecondare: se vedeste lo strazio del mio cuore, avreste pietà di me...
— Perdonatemi - ella disse sospirando e porgendogli la mano. — Anch’io soffro. Andiamo a casa. I nostri compagni ci hanno lasciati.
— Aurelio se ne è andato quando vi ha vista piangere.
— Ed ora Elena... Cattivella!..
Ella si alzò e s’appoggiò al braccio che egli le porgeva. Senza volontà, spinto da un impulso onnipossente egli le cinse la vita, la serrò al suo petto.
— Ti amo, Bianca!.. Ti amo tanto!
Appressò le labbra anelanti alla bionda testa e ne baciò i capelli, la fronte, gli occhi..
Ella mandò un grido e si sciolse da lui impedendogli di baciarla sulle labbra; poi si mise a camminare in silenzio. Egli la seguì. Camminarono uno vicino all’altra senza toccarsi; Ettore a occhi bassi, pallidissimo, scosso da piccoli brividi; ella, eretta, fermo lo sguardo, ma ugualmente pallida. Dopo alcuni istanti, mormorò sospirando:
— Perchè l’avete detto, Ettore?.. Era così bello il silenzio.
— O Bianca, ho taciuto tanto e con tanta pena.
— Bisognava tacere sempre. Ora l’incanto è finito.
— Finito? — Egli si arrestò. — Finito?.. Come intendete?.. Mi fate morire...
— Camminiamo.
Ripresero il cammino, sempre vicini, ma staccati.
— Spiegatevi, Bianca! Spiegatevi. Perchè è finito l’incanto? Perchè vi ho baciata... perchè vi ho detto il mio amore? L’ignoravate forse?..
— Quand’è detto, è un’altra cosa. E voi avete fatto peggio....
— O Bianca!.. Un purissimo bacio!...
— Sì: ma l’incanto è spezzato. Io non potrò più passeggiare con voi nel bosco, senza timore... senza un’intima inquietudine. Non potrò più godere queste ore deliziose, perchè non potrò più ingannarmi su i nostri reciproci sentimenti. Resterò chiusa nella camera ospitale finchè mio padre verrà o manderà qualcuno a prendermi.... Oppure, se egli non potrà venire, nè mandare... entrerò in un convento. Ve ne sono tanti in Italia...
Egli stese un braccio su lei per trattenerla: ella si mise a correre traverso il bosco.
Ettore la raggiunse.
— No, Bianca, no, per carità!.. Vi giuro che non vi dirò più una parola d’amore. Ritornerò come prima un amico umile, devoto, sommesso... Ma non parlate di non vederci più, o di chiudervi in un convento... Mi ucciderei!...
— Non vi ucciderete: non voglio, io.
Egli cercò di ricomporsi. Si rimisero a camminare, ma ella vacillava.
— Appoggiatevi a me. Non temete: non farò più pazzie: sarò savio. Parleremo d’arte, di politica: mi direte insolenze, poi rideremo. Oh! grazie, grazie, Bianca: non siete più in collera.
— Povero amico mio! Non sono in collera: ma l’incanto è spezzato: l’illusione non è più possibile... Voi mi amate.. e io vi amo.
— Ah!.. io divento pazzo... Mi amate?! Mi amate, e dite che l’incanto è finito?.. E il cielo che si apre: l’estasi divina scende nelle nostre anime... Bianca!.. O Bianca! Voi mi amate.... E io non sono pazzo? Non è un sogno folle il mio?.. No. Voi mi amate... Oh, siate benedetta per la gioia divina che m’avete data con questa parola.
Stendeva le braccia, anelante, verso di lei per stringersela al cuore. Con un gesto solenne Bianca lo arrestò.
— Guai a voi se mi toccate. Questo amore segna la nostra separazione: perchè io ho giurato di non amare più: ma quand’anche io potessi credermi sciolta dal giuramento, sarebbe lo stesso. Io non potrei mai unirmi per la vita ad un uomo che pensa come voi pensate e che non può mutare. Mio padre mi maledirebbe. Addio.
Erano arrivati al cancello della villa: Bianca rientrò rapidamente. Ettore Almerighi la seguì con lo sguardo fino a che la vide sparire nella casa...