La Dama della Regina/IX
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IX.
Il tristo proposito di Bianca trovò un coefficente nel mutamento della stagione. Subito quella notte una pioggia torrenziale innondò le viottole del bosco e strappò una quantità di foglie producendo molte radure nel bel manto autunnale delle nobili piante. Vennero poi le nebbie fredde: le fitte caligini fattrici di naufragi: il gelido aquilone, la furiosa bora flagello di quelle coste. Addio passeggiate deliziose, addio soste indimenticabili nella foresta. Anche il giardino era troppo umido e freddo. Stavano tutti in casa intorno al camino. Bianca si diceva indisposta e rimaneva chiusa nella sua camera.
Navi italiane e navi straniere venivano immobilizzate dalle nebbie o dai venti contrari: il porto s’empiva di barche. I signori villeggianti dovettero lasciare le piacevoli case di campagna e ricondursi nella loro misera città. E qui da capo, la solita vita: sbarchi di ufficiali, sempre più frequenti, e quindi pranzi, cene e feste da ballo; e sempre nuove spese. Anche volendo gli ufficiali non potevano dare qualche cena o qualche festa da ballo a spese proprie: la famosa città non aveva alberghi, nè locande adatte — allora non si parlava di «ristoranti». I signori possidenti facevano fronte a tutto e, naturalmente, non accettavano compensi. L’ospitalità era ancora — almeno in quei paesi — un obbligo d’onore. Alcuni, come il capitano Gori, Ettore Almerighi e Virgilio de’ Grassi, essendo ancora abbastanza ricchi, non badavano neppure a quelle bazzecole; e l’Alessandri, il Castellani e il Rigo, che avevano già il piede sullo sdrucciolo, vi badavano anche meno: discendevano spensieratamente come la loro Repubblica, come tanta parte dell’aristocrazia veneta scomparsa nel vortice. Vi erano per altro ufficiali francesi ai quali dispiaceva di non compensare in qualche modo il disagio di cui erano causa; e non credevano sufficiente il dare una mancia ai servi.
In novembre, gli ufficiali di una nave che «la bora» aveva trattenuta parecchi giorni nel porto, e che avevano pranzato e cenato ripetutamente alla podesteria e in casa Castellani, andarono a congedarsi recando grossi gomitoli di filo d’oro che presentarono alle signore «per ricamare».
— È di moda a Parigi — dicevan gli ufficiali. — Tutte le signore ricamano o fanno ricamare in oro le loro vesti. Anche Bianca ebbe il suo gomitolo, che ella accettò sorridendo. Quando gli ufficiali furono partiti ella spiegò che il ricamo, in fondo, era un pretesto per regalare, sotto un aspetto di poca importanza, un vero valore. Le signore — era cosa sottintesa — disfacevano i gomitoli, separavano dalla seta l’oro, sempre purissimo, e lo vendevano agli orefici; alcune soltanto ne trattenevano una parte per ricamare qualche cosuccia.
Le signore risero. E donna Anna Maria disse a sua cognata.
— Noi ricameremo.
Ricamarono tutte, poichè sapevano ricamare; e poi che altri gomitoli preziosi sopraggiunsero da parte di altri ufficiali, ricamarono tutto l’inverno. Donna Anna Maria fece un magnifico tappeto: la signora Emilia un cuscino ed altri gingilli: Elena una cartella per lo scrittoio di Aurelio e una bella sciarpa per sè: Bianca un velo da ciborio per l’altar maggiore del duomo e una stola per don Ludovico.
Dopo il ritorno dalla campagna Bianca Verdier non mandò ad effetto il triste proposito di starsene chiusa nella sua camera. Comprese che era assurdo e che ella stessa non avrebbe potuto resistere a simil vita. Ettore, come le aveva promesso in una lunga commoventissima lettera, non si permetteva la più lontana allusione al confessato amore. Ella intervenne anche alle feste da ballo, perchè la sua astensione, male interpretata da qualche ufficiale fanatico, non cagionasse ulteriori fastidi ai suoi ospiti.
E per lei, che l’aria di mare, e forse anche l’amore rendevano ogni giorno più bella; e per Elena che avendo raggiunto i suoi diciott’anni brillava ormai del più vivo fulgor giovanile; ed un po’ anche per la moglie del dottor Volpi od altre cinque o sei ragazze, di una bellezza meno squisita, ma fresche o sgargianti, la cittaduzza acquistava fama di possedere le più belle donne dell’Istria. Gli ufficiali delle navi francesi o inglesi, che per una o per altra ragione politica solcavano l’Adriatico, erano felici se un vento avverso, od una stagnante bonaccia li obbligava a sostare nel piccolo porto.
A poco a poco, vinto dalla sua fatale passione Ettore si sottometteva completamente alla volontà della signora di Clarance e sosteneva di buona grazia la difficile parte ch’ella gli aveva imposto. La vedeva tutt’i giorni in casa Castellani; le mandava il solito omaggio di bellissimi fiori che il suo giardiniere coltivava appositamente nella serra; alle piccole feste poteva ballare con lei come con le altre, purchè non cercasse di coglierla sola. In compenso ella gli rivolgeva da lontano i suoi più dolci sorrisi; gli parlava con un tono di voce speciale che era tutta una carezza; portava quasi sempre alla cintura alcuni fiori scelti tra quelli che egli le inviava; e se ne adornava i capelli quando andava alle teste da ballo. Egli le scriveva spesso, ed ella gli rispondeva di tratto in tratto. Ardenti e appassionate le lettere del giovine, piene di malinconia e di lagrime rattenute quelle della dama. Ella gli ripeteva sempre che quell’amore era impossibile che non doveva mai nascere nei loro cuori: se era nato dovevano soffocarlo; perchè ella non poteva più ricominciare la vita: e poi, egli sapeva bene, una barriera infrangibile, per quanto immaginaria, li separava: barriera d’idee: barriera inespugnabile. Perciò lo pregava caldamente, non le parlasse mai più d’amore, neppure in iscritto; meglio che non le scrivesse affatto; era troppo grande il dolore che le cagionava.
E il giorno appresso, egli la trovava così pallida, così abbattuta, che non poteva resistere allo struggimento della pietà: e tornava a scriverle per rassicurarla che non le scriverebbe più lettere appassionate. Ma dopo una settimana ricominciava. Oh! gli lasciasse almeno il conforto di espandersi con lei per iscritto: non gli togliesse tutto, non volesse ridurlo alla disperazione.
Un martirio, un dolce martirio, nel quale Ettore Almerighi, il fiero, il risoluto, il beniamino delle dame veneziane, consumava la sua vigorosa gioventù. Cosa poteva fare? Bianca gli aveva confessato d’amarlo; ed egli non poteva dubitare della sincerità di quella confessione. Non era tutto il contegno di lei ancora e sempre una confessione d’amore? I suoi silenzi, i suoi sorrisi, le lagrime mai rattenute, le lettere dolorose che ella gli scriveva, le ripulse, le preghiere, non era tutto ciò un delizioso e forte e straziante linguaggio d’amore? Se non l’avesse amato perchè avrebbe sofferto così?..
Se non l’avesse amato l’avrebbe mandato via bruscamente: doveva esserne ben capace. Una finzione?... A quale scopo?... Per divagarsi dalla immensa noia, come insinuava Aurelio?..
Ah!.. no!.. Quella supposizione appariva eccessivamente meschina al generoso innamorato. Bianca non aveva mentito: lo amava: soffriva al pari di lui. Egli non poteva dubitarne.
Poteva fuggirla, avendo tale certezza? Mostrarsi meno amante, meno eroico di lei?... Ricordava sempre le ultime parole che ella gli aveva dette presso il cancello della villa Castellani: «Non potrei mai, in nessun caso unirmi ad un uomo che pensa come voi... Mio padre mi maledirebbe».
Erano dunque le sue opinioni politiche la causa della comune infelicità?... O la fede eterna giurata sulla tomba del morto?.. Un puntiglio... una follia? Oh! gli pareva d’impazzire.
Ettore Almerighi non era certamente un ingenuo: aveva vissuto sufficentemente a Venezia, in una società abbastanza frivola e corrotta: conosceva la vita, gl’inganni... eppure... quando la sagacia di Aurelio gli suggeriva che forse Bianca si rideva di lui, da abile commediante, una ripugnanza invincibile, un nobile sdegno e un dolore senza nome lo obbligavano a respingere immediatamente quei dubbi giudicandoli indegni di lui. La sua natura aristocratica e il suo animo delicato non si smentivano mai. Ma neppure gli veniva in mente di modificare le proprie idee, i principi, le fedi per ottenere la mano dell’amata. La sola ipotesi di un suo accordo col marchese di Verdier, con l’inflessibile vandeano, servo fedele del supposto re di Francia, gli appariva così grottesca, che poteva farlo ridere anche in mezzo alle lagrime. No. Per quella donna egli avrebbe dato la vita, non la coscienza: se fosse stato capace di discendere a quel punto anche il suo amore si sarebbe disfatto nel fango — ne era convinto — perchè egli credeva fermamente che il grande amore nasce e vive soltanto nelle anime forti e generose. Se Bianca l’avesse veramente amato come egli avrebbe voluto, ella sì, nella sua qualità di donna, poteva rinunciare alle sue idee per abbracciare le fedi dello sposo, senza disonore, senza vigliaccheria: ella poteva essere illuminata dall’amore e ribellarsi alla tirannide paterna, era maggiorenne e vedova. Avrebbe potuto sposarsi subito e vivere felice... Ah! vani sogni!... Bianca aveva animo virile — egli la comprendeva: al pari di lui Bianca poteva morire per il suo amore, come per le sue fedi, per i suoi ideali. Non gliel’aveva ella scritto?... «Barriera d’idee, barriera inespugnabile». — Inutile!
— Sì, inutile:ma io l’amo e l’amerò sempre... —
E andava diritto a casa Castellani per rivederla, per riudirne la voce, per baciarle la mano.
Un giorno, in febbraio, mentre borea soffiava, lo scalpitare di varii cavalli insieme destò la curiosità del popolo inoperoso. Le donne corsero alle finestre. La figliola del maniscalco Folli riconobbe subito i cavalieri e annunciò:
— Gli ufficiali che furono qui l’anno passato in giuguo: quelli della Psiche.
Era il nome della fregata.
Aurelio andò ad incontrarli: li accolse come vecchi amici e li condusse in casa. Anche qui furono accolti con molta cordialità da donna Anna Maria e dai suoi amici: ma Ettore impallidì vedendo Paolo di Saint Morlain.
— Siamo stati in su fino a Trieste e fermi in quel porto per molti mesi; ora, nel ritorno, la vostra bora ci ha presi con tanta violenza da costringerci a riparare nel porto Rose. Appena abbiamo saputo che si poteva venir qui dalla parte di terra, abbiamo pensato di farvi una visita. Saint Morlain andò in cerca di cavalli e di una guida e siamo partiti stamattina sulle dieci. La strada è stata un po’ lunga.
— Lo credo! — esclamò Aurelio. — Lunga e cattiva, con le pioggie e la neve che abbiamo avuto. Avete trovato del ghiaccio e un cattivo andare con le bestie.
— Sì... oh! sì — dicevan gli ufficiali ridendo. — Qualcuno è sdrucciolato...
— Non fa niente — soggiunse un altro. — Ci siamo divertiti lo stesso. Per noi, prigionieri del mare, una cavalcata è un piacere raro.
Paolo di Saint Morlain si era accostato a Bianca.
— ... Marchesa di Verdier... — e s’inchinava profondamente.
— Conte di Saint Morlain, io sono la vedova del cavaliere de Clarance — rispondeva Bianca, inchinandosi a sua volta.
Seccata a morte la figliola del vandeano cercava di nascondere alla meglio il suo malcontento.
— Marchesa — riprese l’ufficiale — spero vi degnerete comprendere che io sono tornato qui per voi... Ardevo di rivedervi, di parlarvi.. ciò che l’anno scorso non mi fu concesso...
— Vi avranno detto che ero indisposta...
— Sì, marchesa, pur troppo. Oggi, grazie al cielo, state bene, come una dea..
— Avete notizie di mio padre, conte?
— Ah! sì; perdonate se non l’ho detto subito; perdonate alla mia commozione... Il marchese di Verdier sta benissimo adesso..
— Adesso?.. Dunque stette male prima?.. Ferito forse?
— Negli ultimi scontri con le truppe del generale Hoche, rimase ferito a una gamba... non gravemente: riparò a Brest, dove rimase nascosto in casa di amici. Finalmente potò mettersi in viaggio e lasciare la Francia. Ora è a Vienna...
Dopo queste notizie Bianca assunse a poco a poco un contegno meno ostile e la conversazione continuò.
L’ostinato Rignol, intanto, l’ex-terrorista, come l’avevano denominato, si accostava ad Elena e la colmava di complimenti, con grande noia della fanciulla.
«Ora non me lo tolgo più d’attorno» — pensava ella tra sè. — «Se almeno partissero presto: ma vorranno ballare».
Difatti, volevano ballare.
— Avete la musica, o dovete improvvisare un’orchestra come l’altra volta? —
Aurelio sorrise a quel ricordo e spiegò che da quel tempo le piccole feste erano diventate frequenti e tre sonatori di mestiere si erano stabiliti nel paese.
Furono serviti molti rinfreschi e il caffè e poichè si faceva già notte, Saint-Morlain osservò che era meglio cominciare il ballo presto perchè essi ripartivano a mezzanotte.
— A mezzanotte! — esclamò Aurelio. — Che idea!.. Potreste dormir qui e ripartire domani mattina: posso trovarvi l’alloggio.
— Grazie, mille grazie, siete molto cortese — rispose il colonnello. — Noi abbiamo promesso di essere a bordo prima di giorno. Partendo a mezzanotte la luna ci rischiarerà per tutta la strada, poichè la vostra bora mantiene il cielo sereno. Vi siamo ugualmente grati, tanto più che fate già anche troppo.
— Quand’è così — disse il podestà — vado a dare gli ordini necessari perchè la sala sia pronta per le sette.
— Ed io penserò alla cena — disse Aurelio; e volgendosi al Rigo: — Tu, Annibale, puoi andare per le case ad avvertire le solite signore di trovarsi in sala alle sette.
Elena e Bianca colsero con premura il pretesto dell’abbigliamento per sottrarsi ai loro assidui ammiratori, almeno per qualche ora. Appena fuori della sala, Elena domandò all’amica:
— Avete visto il pallore di Ettore?...
— Ho visto... Ma io non ne ho colpa!...
— ... Capisco... Cercate però di frenare quel Saint-Morlain.... Io ho paura....
— Paura?... Ah!... Temete un duello?
— Non si sa mai!...
La signora Alvisi interruppe il dialogo.
— Andiamo, Elena?...
Bianca si ritirò nella sua camera; le Alvisi andarono alia loro casa.
Gli ufficiali e gli altri amici restarono in sala con donna Anna Maria.
⁂
Quel ballo fu un vero supplizio per Ettore e per Bianca: una terribile noia per Elena. Paolo di Saint-Morlain non si sarebbe mai staccato da Bianca: l’ex-terrorista assediava Elena. Per fortuna gli altri ufficiali facevano del loro meglio per disputargliela. Appena in sala il colonnello l’aveva impegnata per il cotillon e tutti gli altri per un ballo almeno.
Ettore ballò una sola contraddanza con Bianca, poi non ballò più con nessuna. Egli provava quella sera, per la prima volta in vita sua lo spasimo atroce della gelosia. Tutti i sospetti e le sinuose viltà dell’immaginazione torturata, che egli aveva sempre respinti con disdegnosa fierezza, lo riassalirono furiosamente; lo dilaniarono. Tutto quanto aveva sofferto fino a quella sera era nulla: blande carezze erano quei tormenti. Capiva soltanto in quell’ora cosa volesse veramente dire lo strazio di un cuore, la follia della disperazione che può trascinare l’uomo più nobile e generoso all’estrema bassezza. Quando i suoi occhi mortali vedevano Paolo de Saint-Morlain prendere Bianca per mano, cingerle la vita col braccio e trascinarla seco nel vortice della danza, il misero giovane si sentiva ardere e gelare: e se pensava che quei due che giravano così stretti insieme, erano amici fin dall’infanzia, e avevano comune la patria, la favella, gl’ideali, l’odio divampava nel suo cuore... oh! come l’avrebbe strozzato quell’uomo, senza pietà, senza rimorso, nell’impeto cieco della sua fatale passione, se si fosse trovato solo di fronte a lui! Nè diversamente avrebbe agito Paolo di Saint-Morlain. Uccidersi, sbranarsi come i giovani tori che vivono liberi nelle pampas sconfinate, come i leoni nel deserto, non è forse il primo naturale impulso della esasperata gelosia?
Seminascosto nel vano di una finestra, celando agli astanti l’espressione tormentosa de’ suoi lineamenti, Ettore seguiva ogni atto, ogni gesto di Bianca e di Saint-Morlain: i suoi occhi indagatori penetravano nei loro cervelli, nei loro petti; ma non vedovano sempre il vero: non vedevano la noia, la stanchezza di Bianca. La gelosia li abbagliava e mostrava a quei poveri occhi, troppo avidi di scoprire la verità, i crudeli fantasmi delle sue febbri. Invano Bianca gli sorrideva di tratto in tratto, invano gli rivolgeva teneri sguardi. Una volta ella s’accostò a lui e dolcemente gli domandò perchè non ballasse più.
— Volete ballare con me?.. Sono libera...
Egli, fissandola con occhi torbidi e cipiglio feroce, le afferrò una mano e mormorò con voce fremente di passione:
— Venite con me, Bianca!... Andiamo via!..
— Dove?..
— Fuori, nella notte....
_ Oh!.. Vi sembrano proposte da farmi?..
— Allora.. niente! — E le voltò le spalle.
La dama stette un momento incerta, quasi atterrita; poi, vedendo che egli continuava a guardare da un’altra parte, si allontanò. Saint-Morlain le si fece incontro sorridente e le porse il braccio. Di botto Ettore si voltò, e la vide allontanarsi al braccio dell’ufficiale. Fu il tracollo; invaso da un impeto folle, fece qualche passo verso di lei con le braccia protese per afferrarla, per buttarla a terra, per batterla.... Dio! come la odiava!.... Un barlume d’intelligenza lo arrestò: ebbe orrore di sè: si voltò di scatto e fuggì dalla sala, fuggì dal palazzo, a capo scoperto, senza mantello, come si trovava. Traversò la piazza, nera, traversò qualche vicolo quasi di corsa, e arrivò al mare, istintivamente.
Muggiva il vento; le onde si innalzavano furibonde e ricadevano scroscianti sulla spiaggia.
Egli si arrestò: tremava tutto: gli battevano i denti come per lebbre e grosse goccie di sudore si diacciavano sulla sua fronte. La collera e la disperazione lo soffocavano. Pianse finalmente, ma con poche lagrime cocenti come bragie: i singhiozzi lo scotevano tutto e rimbombavano nel cavo petto. A poco a poco le lagrime gli innondarono il volto, scorrendo più libere. Si abbandonò su una larga pietra e restò là affranto, disfatto, quasi immemore. Pianse, pianse disperatamente, come piangono i poveri bimbi abbandonati; come piangono i vecchi, ai quali nulla più resta, nè speranze, nè sogni. Lungo fu il pianto... quando sembrava che cessasse, un nuovo sussulto, un nuovo schianto richiamava i singhiozzi e le lagrime affluivano più copiose Allorchè finalmente cessarono, esaurite, egli si guardò intorno stupito. La luna brillava in cielo. Ricordò improvvisamente che la luna sorgeva a mezzanotte o che gli ufficiali dovevano partire a quell’ora. Forse erano già partiti?.. O stavano per partire?.. Sentì qualche rumore: si alzò in piedi: fece pochi passi barcollando.
Partivano appunto gli ufficiali; erano già in sella; mandavano gli ultimi saluti. Ettore riconobbe la voce del Saint-Morlain, e ascoltò anelante, in una tensione spasmodica, se la voce di Bianca rispondesse a quell’ultimo saluto. Il cielo pietoso volle che la dama non si facesse sentire. Un cavallo si mosse, poi due, poi tutti insieme; e il rumore degli zoccoli sulla terra gelata rimbombava nel silenzio della notte.
Ettore seguiva quel rumore come in un sogno, immobile, quasi insensibile alle sferzate del vento che lo investiva da ogni parte.
Cessato che fu il rumor de’ cavalli, egli si riscosse, si mise in moto e andò diritto alla propria casa; dove giunto si buttò sul letto, così vestito com’era, e la grande stanchezza lo sprofondò in un sonno plumbeo.
Appena alzato al mattino, sentendosi oppresso da un grande inesprimibile sconforto, andò a rifugiarsi in campagna sfidando la desolazione del frigido inverno. Vi rimase otto giorni; poi, la nostalgia del suo male lo vinse ancora, e ritornò alla sua catena.
Bianca lo accolse con grande dimostrazione di piacere e fu così dolce negli atti e nelle parole che egli dimenticò ogni rancore e tornò a sperare, o meglio, a sognare.
Nel frattempo anche i fedeli partigiani della Serenissima erano entrati in una fase di speranza. Le agitazioni bergamasche e di altre popolazioni delle provincie venete di terraferma, contro la prepotenza francese, si ripercotevano, di là dall’Adriatico, in quei fori i petti istriani condannati alla passività. V’ha un dolore che forse li supera tutti: è il dolore di chi si sente intimamente forte, coraggioso, nato per combattere, forse per vincere ed è condannato all’inazione dalla forza cieca delle cose, dalla sua stessa intelligenza che gli ripete: inutile!
Per alcuni di quegli uomini, ardenti di patriottismo, quelle agitazioni dovevano essere il principio di una azione grandiosa destinata a salvare la Repubblica. Altri, più consapevoli della intima decadenza della compagine veneziana, scrollavano il capo peritosi. Tra questi, primo, il conte Aurelio. Tutti avevano in cuore il tremito dell’attesa, che oggi è speranza, domani oscura apprensione. Un grande avvenimento risolutivo pendeva sul loro capo; sentivano la tremenda minaccia, e si ostinavano a sperare che quell’avvenimento si svolgesse secondo i loro desideri. Ettore a sua volta tornava a sperare che la desiderata trasformazione del governo autocrata in un governo liberale e democratico riuscisse con qualche dignità. A questa sua primiera illusione, tanto accarezzata e poscia ripudiata por il disgusto dei mezzi adoprati e delle persone che li adoravano, lo riconducevano le lettere del dottor Apolonio e la lontananza che smussa le asprezze, vela i difetti delle persone e fa sembrare più facili le vagheggiate imprese.
Poche settimane dopo l’incontro con Paul de Saint-Morlain, Bianca ebbe dal padre suo una importante lettera. Egli si trovava a Vienna e sperava di richiamare quanto prima la sua figliola presso di sè. Hoche, il nobile cuore, il meraviglioso generale, aveva pacificata la Vandea; ma i più fieri capi della controrivoluzione non si davano per vinti, e per non riconoscere il governo rivoluzionario rimanevano all’estero. Il marchese di Verdier era di costoro. «Io non rientrerò in Francia, — scriveva alla figliola — se non al seguito del mio legittimo Re; se tu sei del mio parere, potrai raggiungermi tra breve. Se l’esilio ti spaventa, puoi accettare la proposta matrimoniale di Paul de Saint-Morlain. Egli mi ha scritto questi giorni per chiedermi formalmente la tua mano di sposa. Nelle condizioni in cui mi trovo sono obbligato a dirti la verità: Saint-Morlain non è un partito da disprezzarsi: un bel nome di nobiltà autentica; una bella carriera e la sicurezza di rientrare fra breve in possesso de’ suoi beni per l’influenza del figlio di un suo fattore, ora marito di sua sorella. Se il puzzo di stalla del cognato non urta il tuo olfato, io non mi opporrò al tuo matrimonio: sarà un dispiacere di più nella mia vita, ma lo sopporterò per amor tuo: se invece tu preferisci l’esilio col nostro Re, mi darai una grande consolazione di cui ti sarà grato anche Luigi XVIII.
«Non ti parlo di una stramba supposizione di Saint-Morlain, che tu possa nutrire qualche inclinazione per un rivoluzionario di codesti luoghi; mi sembrerebbe d’offenderti. Si capisce che quel povero ragazzo è geloso e che tu non devi averlo accolto con troppa espansione, sfido io, dopo quello che hanno fatto tra lui e sua sorella! Spero dunque che tu lo rifiuti. Ti voglio dare, in fine, una primizia politica che ti farà piacere; so di certa fonte che esistono fin d’ora dei preliminari di pace tra l’imperatore d’Austria ed il Bonaparte, in forza de’ quali l’Istria e la Dalmazia cadranno fra pochi mesi in potere dell’Austria, e — ciò che ti sembrerà più straordinario — la stessa Venezia sarà data all’Austria un poco più tardi. Ben le sta a quella vecchia ingannatrice che ha sfrattato il nostro Re dopo di averlo ospitato ne’ suoi Stati! Quella canaglia di Bonaparte vendica così, senza volere, l’insulto fatto al Re. — Ma tu non dirne nulla per ora; sono queste confidenze segrete che non si devono rivelare. Quando la cosa sarà certa, te ne avvertirò.....................»
Bianca rispose immediatamente alla lettera paterna. Non aveva la più piccola inclinazione per Saint-Morlain: e pregava il padre a non darsi nessun pensiero per trovarle un partito: non voleva rimaritarsi. «Chiamami a te: io voglio condividere il tuo esilio: desidero vivere al tuo fianco, in qualunque luogo. Appena mi chiamerai, verrò...».
Tale fu la sua risposta; ma non ne parlò con alcuno: non ne fece cenno neppure ad Elena.
Marco Apolonio, scriveva intanto ad Almerighi con parole enfatiche: «Gli avvenimenti maturano: Venezia s’avvicina alla liberazione: la Repubblica democratica non è più un sogno».
E Giovanni Resta scriveva al cugino Aurelio Castellani: «Tutto va per la china del precipizio: i traditori e i vigliacchi menano Venezia alla rovina, alla morte».
Nella solita sala di ricevimento, dal mobilio solenne e grave, gli amici di casa Castellani, uniti intorno al classico camino, si riscaldavano le membra intirizzite, senza che la bella fiamma di rovere riescisse a rallegrare i loro spiriti oppressi. Non dispute si udivano, non voci squillanti, bensì lamenti, sospiri e parole mormorate sottovoce.
Ettore Almerighi non prendeva parte a quelle languide conversazioni. Seduto da un canto, perchè la vicinanza del fuoco lo infastidiva, scorreva le gazzette, o contemplava Bianca china sul suo ricamo: pago di uno sguardo e di un sorriso ch’ella gli rivolgeva di tratto in tratto.
Quando il domestico portava in giro il caffè, l’acuto profumo del moka penetrava nei cervelli abbattuti e vi destava qualche scintilla: scattava allora qualche frase risentita, qualche invettiva contro gli inetti, contro: traditori; poi ritornava il silenzio, il muto dolore.
La caduta della Repubblica per cui tanto s’addoloravano, non poteva cagionar a quegli uomini grandi danni materiali. Il governo della Serenissima, specialmente in quegli anni, non li arricchiva, e non li proteggeva contro le ladrerie de’ corsari, nè contro eventuali prepotenze di naviganti stranieri. Il loro amore era scevro di considerazioni economiche, di volgari egoismi. Essi amavano Venezia, amavano la vecchia Repubblica come i tigli devoti amano la madre ridotta inferma dagli anni e dagli acciacchi, incapace di assisterli. Essa era per loro il simbolo della patria, il vincolo sacro che li univa alle popolazioni sorelle, con le quali avevano comune la lingua, gli affetti, le gloriose memorie.
Non odio di civile progresso, non grettezza di mente li rendeva così avversi alle innovazioni, che molti giovani, malignamente istigati, volevano introdurre nella solida costituzione della meravigliosa Repubblica. Lontani, meditabondi o penetranti, reagivano al fascino dello vittorie francesi, sospettavano il tranello, intuivano il pericolo estremo — la perdita di una patria indipendente, perdita forse irreparabile... Purtroppo non s’ingannavano quei poveri vecchi: un senso profetico era nei loro timori, una visione oscura d’infinita tristezza. Per ciò chiamavano traditori gl’incauti che affrettavano con mezzi, non sempre lodevoli, l’agognata trasformazione....