La Dama della Regina/VII
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VII.
Ettore Almerighi scriveva di tratto in tratto all’amico Aurelio; e le sue lettere lasciavano trapelare uno stato d’animo nuovo ed inaspettato. I suoi ideali politici erano sempre i medesimi: i principii sociali, democratici e umanitari, che erano stati l’anima e il fondamento della grande rivoluzione, formavano sempre il suo «credo» e le parole fatidiche «libertè, egalitè et fraternitè gli stavano sempre nel cuore: come prima, egli desiderava ardentemente che la vecchia Repubblica di San Marco si ringiovanisse e vivificasse con nuove leggi ispirate a idee più liberali e moderne, e il governo prendesse forme più geniali; abolendo quel carattere di mistero, di tetraggine inquisitoriale che aveva forse contribuito ad aumentare la potenza della Repubblica nei tempi remoti della sua forza, ma la rendeva inutilmente bieca e quasi ridicola, in quella luminosa e terribile fine di secolo. Senonchè, mentre fino allora non aveva parlato che di distruggere per riedificare, visti da vicino gli uomini già dominati dal furore della distruzione, egli ne rimaneva sgomento, atterrito: la distruzione gli faceva paura: sentiva forse istintivamente che non la patria, non la libertà avrebbero profittato di quella distruzione. E poi, il modo di trattare di quei caporioni democratici lo urtava: vedeva inganni, tranelli tesi alla buona fede, forse eccessiva e infantile, del doge; alla debolezza del Senato: vedeva persone incolto, volgari, portare nell’azione che doveva essere alta e nobile, la loro indegna volgarità.
No, non era quello il suo sogno: quei novatori non gli piacevano. Un malcontento indefinibile lo penetrava: diceva che gli avvenimenti si preparavano male. I sotterfugi, le astuzie che si ordivano contro i governanti lo disgustavano quanto la debolezza e la puerilità dei governanti stessi. Aveva la dolorosa impressione che non un risorgimento si preparasse, bensì una morte abbietta di ciò che era stato grande: che si combattesse la battaglia della viltà. Ah! no, non quella era la meta delle grandi aspirazioni, delle nobili idee riformatrici. No, egli non poteva entrare in quella collaborazione.
«Mi dicono che non sono un uomo politico» egli scriveva. «Sarà benissimo. Sarà pure vero come altri affermano, che le nuove idee non sono riescite a distruggere in me l’antico aristocratico. Se per aristocratico intendono uno a cui ripugna ogni azione subdola, ogni mezzo sleale, ebbene, sì, io mi proclamo aristocratico nel senso più puro e più alto della parola....»
Verso la fine d’agosto egli scriveva ancora:
«Mi sono trovato l’altro giorno con tuo cugino Giovanni Resta, carissimo uomo e buon patriotta; sebbene io non possa accordarmi con lui nel fondo, perchè egli è un conservatore a tutt’i costi, pure ci siamo trovati bene insieme e così pure col procurator Francesco Pesaro: sono uomini di polso e di cuore. Ho ascoltato reverente le loro parole riboccanti d’amor patrio. Se il governo li avesse ascoltati, la Repubblica non si sarebbe indotta così a mal passo, questo è vero. Ma è pure vero, osservavo io, che la costituzione stessa della Repubblica è fatta in modo da facilitare l’opera perversa dei traditori. Essi assentivano, in massima; ma le modificazioni dovevamo farle noi cittadini, di nostra volontà, non subirle come un ordine da chi ci vuol perdere. Ahimè, troppo tardi! pensavo io. Io non so cosa succederà, nè come, nè quando: certo la rovina è ormai inevitabile: ed ammesso pure che si riesca a fare la Repubblica democratica, Buonaparte sarà sempre padrone di soffocarla quando gli piacerà. È questo il dolore di chi non riesce ad illudersi Ma il popolo com’è indifferente! Crede Venezia inespugnabile, vede le navi e i soldati e si tien sicuro. Se volessero, se sapessero fare, credo anch’io che Venezia sarebbe inespugnabile. Sì. E poi? Cosa le servirebbe, divisa dalle altre provincie, circondata da nemici... bloccata? È una miseria, una cosa che stringe il cuore....»
E alcuni giorni dopo:
«Ho deciso: ritorno a casa. Marco invece resta qui. Abbiamo molto discusso e... bisticciato. Non è mancato molto che ci pigliassimo pe’ capelli. Certo, Marco è più logico di me: secondo la sua opinione tutti i mezzi son buoni se menano allo scopo. Politicamente egli avrà ragione. Per mio conto, se le rivoluzioni devono mantenere il vecchio spirito miseramente egoista, e la vecchia morale gesuitica, penso che è inutile fare le rivoluzioni. Comunque sia, io non mi ritrovo nella loro logica; non è pane per me; e torno a casa».
Queste lettere, Aurelio soleva leggerle ad alta voce nel circolo famigliare, e Bianca Verdier le ascoltava con vivo interesse. Un giorno ella disse alla sua giovine amica:
— Così pensava anche il mio povero marito: ed egli mi diceva che così pensavano alcuni di quegli uomini veramente grandi che hanno sparso nel mondo il germe dello rivoluzioni. Poi soggiungeva: «Le idee escono pure dalle grandi anime e s’innalzano libere: ma quando è il momento di tradurle in fatti, gli uomini le sciupano fatalmente».
Aurelio risentiva una strana impressione quando la dama parlava del «suo povero Armando»: una impressione indefinibile risentiva egli, quasi di disgusto. Giungeva fino a chiedersi se quell’uomo fosse veramente esistito: cioè, egli sapeva con certezza che un cavaliere Armando de Clarance era stato il marito di Bianca; ma chissà quanto diverso dal ritratto ideale ch’ella ne faceva! Per Aurelio, quell’uomo ideale e quel sublime amore, capace di resistere all’eterna separazione, erano troppo fuori della realtà. «Tutto è possibile» — egli si diceva. — «Sì, tutto è possibile, ma costei parla troppo del suo meraviglioso marito: ella se ne fa un’aureola, un cinto di bellezza e un’egida protettrice».
La diffidenza del conte era certamente eccessiva: rasentava forse la calunnia: non per tanto egli si sarebbe giustificato assai facilmente, se qualcuno gliene avesse mosso rimprovero, ponendo al suo accusatore questo dilemma: «Se costei è veramente così attaccata al marito morto, se vuole essergli fedele in eterno, perchè mostrare tanto interesse per Ettore Almerighi? Perchè bruciarlo, come ho visto io tante volte, con que’ suoi occhi che sembrano di cielo e destano incendi? Oppure, se Ettore le piace, se ne è invaghita, porche lo ha lasciato partire, perchè continua a cantare sullo stesso metro dell’eterno dolore e dell’eterna fedeltà?..
«Eterna commedia piuttosto!» sogghignava egli con amarezza.
Già fin dal giugno, fin dal primo incontro di Bianca con Ettore, Aurelio aveva compreso che i due giovani erano presi, l’uno per l’altro, da vivissima simpatia. Aveva sofferto allora, tanto più che egli era, a trentaquattr’anni, quasi nuovo all’amore: la sua mente essendo stata occupata da altri pensieri e da grandi responsabilità, mentre rappresentava la Repubblica in lontani paesi: e la sua anima, dall’amor di patria. Guai se quella passione l’avesse vinto. Per fortuna, appena si era accorto che la dama pensava ad altri, dopo il primo schianto, la crisi si era svolta felicemente per lui con una perfetta guarigione. Ora egli poteva contemplarla come una bella statua: e studiarla poteva e ringraziarla in cuor suo di averlo liberato così presto. E facile intendere tuttavia che egli non poteva giudicarla con molta indulgenza. Ci sarebbe voluta una bontà sovrumana: e nessuno può pretendere che un uomo, per quanto nobile e generoso, non sia un uomo. In quel momento, la parte più nobile e generosa del cuore di Aurelio Castellani si rivolgeva all’amico assente, al suo fortunato o sventurato rivale. «Che sarà di lui?» si chiedeva egli.
L’annunziato ritorno di Ettore lo impensieriva, perchè Aurelio amava quel suo amico dall’anima fervida e dalla mente un po’ esaltata e gli doleva di vederlo straziato da una passione senza speranza. «Sì, senza speranza» — pensava Aurelio. «La ex dama di Maria Antonietta non sposerà mai uno di noi gentiluomini di provincia, per di più veneti: cittadini di quella Repubblica che essa odia. Giuocherà con Ettore, come avrebbe giocato con me, perchè si annoia e ha bisogno di occupar la mente e il cuore, non troppo, solo tanto che basti a distrarla, a sgelare la noia; poi se ne andrà. Del resto... chissà! — concludeva egli con un sorriso ironico: «Forse io faccio il profeta a vanvera.»
L’immagine di Elena si affacciava improvvisamente al suo spirito, come una visione.
«Questa povera bimba ti ama e soffre per te» gli diceva la voce interna.
Da una parte, pensando che egli aveva sedici anni più di lei gli veniva da ridere, tanto quell’amore gli sembrava assurdo. Eppure, essa lo amava davvero: non poteva dubitarne; non si trattava di una simpatia infantile, nè di un capriccio di adolescente curiosa. No: era un affetto vero, un attaccamento forse indistruttibile. Come ero nato quell’amore? Egli era stato quasi sempre lontano e nelle brevi visite alla famiglia, vedendo la piccina crescere e farsi bella, egli si era atteggiato a padre od almeno a fratello maggiore. Pensandoci meglio si ricordò che il suo defunto padre, desiderando stringere di più i vincoli che, forse da secoli, univano i Castellani agli Alvisi, aveva accarezzata l’idea di un matrimonio tra l’unico figlio e la nipote che egli prediligeva. Forse le due madri, con la solita imprudenza femminile, avevano parlato, e la bimba si era abituata a considerarlo come il suo futuro sposo... Povera piccina!..
Così intuendo la cosa, Aurelio indovinava a metà. Non le madri femminilmente imprudenti avevano parlato, bensì il padre stesso, il defunto conte Castellani. Un giorno, poco prima di morire, approfittando di un istante in cui si trovava solo con la nipote, egli le aveva detto:
— Ascoltami, Elena; e tieni a mente ciò che sto per dirti: tu sei buona e bella: sono sicuro che tu diventerai una donna amante e fedele, perciò io desidero che tu ami il mio Aurelio e che egli ti sposi. Verranno giorni tristi per il paese e per lui: giorni nei quali egli avrà bisogno d’essere consolato da una donna quale sarai tu, buona, bella e intelligente. Vuoi tu amarlo, Elena?
La fanciulla, assai commossa da tali detti, guardava il vecchio con i grandi occhi attoniti. Rispose finalmente:
— Sì, zio, io amerò il tuo Aurelio: forse l’amo di già. Ma, dimmi, zio, tu che vedi tante cose nell’avvenire, dimmi: mi amerà egli?
Il morituro sorrise lievemente:
— Sì: egli ti amerà: ma tu non devi scoraggiarti se ciò non avviene subito. Abituato a considerarti come una bambina, non crederà a’ suoi occhi: tu persevera: vedrai che egli cadrà ai tuoi piedi e ti amerà tanto e sarete felici.
— Farò come tu dici, zio: sta tranquillo.
Ed egli:
— Che Dio ti benedica come faccio io, mia cara Elena.
Da quel giorno la fanciulla si consacrò nel suo segreto all’amore di Aurelio Castellani e aspettò, piena di fede, che egli l’amasse.
⁂
Il cavalier Almerighi arrivò da Venezia con un bragozzo, la sera del tre settembre. Questo ritorno e la notizia subito diffusa, forse dai servi, che egli intendeva fermarsi in paese tutto l’inverno, contro le sue abitudini, destarono una singolare illusione nei cuori sempre giovani dei vecchi conservatori. Già ve li avevan preparati le lettere di Ettore con quelle espressioni di biasimo per il partito democratico veneziano, con quelle frasi un po’ esaltato dalle quali traspariva più che mai evidente, il fondo aristocratico della sua natura. Uomini semplici, lontani dall’investigazione psicologica, il capitano Gori, il gran cacciatore Virgilio de’ Grassi, l’interminabile Annibale Rigo, don Ludovico e perfino il podestà nobile Alessandri credettero che Ettore, il ribelle, il satirico, fosse diventato addirittura uno dei loro.
Tutti giulivi essi accorsero il dì appresso alla solita riunione del caffè in casa Castellani. Almeno, nella comune sventura, di fronte al grave pericolo che minacciava la Serenissima, ridotta ormai povera e poco serena, avevano acquistato un nuovo compagno. Un giovine, uno spirito vivace e baldanzoso pensava adesso come essi avevano sempre pensato. Non avrebbero più ingrate dispute, dacchè Ettore era dei loro, e Marco Apolonio, quel vero perturbatore, rimaneva a Venezia.
— Ora Ettore ci darà ragione — diceva Virgilio de’ Grassi. — Caro giovine, come s’è ricreduto delle sue pazzie! Già io gli ho sempre voluto bene.
— Ed io dunque? — esclamò il capitano Gori. — È mio cugino in terzo grado, parentela buona; da piccino mi chiamava zio. L’ho tenuto tante volte sulle mie ginocchia ed era tanto bello che pareva un angelo. Sarà il mio erede universale; già non ho altri. È stato quel poco di buono del dottor Apolonio che lo ha forviato. Quel viaggio che fecero insieme a Milano e a Parigi, fu una rovina. Ritornò che non pareva più lui, ubbriacato di paroloni, il mio povero Ettore. E si capisce, era tanto giovine, non aveva che diciott’anni... ed era — vi ricordate? — la primavera dell’ottantanove!
Annibale Rigo, meno loquace, non meno illuso, si augurava che l’Apolonio non ritornasse più. Poteva cascare in un canale fuori mano: un bene per tutti. E rideva imbaldanzito.
Il podestà tentennava il capo: — Siete proprio sicuri che Ettore Almerighi sia tanto cambiato?
Gli furono addosso, al colmo dell’indignazione.
— Come?...
— Dubitereste voi?...
— Che che! Sarebbe un’infamia!
— Io gli sputerei in faccia.
— Via via. Non alzate la voce. Non affermo nulla io. Desidero e spero che sia come voi dite.
Nel salotto di donna Anna Maria si trovavano già, con quelli di casa e con Bianca Verdier, le signore Alvisi madre e figlia e il reduce Ettore Almerighi. I tre fedeli adoratori del leone alato, ancora tutti vibranti de’ loro discorsi, si precipitarono nella tranquilla e imponente sala, e appena salutate le dame, circondarono Almerighi. Il capitano Gori che da qualche anno lo trattava con molta freddezza, gli buttò le braccia al collo; mentre gli altri due gli davano dei colpetti sulle spalle, gli stringevano le mani, gli palpavano le braccia e si congratulavano, fissandolo con gli occhi imbambolati. Il capitano lo chiamava nipote.
Il podestà, sempre guardingo, si era avvicinato alle signore; e don Ludovico ad Aurelio che, sorridente, si godeva la scena.
— Grazie, mille grazie, amici — ripeteva Ettore con un certo stupore. — Troppo buoni, davvero. Grazie, cugino capitano: non sei mio zio, ma se ti fa piacere ti chiamerò ancora zio come quando ero piccolo. Grazie, cacciatore. Ma tu, Annibale, perchè mi strappi le maniche?
— Sei nostro: preferisci stare qui che a Venezia.
— Tutto l’inverno starai con noi, ho sentito.
— Ma sì. Vi fa tanto piacere? Curiosa! Non l’avrei sospettato.
— Ci fa piacere, caro nipote, perchè vuol dire che sei diventato savio: che non hai più quelle pazze idee.
— Oh! Oh!
— Siamo felici che ti sei staccato dal tuo demone.
— Eh!.... Chi sarebb’egli il mio demone?... Ah!... Marco?... Oh! povero Marco!...
Gli altri continuavano. Il podestà e l’arciprete tacevano perplessi. Con un gesto rapido Ettore si staccò dai suoi tre ferventi ammiratori e volgendosi al conte Castellani lo apostrofò:
— Tu che sorridi così enigmaticamente, dimmi un po’, se lo sai, cos’hanno quei tre? Perchè mi fanno tante feste?
— Ecco: hanno sentito alcuni periodi delle tue lettere e ti credono un antirivoluzionario, un conservatore a tutt’i costi.
— Perchè hai letto agli altri le mie lettere?
— Perchè tutti desideravano di sentirle e piacevano immensamente a tutti.
— Ah, sì? Va bene. Io, cari amici — disse volgendosi agli altri — sono sempre quello di prima: un ribelle, un innamorato di tutte quelle idee che a voi sembrano eresie. Non posso accordarmi con quelli del partito democratico di Venezia, perchè io sono un poeta della democrazia, essi invece non ne sono che i cucinieri. Ma con voi, cari amici, con tutto il rispetto e con tutto l’affetto che ho per voi, non posso che bisticciare: non ci possiamo intendere fra noi, in nulla.
La sorpresa li ammutolì. Poi montarono sulle furie. Virgilio de’ Grassi, il gran cacciatore, corse a prendere il fucile, fermandosi però a mezza strada. Annibale Rigo scagliò all’ostinato ribelle una fiera insolenza: lo chiamò bislacco!
— Ti rinnego. Non sei più mio nipote: ti diseredo — annunziò solennemente il capitano Gori.
— Poco male: tuo nipote non sono mai stato; e della tua eredità non so cosa farmi: spero che tu campi gli anni di Matusalem.
— Non so che farmi io de’ tuoi auguri. Non siamo neppure più cugini: terzo grado, parentela finita. Ti rinnego in ogni caso.
— Pace, signori, pace — intimò donna Anna Maria. — Non è lecito a gentiluomini insolentirsi così: tanto meno poi davanti a gentildonne. Io non tollero tali scene nel mio salotto.
E volgendosi al servo ella gli ordinò a bassa voce:
— Porta subito il caffè col servizio nuovo.
Un momento dopo il servo depose sulla tavola il solito vassoio d’argento con dodici tazzette e una grande zuccheriera di maiolica decorata a rilievi dipinti.
— Oh! le belle piccole tazze! — esclamò subito Bianca Verdier.
Si avvicinò alla tavola per osservarle meglio, e con lei si avvicinarono le signore Alvisi, don Ludovico e il podestà. Quest’ultimo le esaminò con attenzione, poi disse:
— Sono di Murano, della fabbrica Bertolini.
— Sì — rispose Ettore. — Roba nostrana.
Le signore ammiravano le chicchere, così leggere o lucenti con le belle decorazioni in rilievo rappresentanti fiori e fogliami a colori tenui, delicatissimi, su un fondo color caffè scuro.
— E che suono argentino mandano: sentite.
Anche Gori, de’ Grassi e Rigo si erano avvicinati, ammirando i colori, i disegni e la sonorità delicata del prezioso servizio. Allora donna Anna Maria disse:
— È un dono del cavalier Almerighi. Prima di partire egli mi ha sentita deplorare la rottura di una chicchera del servizio orientale, che mi rimane incompleto; ed egli mi ha portato un intero servizio nuovo.... Io non so come ringraziarlo.
— Per carità, donna Anna Maria, non mi faccia arrossire. Ero a Murano: non potevo uscire dalla fabbrica senza acquistare qualche cosa.
Il nobile Alessandri, appassionato per tutte le arti, specialmente le decorative, entrò a parlare delle maioliche e porcellane antiche di Venezia, decadute per mancanza di privilegi e sussidi, e narrò così:
— Questa fabbrica fu aperta dai fratelli Gian Andrea e Pietro Bertolini nell’aprile 1752 in Murano, quando le antiche fabbriche veneziane, che non avevano potuto lottare con la concorrenza di Urbino, erano quasi improduttive da oltre un secolo. Ero presente all’apertura e me ne ricordo perfettamente perchè avevo venti anni e viaggiavo solo per la prima volta. I Bertolini avevano sistemi e maniere nuove: ottennero subito un bell’esito, e portarono via molti clienti alle fabbriche di Urbino.
Aurelio a sua volta parlò delle porcellane orientali, cinesi, giapponesi, moresche: la conversazione si animò; poco a poco anche i tre arrabbiati vi presero parte. Così per quel giorno l’uragano fu scongiurato e donna Anna Maria potè compiacersi della sua abilità diplomatica.
Quando i signori cominciarono a congedarsi, ella li avvertì che quello era l’ultimo ricevimento della stagione.
— Domani facciamo le valigie e dopo domani si parte. Li aspetto tutti alla mia tavola campestre il giorno della Madonna piccola come tutti gli anni.
Era tradizionale in casa Castellani di dare un pranzo all’aprirsi della villeggiatura autunnale, per la festa di Maria nascente: pranzo nel quale era ugualmente tradizionale di mangiar la polenta con gli uccelletti, i polli maturi e le dindette giovani.
I cavalieri s’inchinarono, baciarono le belle mani alla contessa e promisero di non mancare. Essi pure partivano per la campagna un giorno prossimo per rimanervi tranquilli fino a novembre, cioè fino a San Martino, giorno in cui le villeggiature si chiudevano solennemente con un altro pranzo in casa del capitano Gori.
Quando Ettore baciò la mano di Bianca, scopo supremo e continua speranza della lunga visita, ella gli disse seria seria:
— Siete stato cattivo co’ vecchi, meritereste un castigo.
Ed egli di rimando:
— Se sentissero che li chiamate vecchi, specialmente Annibale, sarebbero più in collera con voi che con me.
Ella rise ed egli ne approfittò por baciarle la mano una seconda volta. Ma ella non rise più: e lo guardò in un modo che anche quella breve gioia tornò in veleno al povero innamorato.