La Dama della Regina/V
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V.
Gli ufficiali francesi aspettavano in piazza l’arrivo dei signori. Alcuni sedevano davanti alla sedicente bottega di caffè, botteguccia oscura dove si vendeva assai più vino che moka; altri passeggiavano sbirciando le ragazze che apparivano qua e là, e scappavano vedendosi osservate. Anche il vecchio duomo meritò qualche attenzione; ma sopra tutto gli ufficiali presero a considerare lo stemma della Serenissima col leone di San Marco. I più non l’avevano mai veduto il leone d’oro in campo rosso, il leone alato che posa le zampe posteriori sul mare azzurro in atto di camminare — per cui fu detto il leone andante — e le anteriori sulla terra verde, alzando la zampa destra per sostenere il libro dell’evangelo, aperto alla pagina dove sta scritto: «Pax tibi Marce evangelista meus».
Un ufficiale nemico di Venezia lo spiegava ai suoi più giovani compagni, non senza qualche ironia:
— Vedete? Il leone cammina sul mare e sulla terra; vuol dire che Venezia comanda sul mare e sulla terra. Quanta superbia! Ma presto la sconterà la sua superbia, la vecchia sirena.
Un calpestio di cavalli e un cigolio di ruote interruppero in buon punto le chiacchiere inopportune. Un valletto annunciò che il podestà arrivava con gli amici, e gli ufficiali mossero incontro alla comitiva. I cavalieri saltarono a terra e rincontro fu assai cortese. I francesi s’inchinarono ossequiosamente alle dame; poi entrarono in podesteria per trattare la faccenda delle vettovaglie. Le signore si allontanarono inseguite da sguardi curiosi e qua e là ammirativi. Paul de Saint—Morlain sembrava smarrito nella contemplatone di Bianca: egli la guardava come si guarda una persona cara non più riveduta da molti anni, prima dubbioso, poi commosso.
In podesteria l’affare delle vettovaglie fu concluso senza discussioni: ne poteva non essere così, poichè quelli che richiedevano erano in grado d’imporre la loro volontà, mentre i richiesti non possedevano alcun mezzo di resistenza. Anche la festa da ballo fu accordata senza difficoltà e si stabilì d’improvvisarla nelle vaste e squallide sale della podesteria. L’ufficiale superiore, un colonnello, raccomandò che tutte le signore del paese fossero invitate, e che il ballo cominciasse presto, senza lusso, perchè, se cambiava il vento, all’alba la nave doveva proseguir la sua rotta.
Il podestà diramò gl’inviti alle poche signore: alle mogli e alle figliole di quei quattro impiegatelli; alla maestra di cucito, alla sorella del farmacista, alla moglie del medico e a qualche bella ragazza di classe incerta. Naturalmente le signore invitate erano autorizzate a farsi accompagnare dai loro padri, mariti e fratelli. Le famiglie signorili provvidero il mobilio prestando sedie e divani, lampade e specchi; esse pensarono pure agli indispensabili rinfreschi con conserve, liquori, rosoli e vini squisiti di cui tutti quei possidenti avevano cantine ben fornite: nè mancava il vecchio rhum tanto gradito agli ufficiali. Il cognac non era conosciuto; ed è da notare che dicendo «liquori» quei vecchi provinciali intendevano certi vini dolci, che preparavano con le loro uve. Del resto usavano molto i rosoli: il maraschino di Zara primeggiava. Come accompagnamento alle delicate bibite facevano furore i dolci delle monache. Tutte quelle famiglie signorili, le nobili specialmente, avevano parenti monache e queste mandavano ad ogni occasione, i dolci squisiti, che esse sapevano fare, ai loro nipoti, fratelli, cugini. Nello belle credenze antiche se ne trovavano sempre in abbondanza.
Durante i preparativi, gli ufficiali mandarono a bordo le vettovaglie e l’acqua: alcuni pranzarono al piccolo caffè, altri all’osteria; il colonnello fu invitato dal podestà.
Paul de Saint-Morlain che moriva di voglia di rivedere Bianca Verdier — ovvero la bella incognita nella quale gli era parso di riconoscere Bianca Verdier — pregò Marco Apolonio di presentarlo in qualche famiglia: ma questi gli fece osservare che in quel momento le signore erano tutte occupate nell’abbigliarsi per la festa e non si poteva pretendere che ricevessero.
Aurelio era impensierito per la musica. Si trattava d’improvvisare una specie d’orchestra. Sonatori di professione non ve n’erano.. Arrivavano da Capodistria o da Parenzo per le sagre o per le fiere. Era d’uopo ricorrere a dilettanti; ma questi, non essendo abituati a sonare in pubblico facevano mille difficoltà. L’arciprete possedeva un clavicembalo che Aurelio si sarebbe ingegnato di sonare. Senonchè, il vecchio prete che odiava quei ribaldi rivoluzionari, quei nemici di Dio, si era chiuso in casa e si dava per malato. Come fare per ottenere che prestasse il clavicembalo? Altri non ve n’erano in paese perchè quelle signore sonavano più frequentemente l’arpa o la chitarra. Vi era qualche spinetta, ma Aurelio preferiva il clavicembalo. Donna Anna Maria andò a trovare il fratello e seppe persuaderlo al grande sacrificio. Lustramento fu trasportato con mille precauzioni alla podesteria. Quando lo vide discendere traballante nelle mani degl’inesperti portatori, don Ludovico non potè frenar le lagrime.
— È una profanazione — diceva. — Una crudele profanazione.
Per far piacere agli ufficiali il dottor Apolonio offrì di rinforzare il clavicembalo col violino, che egli sonava a orecchio con molto gusto e discreta abilità: allora anche la sorella del farmacista, che prima si rifiutava, acconsentì di accompagnare con la chitarra, per stare vicina a Marco.
Mai la gente ballò tanto come in quegli anni tragici e turbolenti, in Francia, e, per conseguenza, anche in Italia. Forse anche altrove. Ce lo dicono le storie, le cronache, i romanzi, gli epistolari. Si capisce che le feste da ballo allora non erano come adesso uno spettacolo ottico, uno sfoggio di lusso, un’occasione per farsi ammirare; ovvero, queste cose passavano in seconda linea e si sapeva farne a meno, pur di ballare.
Ballare, in qualunque modo, in qualunque luogo era una passione, una frenesia. Un abito bianco, un fiore ne’ capelli, e via. Quel giorno, al subitaneo invito, tutte le invitate risposero di sì, con gioia; e quelle che non avevano pronti gli abiti si misero in gran furia a lavare e a stirare le sottili mussoline dei loro graziosi vestiti, con le abili mani abituate al lavoro. E a sera, appena tramontato il sole, nel lungo crepuscolo di giugno, chissà come battevano i loro cuori varcando la soglia della podesteria, sfarzosamente illuminata... con lucerne ad olio e candele di cera! Chissà come tremavano nel sentirsi afferrare dal braccio possente di quegli ufficiali francesi, di quei figli della rivoluzione, la cui fama gloriosa e terribile aveva empito il mondo. E chissà quanti sogni, quante illusioni, e quale fioritura d’amori sbocciati al soffio ardente di una parola sussurrata tra i rivolgimenti di una contradanza! Poveri amori destinati a morire appena nati, non lasciando che un tenue ricordo, un languido profumo, come quei fiori appassiti che certe anime delicate conservano nei libri di devozione.
Erano belle e giovani le fanciulle e le spose che ballavano quella sera con gli ufficiali repubblicani nelle vecchie sale della podesteria; eppure non tutti gli ufficiali se ne accontentavano. Paul de Saint-Morlain aspettò lungamente l’arrivo della dama bionda nella quale gli era sembrato di riconoscere la sua amica d’infanzia, la figliola del marchese di Verdier. Avanzando l’ora e perdendo poco a poco ogni speranza egli si ritirò nella sala da giuoco, e restò li a sognare mentre fingeva di seguire le vicende di una partita a scacchi eseguita da due abilissimi giuocatori. Sognava un passato lontano, uno stato di cose irreparabilmente distrutto.
I Saint-Morlain, nobile e ricca famiglia di Brettagna come i marchesi di Verdier, avevano al pari di questi, latifondi e castelli, fede monarchica e profondi sentimenti religiosi. Erano vicini, i loro fondi si toccavano, i loro castelli si stavan di fronte: un’antica amicizia li univa: negli anni in cui il marchese rimasto presto vedovo, lasciava la piccola Bianca al castello in compagnia d’una governante attempata, in quei lunghi anni Paolo si era trovato assai spesso con la piccola castellana. La signora di Saint-Morlain, che non dimenticava l’amica morta nel fiore dell’età, amava l’infelice orfanella e le prodigava quella tenerezza materna di cui i piccoli cuori infantili hanno tanta sete. Tutte le feste Bianca era ospite al castello di Saint-Morlain, e non di rado vi rimaneva più d’un giorno. Paul e sua sorella Maddalena erano felici di quella graziosa compagnia. Più d’una volta, come accade tra ragazzi che giocano insieme, il fanciullo aveva detto alla bimba: «Quando saremo grandi tu diventerai la mia sposa». Poi, egli era entrato alla scuola militare di Fontainebleau e poco dopo Bianca fu messa in educazione presso le monache del Sacro Cuore. Da allora non si erano mai più riveduti. La rivoluzione li aveva dispersi. Il giovine perdeva i genitori e tutti i suoi beni. A venti anni, solo, povero, con la sorella da mantenere, odiato e perseguitato nella sua qualità di ex nobile, cosa doveva egli fare?.... Emigrare? Raggiungere i realisti in Vandea?.. Un amico gli consigliò di entrare nell’esercito repubblicano; era una salvezza anche per Maddalena. Si fece soldato: la guerra ardeva alle frontiere. Si distinse e domandò di passare alla marina. Mentre egli si batteva per la Francia assalita da tutte le parti, sua sorella affranta e delusa accettò la mano del figlio di un loro antico fattore che la rivoluzione aveva improvvisamente arricchito. Avevano fatto male entrambi? Forse. Bianca certo li biasimava: forse li disprezzava e rimaneva lontana da quella festa per non ballare con lui. Eppure, egli sperava che se avesse potuto dirle quanto avevano sofferto, ella li avrebbe perdonati. Ma come ottenere un colloquio? Pensava di rivolgersi al conte Castellani, il cui nobile aspetto e il linguaggio elevato gl’ispiravano tanta fiducia: l’avrebbe pregato di voler egli intercedere presso Bianca... Gli mancò il coraggio. Già non era neppure facile trovare l’opportunità di parlare al conte che stava inchiodato al clavicembalo; poi vi era un altro intoppo. L’ufficiale che aveva deriso lo stemma della repubblica di San Marco, sorvegliava Paul de Saint-Morlain. Colui pure cercava Bianca di Verdier; e aveva osato dire che quella signora non intervenendo alla festa li insultava tutti. Invano i suoi compagni gli raccomandavano di non sollevar questioni, di nonguastar la festa. Piccato egli s’avvicinò a Saint-Morlain e l’interpellò:
— Cosa ne dite voi? Non vi pare che quella dama bionda manca di educazione?
— No, perchè ha fatto presentare le sue scuse dal conte: la lunga cavalcata al sole le ha dato il mal di capo.
— Scuse stupide. Si sa che le donne hanno il mal di capo quando vogliono. Quella dama è una francese, una ci-devant, e non si degna d’intervenire alla nostra festa.
— Peggio per lei. Io non me ne inquieto.
— Io invece vorrei farle pagar caro il suo orgoglio. Tanto piò che devo averla veduta alle Tuilleries, un giorno che passeggiavo sulla terrazza concessa ai cittadini.
— Io non credo: ad ogni modo, cosa importa?
— Mi date del mentitore?
— Ma no! Lasciatemi tranquillo.
E su questo Paul de Saint-Morlain si alzò e gli voltò le spalle. Rignol che era veramente un uomo senza educazione, diventato ufficiale per la sua ferocia nel perseguitare gli aristocratici, andò sulle furie. Gli altri ufficiali con Apolonio e con Almerighi cercarono di calmarlo e per il momento vi riuscirono. Più tardi, durante un intervallo, mentre Aurelio, stanco di stare al cembalo, riposava un momento, il violento e fanatico terrorista gli si avvicinò e gli chiese poco garbatamente se quella tal signora non sarebbe intervenuta neppure al cotillon.
Aurelio si strinse nelle spalle.
— Io non so — rispose egli ad arte. — Se si sentirà meglio, è probabile che si faccia vedere prima che finisca il ballo. Anzi me l’aveva promesso. Ma se non si sente bene, come deve fare? Non è colpa sua, credete. La signora avrebbe tutta la buona voglia di divertirsi. È stata una cattiva combinazione che appunto oggi noi abbiamo fatta una gita un po’ lunga e faticosa.
Queste parole del conte Castellani uscivano così franche e spontanee dalle sue labbra e l’accento ne era così fine, l’intonazione così ferma e cortese insieme, che Rignol non si sentì capace di replicare come avrebbe voluto. Capiva d’altronde che tutti gli avrebbero dato torto se avveniva uno scandalo per colpa sua. Ma gli pesava di cedere: si sarebbe fatto accoppare piuttosto che passare per timido.
Elena Alvisi che li osservava in distanza, allarmata per Aurelio, intuì il pericolo e seppe sventarlo.
— Musica! — gridavano intanto le altre giovani per interrompere quel temuto colloquio.
— Musica! — gridò Almerighi battendo un piccolo colpo sulla spalla del dottor Apolonio. — Le ore passano inutilmente.
Elena si alzò e andò risoluta al tenente Rignol fermandosi davanti a lui. Ella era molto bella quella sera. Le guance arrossate dal ballo davano uno splendore straordinario ai suoi magnifici occhi neri e profondi; il volto, meno le guancie, aveva un candore abbagliante come il collo, le spalle e le braccia. Senza guardare Aurelio che la osservava attentamente, ella si fermò, dunque, davanti all’accigliato repubblicano e con un gesto fine e un sorriso maliziosetto, gli disse in buon francese:
— Signore, cosa pensate? Per chi ci prendete? Vi pare che noi giovani possiamo sopportare di essere così trascurate da un brillante ufficiale quale voi siete?
Preso così all’impensata, l’orco si scosse: guardò la bella assalitrice, colpito e nel medesimo tempo accarezzato dalle sue parole. Balbettò:
— Perdonate signorina... scusate... ero distratto... non vi avevo osservata...
— Non mi avete osservata! Una grave umiliazione questa per una giovine. Meno male che confessate la vostra colpa. Per espiarla, voi ballerete ora con me, signore.
— Oh! ben volentieri, signorina! La punizione è, davvero assai dolce. O, per dir meglio, è un premio che io non meritavo e del quale vi sono molto grato.
Ballarono; ed ella seppe intrattenere l’ufficiale con tanto spirito che egli dimenticò completamente il suo stupido puntiglio. Si sentiva come stregato da quella graziosissima giovinetta.
Anche Aurelio era rimasto colpito dall’arditezza e dalla grazia di colei che a’ suoi occhi era stata fino a quel momento una bimba.
«Diventa donna la piccina e che donna!» pensava egli seguendola con lo sguardo nelle evoluzioni della danza, mentre le sue mani scorrevano senza bisogno di guida sugli avori del cembalo.
L’alba spuntò ben presto nell’azzurro cielo estivo; le lucerne impallidirono, le fiamme delle candele diventarono rosse. Il ballo non languiva ancora, solo alcune coppie che la simpatia aveva abbozzate per impulso inconsapevole sedevano qua e là su i divani, guardandosi negli occhi sorridendo o sospirando; discorrendo fitto fitto, o scambiandosi epigrammi; oppure assorte in un languido sogno interrotto appena da parole sommesse e brevi, da frasi lente e molli, o vibranti di entusiasmo, scintillanti come un fuoco di sarmenti rapido e fuggitivo.
— Il sole!... gridò qualcuno.
— Oh! il malvenuto! — risposero o pensarono molti.
Un uomo in abito da marinaro si presentò sulla porta della sala da ballo e annunciò che il libeccio era cessato e che un venticello fresco invitava alla partenza.
Tutti si mossero: vi fu un momento di confusione, un correre da una sala all’altra, un incrociarsi di frasi vibranti, di saluti calorosi o teneri, di cordiali ringraziamenti, di lunghe strette di mano, di fervidi voti. Il palazzo si vuotò; tutti andarono alla spiaggia.
Mezz’ora dopo, la bella nave usciva dal porto.