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III V
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IV.

Il giorno fissato per la scampagnata si annunziava bene con un cielo limpido e un fresco venticello che prometteva di mitigare l’ardore del sole. In piazza del duomo, l’unica piazza del paese, già attendevano i cavalli sellati ed il largo carro appena arrivato dalla campagna co’ suoi bovi candidi, maestosi e pazienti. I signori giungevano alla spicciolata e davano una capatina in duomo, dove le signore si fermavano a sentir la messa che don Ludovico usava dire all’alba.

I lavoratori dei campi vicini e delle ortaglie uscivano dalle loro case con le bisaccie e gli arnesi del lavoro in spalla: i pescatori della notte arrivavano in porto col pesce fresco, e quelli del giorno si preparavano alla partenza.

Il paesello dei Castellani e degli Alessandri, che ne erano stati indubbiamente i primi signori, portava quasi per ischerno il titolo di città inciso sulla vecchia porta verso la campagna, a Nord-Est. La sua costruzione assolutamente primitiva mancava di un piano regolatore. Le abitazioni sembravano venute su a caso in mezzo [p. 72 modifica]alle ortaglie: e solo a poco a poco per legge naturale dovevano aver formato una lunga via più o meno larga; più o meno tortuosa; dove, ad un certo punto, si era aperta una piazza in onore alla chiesa ed all’antico palazzo degli Alessandri divenuto poi il palazzo del podestà, o la podesteria. Le altre aperture tra case e case, non erano che vicoli o spazi indeterminati, i quali, dalla parte di Nord Est, mettevano ai campi e dalla parte opposta, al mare, poichè tutto il paese si stendeva lungo la spiaggia, ma senza simmetria, giù in un punto, col piede nell’acqua, e poi su, sopra un monticello di sabbia e sassi accumulati dai secoli: seguendo insomma i capricci del mare che ora s’addentra e ora sfugge; qua fa innalzare il suolo co’ suoi depositi, e un po’ più in là strappa e porta via terra e macigni. Tutte le case avevano aspetto umile tranne forse una diecina. Belle e veramente signorili, soltanto quelle dei conti Castellani, degli Alessandri, di Ettore Almerighi e del capitano Gori. Il palazzo Alessandri divenuto la podesteria, serbava ancora l’impronta di un antico palazzo veneziano del Quattrocento, guasto da gli anni e da posteriori aggiunte e rifacimenti. La chiesa pure presentava gli avanzi e i caratteri di un edificio assai armonioso e della stessa epoca, irrigidito da cattivi restauri, dopo una rovina quasi completa. [p. 73 modifica]

Terminata la messa, uscivano di chiesa insieme il conte Aurelio, l’Alessandri, Annibale Rigo, il capitano Gori e il gran cacciatore Virgilio de’ Grassi. Il dottor Apolonio giungeva da casa; giungevano insieme il farmacista Furegoni con la sorella e il giovine medico Vincenzo Volpi con la moglie, arrivati recentemente dalla Dalmazia. Mancava Ettore Almerighi; ma non occorreva inquietarsene: sarebbe giunto senza fallo al momento di partire.

— Ecco le signore! — esclamò il dottor Marco Apolonio.

Scendevano la bella gradinata della chiesa donna Anna Maria, Bianca di Verdier, le signore Alvisi.

Si affrettarono ad inchinarle i signori tutti con la sorella del farmacista e la moglie del Volpi, due donnine come ve ne sono tante, con questa differenza che la moglie del medico era una sciocchina bella ed allegra, mentre la Furegoni, che sarebbe stata assai piacente, aveva il torto di posare a donna superiore e di essere sempre afflitta da un grande amore infelice, il cui oggetto per altro poteva anche mutare. Le signore chiesero subito al podestà notizie della sua nipotina, la gentile Irene.

— Eccola — disse il podestà indicando la deliziosa giovinetta quattordicenne, sottile e [p. 74 modifica]pieghevole come un giunco, di una salute evidentemente troppo fragile. Veniva a salutare le amiche, ma non poteva prender parte alla scampagnata; non si sentiva in forza quel giorno. Ella parlava con una vocina sottile un po’ velata: le sue labbra rosse come il corallo spiccavano stranamente nel volto pallido dagli occhi infossati. A guardarla veniva da sospirare involontariamente.

Ella si congedò quasi subito per timore dell’aria mattutina e tutti gli sguardi la seguirono.

Ettore Almerighi capitò in buon punto a dissipare l’ombra malinconica che la nipote del podestà lasciava sulle sue orme. Ettore montava un magnifico cavallo di recente acquisto. Difficilmente si poteva immaginare un più bel cavaliere. Pure seguendo le mode egli appariva sempre diverso dagli altri, perchè l’eleganza era in lui, nella sua figura, nei movimenti, nel modo di portare gli abiti. Egli indossava quella mattina la grande redingote di panno verdone dalle ampie risvolte, sul panciotto chiaro a ricami, col ricco jabot, le brache di velluto e gli alti stivali: in testa portava un cappello nero a cupolino alto rastremato con larghe tese che gittavano un ombra pittoresca sulla sua fronte candida, sul profilo fidiaco. I lunghi capelli sciolti alla repubblicana, leggermente ondulati, di un bel [p. 75 modifica]tono bruno lucente, svolazzavano intorno al pallido viso dall’ovale nobilmente allungato; ed i suoi occhi brillavano pieni di fuoco sotto l’arco superbo dei sopraccigli. Pure essendo di una così perfetta bellezza egli non aveva nulla di femmineo, nulla di manierato: la sua apparizione risvegliava l’immagine di un poeta guerriero, di un bardo d’altri tempi. Quegli uomini, abituati allo letture classiche, il cervello pieno d’immagini mitologiche, lo paragonavano volentieri a qualche dio dell’Olimpo, od al grande e sventurato eroe troiano di cui egli portava il nome. Don Ludovico lo aveva sopranominato l’arcangelo sterminatore.

Da lontano egli si tolse il cappello per salutare le dame e gli amici. Questi lo circondarono subito ammirando il cavallo che vedevano per la prima volta. Il capitano Gori, il gran cacciatore Virgilio de’ Grassi e Annibaie Rigo lo bersagliavano di frizzi per quei suoi magnifici capelli che gl’incorniciavano il volto con tanta grazia. Doveva raccoglierli sulla nuca e legarli con un bel nastro come facevano essi! Ma egli rideva e canzonava a sua volta l’amico Marco Apolonio che voleva portare pure egli i capelli lunghi e sciolti, e non ne aveva quasi più.

Don Ludovico apparve finalmente sulla gradinata del duomo avendo al fianco il suo coadiutore.

— Evviva don Ludovico!.. Andiamo! Si fa tardi... [p. 76 modifica]

L'arciprete lasciò il suo compagno e si arrampicò sul carro dove sedevano già, su un mucchio di guanciali e tappeti, donna Anna Maria e la signora Emilia Alvisi. Sul carro salì pure il capitano Gori, non già perchè gli anni molti e la gotta gli vietassero le troppo lunghe cavalcate, ohibò! soltanto per atto di cortesia verso le due signore, per tenerle allegre.

I cavalieri e le amazzoni erano già montati in sella; così, partirono subito. Il carro davanti, sapendo già che sarebbe rimasto ben presto indietro. Bianca ed Elena indossavano amazzoni nere molto attillate e sedevano sopra selle inglesi da signora. Il defunto conte Castellani le aveva portate da Londra, per la moglie e per la sorella. Ora servivano ad Elena e alla signora de Clarance. La Furegoni e la Volpi avevano selle da uomo e cavalcavano come gli uomini. Questo era d’uso generale in paese e tutti c’erano avvezzi. Ma la sorella del farmacista aveva avuto la cattiva idea di mettersi un vestito di parecchi anni addietro, con la gonna larga e corta che copriva il cavallo mentre scopriva a lei le gambe secche e non troppo diritte. Eterno soggetto di risate. La Volpi, più avveduta, aveva indossato il suo costume dalmata che le stava molto bene e si prestava assai anche per cavalcare.

Appena fuori del paese la comitiva entrò in un sentiero erboso lungo la spiaggia bassa quasi [p. 77 modifica]a fior dell’acqua. Dalla parte di terra — alla loro destra — si stendevano siepi, alte e fiorite, di bianco spino odoroso intrecciato coi rami dell’avellano. I campi, al di là delle siepi, tagliati a distanze uniformi da alti filari di viti, avevano il grano alto, quasi pronto alla mietitura, ma non rigoglioso; che rigoglioso non poteva farlo una terra magra, sottile, sopra un fondo roccioso. Ci sarebbe voluta ben altra coltivazione intensiva. Le viti invece promettevano già un bel raccolto. Andando innanzi una mezz’ora, la strada saliva con la spiaggia: i macigni si ergevano velati appena da poca terra, o nudi, o rallegrati da pianticelle sassifraghe, dalle più umili rampicanti, o da larghi tuffi di fragranti ginestre. Da per tutto la pietra emergeva tra l’erbe; e il sentiero saliva, poi discendeva improvvisamente in un affossamento erboso, per risalire ancora sulla roccia.

I bovi procedevano con calma e il carro largo e piatto somigliava a una zattera in balìa delle onde. Pure i cavalli procedevano lentamente; nè i cavalieri avevano animo di spronarli su quel faticoso sentiero. Il profumo delle ginestre e del timo, misti alle esalazioni acri del mare impregnavano l’aria mossa dal vento. Di lassù la veduta si allargava; più ampio si stendeva il mare solcato da barche e navi dalle vele candide e [p. 78 modifica]dalle vele colorate; e si scorgevano in certi punti fin le rive opposte.

Non polendosi lanciare alla corsa su quel terreno difficile, i cavalieri discorrevano ad alta voce, e il tema de’ lor discorsi era sempre il medesimo: la politica o quindi la guerra, le battaglie vinte o perdute, i fatti d’armi meravigliosi; poi, le intenzioni riposte e ambiziose del Buonaparte: il suo temerario coraggio e le sue crudeltà; la sua gloria o le sue perfidie. E infine, sempre fissa nelle menti come un chiodo piantato nel cervello, Venezia, e la tremenda minaccia che pesava sul suo destino, o la radiosa speranza: a morte o la vita: la gloria o l’infamia.

Bianca si era avvicinata ad Elena spinta da una segreta simpatia. Parlavano di quelle campagne, dei campagnoli che vedevano lavorare qua e là; e di quelle donne che strappavano le erbacce di mezzo al grano.

— Sono di stirpe italiana? — domandò la Verlier.

— Questi sì, sono italiani; e i più abitano in paese. Più in là, nelle campagne troveremo i contadini di razza slava, che non vengono quasi mai al paese e vestono ancora il loro costume nazionale. Sono slavi di diverse schiatte, schiavoni, savrini, morlacchi.... e che so io. Parlano peraltro quasi tutti un po’ d’italiano, per farsi intendere [p. 79 modifica]da noi, perchè nessuno di noi si cura d’imparare la loro lingua.

Andarono innanzi in silenzio per badare ai cavalli, la strada facendosi sempre più aspra. Più in là Elena che era avida di conoscere qualche particolare dei grandi avvenimenti a cui la dama aveva assistito, si mise ad interrogarla sulla vita di corte nei tempi torbidi, sull’arresto dei sovrani, su i massacri. L’emigrata non era molto loquace su quegli argomenti, forse la rattristavano troppo. Per compiacenza narrava qualche particolare; ma insisteva sul fatto che alla corte si era tardato a comprendere l’importanza, la gravità degli avvenimenti: che la regina specialmente credeva tutto dovesse fluire da un giorno all’altro. Non avevano un’idea del vero stato delle cose.

— Quando compresero — continuava a dire la narratrice — oh! quando compresero era troppo tardi: quando tentarono di fuggire fu un passo falso: se Clarance fosse stato ancora vivo, li avrebbe sconsigliati; o avrebbe disposto meglio la fuga. Ma egli era morto! Quando il re tentò la resistenza armata, fu la rovina completa.

Ella si commoveva a quei ricordi: le lagrime scorrevano sulle sue guancie.

— Oh! Elena, ho sofferto già troppo nella mia vita di soli venticinque anni. Quando ci penso mi par d’averne cinquanta. [p. 80 modifica]

Così ella entrò a parlare di sè, della sua infanzia solitaria in un castello della Brettagna. Sua madre era morta giovine ed ella la ricordava appena come un’ombra apparsa in un sogno. Suo padre era sempre a Parigi, alla corte. Fino a dodici anni ella era rimasta in quel cartello con una governante, incaricata d’insegnarle il tedesco e la musica; il cappellano la istruiva nella religione, dandole pure le prime nozioni di lingua e letteratura, s’intende, francese. Ricordava che i giorni più lieti li aveva passati presso la contessa di Saint-Morlain, che la invitava quasi tutte le feste. A dodici anni suo padre l’aveva messa in collegio, dalle monache del Sacro Cuore. E a sedici l’aveva condotta a Parigi e presentata a corte.

— Ero timida — ella diceva con un pallido sorriso. — All’apparire della regina mi sentii svenire. Maria Antonietta fu tanto buona! Pensate, Elena, mi abbracciò e baciò sulle guancie, una regina!.. Oh! come l’ho amata! Sarei morta volentieri per salvarla.

Tacque commossa la dama; ed Elena rispettò per alcuni istanti quella commozione. Poi, la eterna domanda le veniva alle labbra:

— Era molto bella?

Ma la frane se che non comprendeva bene il senso complesso della parola italiana, rispose franca: [p. 81 modifica]Non, elle n’ètait pas belle. Elle ètait jolie.

Elena a sua volta non intendendo la sottile distinzione, replicò:

— Non era bella?... Come!.. Se dicono tutti che era tanto bella...

Jolie — ripetè la francese: très jolie elle ètait.

E dopo un momento di riflessione soggiunse:

— Aveva un viso d’angelo, ma non si poteva dire bella perchè non aveva forme statuarie...

La strada si manteneva cattiva e le conversazioni s’interrompevano. In compenso il paesaggio meritava sempre di essere ammirato. Da un lato si profilavano le aride creste del Carso; più in basso, più vicine degradavano le colline coperte d’ulivi.

Elena accennò alla compagna una punta sporgente nel mare.

— Quella — disse — è la punta di Salvore. Guardate bene, laggiù laggiù. Là si celebra ancora, nella seconda festa di Pentecoste, una grande vittoria di Venezia sul Barbarossa. Io ci fui una volta col mio povero babbo. Quella torre più in là è un faro.

— Lo conosco — interruppe Bianca. — Fui là col conte Aurelio, la notte del nostro arrivo, quando eravamo inseguiti dal corsaro! Sapete? [p. 82 modifica] — Sì — rispose Mena arrossendo. — Noi chiamiamo quel faro la Lanterna.

La Lanterne! — sospirò Bianca. — Che brutto nome!...

Al di là del mare apparivano come in un sogno, le rive occidentali dell’Adriatico. La ragazza che vi era stata indicava sicura il campanile di Grado.

La strada improvvisamente mutò: divenne piana e liscia, fiancheggiata da olmi e roveri.

I cavalli, istintivamente, si lanciarono al trotto. Le conversazioni rimasero in tronco e tutti si abbandonarono con gioia al piacere della corsa.

Il carro fu distanziato e scomparve dietro a un nuvolo di polvere. Bianca s’accorse d’un tratto che il mare non si vedeva più: la strada, discendendo e segnando un largo cerchio, li aveva portati al di là di una altura che nascondeva il mare. Andavano verso levante, volgendo le spalle all’Adriatico.

Il sole era ben alto quando si trovarono sul margine di un bosco di quercie e roveri. Le vecchie piante poderose lasciavano larghi spazi tra l’una e l’altra, quasi per un senso di dignità e di rispetto reciproco. Forse, la terra non potendo nutrirne tante, le deboli erano deperite o morte, e gli uomini le avevano divelte.

Spiccavano tra quei colossi alcuni giganti dai rami lunghi e frondosi che spandevano intorno [p. 83 modifica]ombra e frescura. Il terreno meno sassoso, più ricco di succhi era coperto di un’erba folta costellata di fiorellini d’ogni colore.

— Ah! com’è bello qui! esclamò Bianca Verdier fermando il cavallo.

Rimase alcuni istanti immobile e silenziosa assorta in una dolce e mesta contemplazione. Aurelio le si avvicinò. Ella lo scorse e gli sorrise.

— Che bel bosco avete qui. Mi par d’essere in Brettagna a casa mia... in quello che fu il castello di mio padre, dei miei antenati... cinto da quercie come queste. Chissà chi vi abita adesso!....

— Coraggio — mormorò Aurelio. Ella riprese dominandosi e cambiando tono:

— È vostro questo bosco, conte? E quello lassù è il vostro castello?

— La mia semplice casa di campagna, signora: non castello. Sono lieto che questo mio lembo di terra desti in voi sì cari ricordi.

— Cari sì, ma tristi. La mia patria è perduta per me.

— Confortatevi, signora, non sarà sempre così. Anche nella sventura la Francia è sempre grande e libera...

Bianca scrollò il capo in segno di diniego.

—.. Libera da stranieri almeno! Noi invece siamo minacciati dalla schiavitù... e forse già il ludibrio delle genti. [p. 84 modifica]

Egli pronunciò queste ultime parole con un accento d’angoscia così profonda che Elena e Bianca sussultarono. Almerighi, Apolonio, il podestà e gli altri, avendo inteso confusamente gli si avvicinarono.

— Cosa hai detto?

— Che profezie fai?

Il podestà che aveva sentito meglio ripetè le parole. Almerighi scrollò le spalle.

— Sempre lo stesso pessimismo reazionario. Io ti dico invece che andiamo incontro alla libertà, alla fortuna. La vecchia Repubblica, che voi vi accontentate di veder vivacchiare nel fango, è vicina ad una gloriosa trasformazione.

Il genio italico, l’eroe degli eroi che regge i destini d’Europa, ci presterà il suo appoggio e noi entreremo a far parte di una grande nazione latina, libera e gloriosa.

— Taci, Ettore, taci! tu non sai quello che dici — gridò il capitano Gori dal carro che aveva raggiunto i cavalieri.

— Non sono imbecillito, sai!

— Pace, signori pace: oggi è giorno d’allegria — disse il dottor Marco Apolonio strizzando l’occhio all’amico Ettore.

— Pace — ripetè donna Anna Maria rizzata in piedi sul carro.

— Nessuno vede nel futuro: nessuno è profeta — ammaestrava il podestà. [p. 85 modifica]

— Andiamo a far colazione? — domandò l’arciprete. — Sono le undici e mezzo e ci siamo alzati alle quattro. Io per di più ho detto messa e son digiuno.

— Sì, andiamo. Il fattore ha inalberato la bandiera di S. Marco sulla torricella: vuol dire che tutto è pronto e che ci aspetta.

— In venti minuti ci siamo — disse Annibale Rigo, che sul cavallo sembrava un fantasma tanto era lungo e magro.

— Voi, a cavallo, farete presto; ma questo carro va avanti come le lumache — gemeva l’arciprete. — È meglio andare a piedi.

La proposta fu approvata. Tutti scesero dal carro. Anche i cavalieri e le amazzoni preferirono fare quel tratto di cammino a piedi nelle viottole erbose, all’ombra delle magnifiche piante. Bianca ed Elena si presero a braccetto da buone amiche. Bianca non aveva mai provata la dolcezza di possedere una giovine amica. Ella narrava che alla corte di Maria Antonietta le altre dame e damigelle tutte meno giovani di lei la guardavano di malocchio e affettavano di disprezzarla. La protezione della regina non bastava a salvarla dai motteggi, dai dispetti. Nell’esilio e alla corte clandestina del preconizzato Luigi XVIII, ella non aveva incontrata una dama che le dimostrasse un po’ d’amicizia e fosse [p. 86 modifica]capace d’ispirarne a lei.. Forse ella stessa sempre assorta nelle sue tristi memorie non sapeva rendersi simpatica.

Ora il suo cuore si risvegliava e chiedeva imperiosamente un affetto, almeno un’amica.

Ella diceva queste cose con molta grazia e dolce malinconia. Ma Elena che l’aveva veduta pochi momenti prima posare lo sguardo ardente su Ettore Almerighi, mentr’egli ribatteva le previsioni dolorose di Aurelio, Elena sorrideva e pensava tra sè: «Uno sposo tu sogni, non soltanto una amica». Delicata e prudente non rivelava il proprio pensiero: osservava e rifletteva in silenzio. A lei bastava che la bella straniera non s’innamorasse d’Aurelio. Già sentiva in cuore la gelosia, comprendendo che il caro cugino aveva una grande ammirazione per la dama e sapendo quanto facilmente l’ammirazione si trasforma in amore. Se però Bianca non l’amava, se gli preferiva un altro, la intelligente fanciulla non la temeva più, perchè il suo Aurelio non era così poco avveduto da non accorgersi di quella preferenza, nè folle al punto da perdere la pace per una donna che non si curava di lui. Un bel ragionamento, tuttavia non sufficiente a strappare dal giovine cuore l’assillo della gelosia: così ella provava il continuo bisogno di stare vicina alla temuta rivale e di sorvegliarla in ogni sua mossa. [p. 87 modifica]

— Sapete che sono stata maritata? — domandò la dama all’amica, entrando in una viottola che si staccava dal viale grande dove camminava la comitiva.

— Sì; mi hanno detto che siete vedova.

— Dopo un solo anno di matrimonio.

— Probabilmente non avrete sofferto molto nel perdere un marito che poteva essere vostro nonno...

— Oh! bambina, come v’ingannate!... Io lo amavo.

— Non è dunque vero che aveva quarant’anni più di voi?

La dama sorrise suo malgrado.

— Capisco, vi sembra una enormità. Se l’aveste conosciuto non parlereste così. Non era un vecchio come ve lo figurate; non aveva che cinquantasette anni. Il torto, se mai, era mio di essere troppo giovine: una bamboccetta. Egli era giovine di aspetto e di cuore, di mente, di tutto... Non era neppure infeudato alle idee vecchie. Non era un cortigiano ignorante. Aveva studiato e molti di quelli che prepararono la rivoluzione erano stati amici suoi. Vedeva bene i danni dei governi assoluti; capiva che molto doveva esser cambiato nel regime monarchico e avrebbe voluto che Luigi XVI si mettesse alla testa di un movimento di progresso, e a volte [p. 88 modifica]osava dargli dei buoni consigli; ma il povero re non sapeva valersene, forse non poteva. Quante volte vedendo mio marito triste, angosciato, lo pregavo di sfogare con me la sua pena, di aprirmi il suo animo desolato. Sebbene non avessi alcuna esperienza della vita, lo comprendevo ed egli non disdegnava di confidarmi i suoi pensieri. Mi diceva allora tante cose grandi e belle, idee e progetti utili e generosi che avrebbe voluto attuare per il bene del re e della Francia; e non poteva: difficoltà insormontabili, ignoranze ed egoismi ciechi vi si opponevano. Parlava con me come avrebbe parlato con un suo pari, tanto mi stimava. Ed io cercavo d’innalzarmi fino a lui, di meritarmi la sua stima e il suo amore che era immenso. Un giovine non avrebbe saputo amarmi così. Purtroppo, erano poche le ore che potevamo stare insieme. Egli aveva diverse cariche ed io pure era molto legata. Eravamo sposi da pochi mesi allorchè avvenne la presa della Bastiglia. Da quel giorno l’inferno si scatenò su noi. In ottobre i Sovrani lasciarono la deliziosa residenza di Versailles, l’incantevole Petit-Trianon, per stabilirsi a Parigi alle Tuilleries, palazzo freddo, non preparato per la famiglia reale, disabitato da molti anni. Il re aveva promesso ai rappresentanti del popolo di andare a stabilirsi a Parigi e la regina volle [p. 89 modifica]seguirlo. Ma io la vidi piangere il giorno della partenza. Era un triste giorno d’autunno; pioveva dirottamente. Sentii che era un cattivo augurio. Tutto il seguito borbottava contro l’Assemblea nazionale, contro i rivoluzionari. A Parigi io fui ancora felice, perchè quando si ama e si vive con la persona amata, si è felici dappertutto; ma presto cominciarono gli affanni, i terrori. Si parlava sempre di aggressioni notturne, di sommosse, di ammazzamenti. Ogni volta che mio marito doveva uscire di sera, io tremavo. Pur troppo, con ragione. Una sera, nell’agosto del novanta, mi disse che doveva andare al Lussemburgo: il re lo mandava da Monsieur. Monsleur era il titolo che spettava allora al conte di Provenza, ora nostro re Luigi XVIII. Mio marito recava al principe una importante ambasciata. Mi si sciolse il cuore a quell’annuncio, e le lagrime mi gonfiarono gli occhi. Egli cercò di tranquillarmi, mi assicurò che avrebbe preso con sè due staffieri armati. Sarebbe tornato presto... Ah! non l’ho più visto vivo! Me lo portarono agonizzante. Mi guardò.. oh! non dimenticherò mai quello sguardo! io lo coprii di baci. Egli pure mi baciò; poi fece un gran sospiro, gli si chiusero gli occhi... era morto!... Una banda di malfattori li avevano assaliti all’uscita dal Lussemburgo.. forse riconoscendoli [p. 90 modifica]per gente del palazzo reale. Dei due staffieri, uno fu ucciso, l’altro potè fuggire, chiamare al soccorso... Ma che! I malandrini erano scomparsi dopo di avere svaligiati i moribondi...

Tacque, sopraffatta dalla commozione, dalle lagrime. Riprese poscia con la voce rotta:

— Ho pregato tanto Iddio che mandasse la morte anche a me. Purtroppo non mi ha trovata degna d’essere esaudita. E.... mi mancò la forza di uccidermi. In mezzo ai loro travagli personali i Sovrani mi mostrarono un sincero compatimento e un vero dolore per la morte del loro fedele servitore. Il re lo stimava e lo amava. Anche Monsieur e Madame ebbero un sincero rimpianto per mio marito e affettuose parole per me. Ma io era disperata, nulla poteva consolarmi.

Tutto questo racconto fu fatto sottovoce, rapidamente e con un accento di profonda passione. Elena ne fu impressionata.

— O Signora, ora vi comprendo: sento la grandezza del vostro dolore. Perdonate le mie parole sconsiderate di poco fa. Non potevo immaginare.

— So, cara, so: non ve ne faccio alcuna colpa.

Dopo un breve silenzio, Bianca riprese:

— Ho giurato sulla sua tomba di non amare mai più in vita mia: nessun altro uomo avrà il mio amore: non mi rimariterò. [p. 91 modifica]

— Avete giurato questo?... Così giovine!

— Quando si è sofferto come ho sofferto io, quando si è visto morire barbaramente un uomo adorato, non si è più giovani: la gioventù del cuore è morta, qualunque sia l’età. E tutte le altre barbarie che ho viste?.. Ah! voi non sapete. Sono stata altri due anni con la famiglia reale, fino alla tremenda giornata del dieci agosto, quando la reggia fu assalita e i fedeli difensori del re accettarono la battaglia, che durò fino a sera, finchè i rivoluzionari vinsero. Il re, la regina e il delfino furono salvati, portati all’Assemblea; il popolo inferocito, avido di vendette, entrò nel castello; molti innocenti furono massacrati; devastati e incendiati gli appartamenti. Io m’ero rifugiata in una stanza remota. Una cameriera venne a cercarmi e mi trascinò con sè, fuori del palazzo, per una porta di servizio, poco prima che quelle furie arrivassero al mio nascondiglio. Ero più morta che viva. Alcuni giorni dopo, quando seppi che mio padre era giù lontano, accettai l’aiuto di amici che mi fecero fuggire. Ma quanti affanni, quante umiliazioni, quante torture! No, Elena, io non avrei più la forza, nè il coraggio di ricominciare la vita.

— Adesso è così; ovvero credete che sia così. Ma un giorno il vostro cuore si risveglierà. Sarete amata... Chi sa quanti vi amano e [p. 92 modifica]ameranno!... E voi non potrete rimanere sempre indifferente. A poco a poco il tempo cancellerà le dolorose impressioni e nuove impressioni prenderanno il loro posto. L’amore s’impossesserà dell’anima vostra prima che voi abbiate il tempo di pensare alla difesa.

— Siete esperta in amore voi! — esclamò la dama sorridendo. — Voi amate...

Elena arrossì fino agli occhi, ma non rispose. Non poteva negare.

— Tenete a mente una cosa: gli uomini volgari si vincono col disprezzo, gli uomini veramente superiori con l’amore. Quanto a me se il mio cuore si ribellerà alla mia volontà saprò punirlo... spezzarlo...

Elena la guardò stupita. In quel momento sua madre la chiamò.

Erano arrivate in fondo alla viottola che sboccava nel viale dove si trovava riunita tutta la comitiva. Si parlava forte, si rideva. La sorella del farmacista aveva declamato alcuni versi. Ettore Almerighi si avvicinò alle due’ giovani signore e disse:

— Dopo la colazione non vi spiacerà di venire anche da me?

— Verremo volentieri.

— La mia casetta è piccola, ma il giardino non è mal tenuto. [p. 93 modifica]

— È magnifico — disse Eiena. E Bianca, sorridendo:

— A giudicare dai fiori che mi mandate dev’essere bello e tenuto con molta cura.

— Eccoci giunti — disse Aurelio accostandosi al gruppo.

Oh! le beau chateau!

— Non è un castello e neppure una villa: è una buona casa di campagna, semplice e comoda. Vedrete, signora: io dico quello che è.

Aurelio aveva ragione: la sua casa di campagna non aveva pretese architettoniche: era un edifìcio solido, di bello proporzioni; dalle grosse mura, dalle ampie stanze. Il pianterreno rialzato conteneva sale da pranzo e da conversazione e una vasta cucina; il primo piano, molte camere, spogliatoi e salotti, ben pavimentati, muniti di granili finestre; al secondo ed ultimo erano i granai e le camere per la servitù. La mancanza di balconi, di colonne e di altre decorazioni esteriori, non che la grossezza dei muri e un avanzo di torre lasciavano supporre antiche fortificazioni soppresse da molti anni. In complesso tutta la casa spirava una larga agiatezza e un gusto semplice, ma non volgare. Nel cortile d’onore una bella fontana circondata da allori e cipressi e qualche aiuola fiorita rallegravano lo sguardo. I cipressi e gli allori e le siepi di bosso [p. 94 modifica]dominavano anche nel vecchio giardino che fronteggiava la casa.

I signori e le dame furono subito condotti al primo piano dove trovarono negli spogliatoi l’occorrente per pulirsi dalla polvere e rinfrescarsi. Poi discesero nella vasta sala da pranzo.

— Così va bene! — esclamò don Ludovico vedendo la mensa imbandita.

La comitiva seguì allegramente l’esempio dell’arciprete, prendendo posto intorno alla tavola. Bianca ed Elena vollero restar vicine. Annibale Rigo più incipriato e azzimato del solito, e col suo bel codino di protesta contro le idee e le mode nuove, si mise al fianco di Bianca; e il gran cacciatore Virgilio de’ Grassi con la cipria anch’egli e con la coda legata da un bel nastro, ma con gli stivaloni, a differenza del Rigo che portava sempre lo scarpette, si mise al fianco di Elena. Di fronte a questo gruppo si trovò Aurelio con Ettore. La sorella del farmacista si maneggiò del suo meglio per sedersi vicina al dottor Marco Apolonio, che ella onorava di una mal corrisposta predilezione. Le altre signore si aggrupparono intorno a don Ludovico col capitano Gori, il nobile Alessandri, il farmacista e il dottor Volpi, che parlava poco o guardava sempre la sua signora. Al relativo silenzio che suol accompagnare la prima portata, seguì ben presto un allegro conversare. [p. 95 modifica]

Aurelio ed Ettore si divertirono per loro conto della galanteria del Rigo e del de’ Grassi; e le due giovani pure ne risero, specialmente quando il de’ Grassi, spinto dalla maliziosetta Elena, entrò a raccontare le sue iperboliche avventure di caccia. Marco Apolonio si rassegnò alla magniloquenza della sua erudita ammiratrice, riempiendole continuamente il bicchiere che la poveretta vuotava quasi senza accorgersene nella gioia insolita d’intrattenersi col suo prediletto, sperando forse di conquistarlo.

La colazione era alla fine: il moka genuino, così gradito ai frequentatori di casa Castellani, spandeva nella sala il suo vivificante profumo, allorchè fu udito il galoppo di un cavallo che si avvicinava.

— Un messo — disse il podestà.

— Una staffetta — corresse il capitano.

— Verrà da buona-parte! — completò il dottor Marco.

— Senza scherzi, costui ha molta fretta. Finiamo il nostro caffè.

E tutti vuotarono le belle chicchere di maiolica decorata.

— Ecco, ho indovinato io: è un messo della podesteria — disse il nobile Alessandri che si era affacciato alla finestra.

— Che c’è?... Chi ti manda? [p. 96 modifica]

— Sua nipote, illustrissimo. Abbiamo una nave di guerra in porto. Gli ufficiali sono alla podesteria. Ecco qui due lettere.

— Che ufficiali?... Nostri?...

— No, illustrissimo. Francesi sono. Francesi!

Tutta la comitiva era balzata in piedi e circondava il podestà.

— Due lettere. Questa è di mia nipote. «Caro zio, abbiamo una nave di guerra, francese, che deve fermarsi in porto, per via del garbin molto forte. Gli ufficiali sono a terra. Uno di essi è qui, in podesteria; domandano acqua e viveri, e una sala per ballare stasera, con invito a tutte le signore. Io non so cosa fare, nè cosa dire. Vieni, subito, ti prego. La tua nipote

Irene».

L’altra lettera era dell’ufficiale Paul de Saint-Morlain, e diceva presso a poco le stesse cose, con molto garbo ed eleganza.

La calligrafia della fanciulla rivelava una mano tremante e ad un certo punto c’era una macchia d’inchiostro.

— Che cattivo inchiostro avete in ufficio! — esclamò il podestà. — Anche l’ufficiale ha una larga macchia nel mezzo della lettera: e sì che a lui non tremava la mano.

— L’inchiostro era il solito, illustrissimo. La signorina tremava e intingeva la penna tutti i [p. 97 modifica]momenti; e l’ufficiale faceva come lei. Quando essa fece quella macchia, egli lasciò cader la penna. Allora la signorina rise o non tremò piò.

— Galanteria francese — osservò Elena.

Bianca che al nome di Saint—Morlain si era un po’ oscurata disse con qualche amarezza:

— Non tutti i francesi sono così galanti. Saint-Morlain era nostro amico. È un nobile di antica stirpe e non dimentica, si vede, le tradizioni galanti come ha dimenticato la fede politica. Io non interverrò alla loro festa.

I cavalli erano pronti; il carro aspettava. Partirono malcontenti, eccetto Marco Apolonio ed Ettore Almerighi ai quali sorrideva l’idea di rivedere, dopo quasi un anno che non avvenivano sbarchi, le assise repubblicane di quella Francia da essi tanto ammirata.