La Dama della Regina/VI
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VI.
L’arruolamento di nuove truppe ordinato dal Senato per difendere nell’estremo pericolo la Dominante — cioè Venezia — mise sottosopra anche la piccola città istriana, che potè dare in tutto, con grande dispiacere, una mezza dozzina di coscritti. Aurelio ebbe molto da fare in que’ giorni: sarebbe anche andato a Venezia ad accompagnare quei giovani, ma non gli bastava l’animo di lasciare sua madre e Bianca sole in quella casa così esposta dalla parte del mare. In quel tempo l’Adriatico era pieno di armatori che inalberando bandiera tricolore, francese, od altra, predavano le barche veneziane: uno sbarco era sempre possibile e le signore si sarebbero spaventate. A Venezia andò, invece di Aurelio, Ettore Almerighi col fido amico Marco Apolonio. Ettore si sentiva già troppo dominato da una passione che egli stesso condannava; pur rimanendo ancora tanto padrone di sè da avere il desiderio e la forza di svincolarsene. Virilmente pensò di allontanarsi dal paese: «La lontananza — si diceva egli — è il miglior rimedio per le malattie di questo genere». Venezia, dove le idee nuove avevano già numerosi partitanti e dove si preparavano grandi avvenimenti, doveva offrirgli sufficiente distrazione: la politica avrebbe facilmente ucciso l’amore. Tale era almeno la sua opinione.
All’ultimo momento, quando andò a salutare la contessa e Bianca de Clarance, poco mancò che il suo grande progetto naufragasse. Anche la dama sembrò commossa, anzi un po’ irritata. Chissà, forse il suo amor proprio di bella donna fu punto da quella inaspettata defezione. Egli partiva — dunque non l’amava? O quand’anche l’amasse, era capace di soffocare quell’amore! Ella non lo amava, o se pure lo amava, come credeva Elena Alvisi, era certamente risoluta a non abbandonarsi mai a quell’amore: avrebbe dovuto dunque essere contenta che egli partisse. Invece no. Soffriva nel cuore e nell’amor proprio.
È dolce imperare, ancorchè l’impero non possa darci la felicità. Un re che ha conquistato un paese, anche se gli dà più fastidi che vantaggi, non si rassegna facilmente a perderlo: tanto meno si rassegna una donna alla perdita di un forte cuore d’uomo che ella ha creduto suo....
Un solo pensiero dominò in quel momento il cervello di Bianca: Ettore la fuggiva; Ettore non l’amava o non voleva amarla e la volontà era in lui più forte dell’amore. La voce e le parole della dama rivelarono il dispetto.
— Avete ragione di andarvene; qui, un cavaliere come voi non può che morir di noia.
Indovinò egli il movente che spingeva la dama a parlargli a quel modo? Forse. Arrossì e la sua voce tremò; le parole non dissero che un grande sconforto.
— Oh, no, signora: non è la noia che mi spinge a partire. Starei qui in eterno... — S’interruppe e tacque un istante.
— Temo piuttosto — soggiunse a bassa voce — temo d’essere io noioso, forse importuno.
Ella lo guardò negli occhi; ma il fuoco ardente di quelle pupille la costrinsero ad abbassare le sue.
— Non capisco. A chi mai potete voi temere d’essere importuno?...
Egli ebbe un movimento impetuoso e stese lo braccia verso di lei.
— O Signora!... — balbettò.
Ella comprese di avere pronunciate quelle parole con un’espressione troppo viva; arrossì a sua volta; arretrò d’un passo e cercò di rimediare alla meglio.
— Volevo dire che in un paese come questo, la compagnia di un uomo di spirito come voi è troppo rara per non essere desiderata da tutti.
Egli s’inchinò, ridivenuto freddo e padrone di sè.
— Vi ringrazio. La vostra bontà mi darà il coraggio di ritornare. Potete credere che in questi momenti non sono già i divertimenti della grande città che mi attirano.
— A rivederci, dunque — ella disse cogliendo l’occasione per troncare il colloquio.
— A rivederci presto, Signora.
— Ettore! — chiamò Marco Apolonio dal di fuori. — I cavalli aspettano.
Prima d’allontanarsi Ettore Almerighi si chinò, afferrò la mano che Bianca lasciava pendere abbandonata lungo il fianco e la portò alle labbra.
Il bacio fu assai più lungo e ardente che non lo richiedesse il convenzionale, rispettoso complimento.
⁂
La partenza dei due rivoluzionari produsse un gran vuoto nella piccola società. Essi portavano con sè l’animazione, le furiose dispute, e quel po’ di allegria che piaceva tanto alla contessa Castellani. La vita si fece più lenta, le conversazioni più monotone. Gli amici di donna Anna Maria andavano come il solito a farle visita e a bere il buon caffè nella grande sala dai mobili solenni e pesanti. Ella ricamava, o faceva la calza; sua cognata faceva qualche trina, o merletto a punto maglia, di straordinaria bellezza, oppure sul tombolo. Bianca ed Elena ricamavano il tulle per i loro fisciù, o le belle mussoline. Esse sedevano vicine, scambiavano qualche parola voce, qualche sorriso. Gli uomini leggevano le gazzette che il conte riceveva specialmente da Parigi. Ed or l’uno or l’altro leggeva ad alta voce le notizie più interessanti. Si commentavano quelle notizie; si esprimevano opinioni più o meno incerte e malinconiche. Nessuna disputa di qualche entità era possibile poichè tutti pensavano su per giù allo stesso modo.
Tutti amavano Venezia, San Marco, il leone alato... Tutti, meno Aurelio, che pure essendo conservatore possedeva uno sguardo più ampio, tutti inveivano contro la Francia repubblicana, contro il Direttorio, contro Buonaparte. Contro Buonaparte peraltro, inveiva qualche volta anche Aurelio; ma egli vedeva pure gli errori, la debolezza, la miseria di quelli che reggevano la Serenissima, e non potendo, o non credendo opportuno di aprire agli altri tutto l’animo suo, per lo più taceva. Il capitano Gori, ardito e attento, attaccava pure qualche volta il Senato e il doge. Ma don Ludovico trovava sempre buone ragioni per difenderli. Non si doveva prenderli tutti a mazzo i senatori; vi erano i buoni e i grami. E poichè nessuno poteva contraddirlo in ciò, finivano con lo scagliarsi tutt’insieme contro i traditori, i mestatori, le spie ed i fautori del Buonaparte.
— I Marco Apolonio! — gridava il capitano Gori. — I compagni di questo malvagio che ha rovinalo il mio Ettore, il mio caro nipote... Veramente è mio cugino, ma quando era piccino, ed io già uomo, mi chiamava zio. Era tanto carino.. ed ora..
Scrollava il capo, il buon capitano, sospirava e taceva o cambiava discorso.
Altre volte, quando il suo pensiero non dava di cozzo in quella bestia nera che era per lui il dottor Marco, rispondeva acutamente alle difese dell’arciprete:
— Sta bene: lo so anch’io che Venezia è piena di traditori; che Ludovico Manin è mal circondato, che il Senato, tenuto perfidamente all’oscuro, non conosce che una parte della verità... Ma, domando io, il doge e i senatori ingannati dormono? Non hanno occhi, non hanno orecchi per vedere e udire da se medesimi?... Ah! purtroppo, sono sordi e ciechi. Chi inganna è un infame; ma l’uomo di Stato che si lascia ingannare è.... uno che non fa il suo dovere.
Scrollava il capo, sospirava, si chiudeva nelle sue riflessioni e non parlava più.
Il farmacista conte Furegoni se la prendeva contro l’egoismo dei governanti: avevano perdute le città di terraferma, sulle quali Venezia non serbava che una vana autorità di nome; e le avevano perdute senza movere un dito per salvarle: ed ora si commovevano tutti per il pericolo della capitale, della «Dominante», vale a dire di loro stessi, delle loro case, dei loro denari. Egoisti e pieni di fuffa.
Il podestà, nobile Alessandri, che al pari del fratello di donna Anna Maria soffriva atrocemente di quegli attacchi, trovava ancora un appiglio alla difesa: non era vero, che pensassero solo alla «Dominante» alla loro vita, ai loro soldi: la flottiglia che girava per l’Adriatico era pure incaricata di difendere le coste istriane. Cosa potevano fare di più?
— Sì — ripicchiava il Furegoni. — Sì; ma intanto ci portano via i giovani più robusti e ci mettono una nuova tassa per far fronte alle spese degli armamenti!
Dopo lungo silenzio, interveniva il conte Aurelio:
— Non siate così severi con la povera Repubblica: pensate come saremo tutti tristi quando non ci sarà più.
Queste parole li trafiggevano. Oh! no per amor di Dio! no, non facesse di quelle profezie! Non esserci più la Repubblica?!..
Ma no, no, non era possibile!
E rimanevano senza fiato e sentivano un gelo nella schiena.
Lettere private e qualche articolo di giornale li rianimavano: una speranza sorgeva. Un amico scriveva da Bergamo: «Tutte le popolazioni delle campagne sono fedeli a S. Marco: non ne possono più delle prepotenze francesi. Se Venezia avesse un po’ di coraggio potrebbe riacquistare tutte le provincie di terra ferma.
— Venezia vorrà! — affermava don Ludovico.
— Vorrà! Vorrà certo! — ripetevano in coro gli altri.
La fede si riaccendeva subito in quelle anime semplici di patriotti.
In agosto, in una di quelle giornate afose, quando il sole incombe sul mare liscio, sul mare immobile come uno specchio che ne raddoppia il calore, una galera dell’armata marittima veneziana, che veniva dal Levante, si fermò davanti al paese, un po’ fuori del porto. Poco dopo una lancia a sei remi toccava terra e un ufficiale — il capitano della galera — saliva in casa Castellani. Il domestico annunciò:
— Il capitano Leonardo Cerri.
— Ah! Leonardo! — esclamò Aurelio con immensa gioia.
Erano amici di antica data e non si eran più veduti da alcuni anni. L’ultimo loro incontro era avvenuto in Alessandria d’Egitto quando Aurelio vi era console della Repubblica.
Ore liete e giorni bruschi li avevano stretti l’uno all’altro con saldo vincolo. Durante una pestilenza, importata da una carovana, si erano trovati in gravi perigli e preoccupazioni. Un giorno Aurelio si credè attaccato dal male e Leonardo non si allontanò da lui neppure un istante. Così i disagi e i pericoli avevano cementata la loro amicizia. La visita inaspettata di tale amico portò una viva gioia nella famiglia. Aurelio volle presentarlo a tutti gli altri amici e improvvisò un banchetto al quale li invitò tutti, deplorando l’assenza di Ettore Almerighi.
Una perfetta cordialità rallegrò il fraterno simposio; e il più schietto buonumore, per quanto passeggero, brillò ancora una volta nelle sale malinconiche.
Il capitano, affidando la nave al suo secondo, gli aveva raccomandato di sparare un colpo a polvere al minimo allarme. In ogni modo però egli voleva ritornare a bordo col calar del sole. Rapide scorrevano l’ore nella lieta compagnia; tra gli amici e le signore era una gara nel festeggiare l’ospite. Esauriti i ricordi del passato, la conversazione cadde naturalmente sull’eterno soggetto, sulla preoccupazione più intensa dei loro animi, su Venezia, su i destini della loro povera provincia. E chi pensò più alle ore che fuggivano? Lo stesso capitano così ligio al dovere, ebbe un istante d’oblio parlando dei fatti di Bergamo, della sollevazione dei contadini. D’un tratto un colpo di vento fulmineo traversò le sale per le finestre spalancate, e tutti i vetri dalla parte del mare caddero infranti con uno schianto formidabile.
— Ah! la mia nave! — gridò il capitano balzando in piedi col pallor di morte sulle guancia.
Corsero tutti in terrazza e giù per la scaletta che conduceva al mare, dove la scialuppa attendeva nella piccola insenatura.
— Volete partire con questo tempo!... — esclamò donna Anna Maria.
Il capitano sorrise involontariamente. Sarebbe stata bella che un capitano avesse abbandonata la sua nave in balia d’un fortunale per paura del mare grosso!
— La ringrazio contessa, la ringrazio di tutto, anche di questa sua affettuosa premura. Ma non s’inquieti. I miei uomini sono bravi rematori e la lancia è forte. E poi, guardi, il vento è ancora alto: il mare ha poche onde. Di nuovo, grazie. Addio, Aurelio. Addio a tutti.
Strinse in fretta tutte le mani che gli venivano pôrte e in due salti fu alla spiaggia. Aurelio e i convitati lo seguirono, sebbene il vento fosse tale che le signore stentavano a stare in piedi.
— Ce la caveremo bene, eh, ragazzi? — domandò allegramente il capitano ai marinai che già sedevano ai loro posti con i remi alzati pronti a batter l’onde.
— Senza dubbio, capitano.
— E non avete bevuto troppo, spero? — domandò egli ancora osservandoli.
Risero quei giovani; e uno de’ più anziani assicurò il capitano che non avevano esorbitato, sebbene il vino fosse tanto buono. E su questo mandando un urrah! di saluto entusiastico ai generosi ospiti, percossero l’onde con i lunghi remi perfettamente all’unisono. Il capitano si mise al timone, rimanendo ancora un momento in piedi.
— Addio, signori e signore! Addio, Aurelio non inquietarti per me. A rivederci!
— A rivederci! — rispondevano i rimasti. — A rivederci! — Il fervido augurio aveva l’intendimento e l’ardore di uno scongiuro.
Ma il vento spezzava le voci: sperdeva le fatidiche parole.
La barca si allontanava: il capitano mandava l’ultimo saluto, il saluto di rito, col fazzoletto bianco. Quelli dalla spiaggia rispondevano allo stesso modo.
La scialuppa volava. Sotto l’impulso possente e misurato delle forti braccia, i remi sembravano due grandi ali aperte, distese sull’acqua.
Ancora una volta, come accade tanto spesso a chi vive in riva al mare, i Castellani e i loro amici e parenti si trovavano riuniti sulla terrazza, ansiosi e palpitanti per una vita umana in pericolo di morte. Questa volta la minaccia non veniva dalla perfidia degli uomini: non era la caccia dell’uomo all’uomo, bensì la formidabile potenza della natura, la forza cieca e indomabile degli elementi sempre pronti ad uccidere i miseri esseri a cui diedero vita — chissà — forse scossi e tormentati a lor volta da altre forze più possenti ancora o da una fatale necessità di lotta.
Il cielo si oscurava sempre più: il mare era tutto di un colore, cupo, fremente. Per fortuna il vento si manteneva ancora alto, come aveva detto il provetto marinaro. A poca distanza dalla spiaggia, il mare perdeva gran parte di quella virulenza a cui la terra lo spinge opponendogli un limite: le onde divenivano larghe e basse con poca cresta; più che onde erano sollevamenti e abbassamenti ritmici, come d’un immenso cuore, il cuore dell’universo, nel presentimento di un cataclisma.
La scialuppa saliva e scendeva: ora sembrava che la prua sprofondasse mentre la poppa si ergeva quasi tutta fuori dell’acqua; poco dopo la prua risaliva trionfante e la poppa s’immergeva quasi fino all’orlo. I rematori impassibili non alteravano i loro movimenti rapidi e misurati.
Sulla terrazza si tremava di angoscia e di freddo. Le signore si ritirarono con don Ludovico. Elena restò, coprendosi con uno scialle che sua zia, la contessa, aveva preso fuori da un cassone, tutto odorante di canfora. Poi, ella si collocò vicino al grande canocchiale sempre a posto sul cavalletto. Aurelio si mise accanto a lei; il Gori e il de’ Grassi si appoggiarono al muro di fondo dove sentivano meno la furia delle raffiche. Tutti seguivano ansiosamente il fiero beccheggio della scialuppa, Elena osservava nel medesimo tempo, con rapide occhiate, gli atteggiamenti di Aurelio; e quando la terribile altalena era troppo forte, vedendolo tremare, impallidiva. Gli leggeva nel cuore. Capiva che nella sua coscienza delicata, egli si rimproverava di avere contribuito a trattener l’amico lontano dalla nave. «Quale sarò il suo dolore — ella si diceva — se la disgrazia succede?» E rabbrividiva solo a pensarci.
Vi fu un punto in cui ella credè veramente che la scialuppa fosse persa. Non la discerneva più tanto nero e basso era il cielo: la caligine infittiva di momento in momento.
— Oh!.... io non li vedo più! — sospirò Aurelio. — E tu?... Non li vedi neppure col canocchiale?
Elena non rispose subito.
Il Gori e il Grassi non vedevano più neppure la galera.
Ebbero un memento di suprema angoscia. L’arciprete si affacciò alla porta della terrazza per chiedere notizie. Sopraggiunse il podestà.
— Ebbene? — chiese sbigottito.
Aurelio scrollò il capo. Elena non si mosse, non fiatò.
Ella disse finalmente:
— Se non m’inganno, sono saliti sul bastimento. Ma è tanto buio che non ci vedo più. Certo lo hanno raggiunto. Il cuore mi dice che sono salvi.
La mattina dopo il vento era cessato; il mare aveva quella inquietudine, quel sobbollimento che la bufera lascia dietro di sè. La galera era scomparsa; ma nessuno parlava di disastri. Tre giorni dopo Leonardo Cerri scrisse da Venezia. Era giunto felicemente alla nave, poi la nottata era stata brusca; ma all’alba avevano potuto riprendere la volta per Venezia e grazie al vento favorevole riguadagnare il tempo perduto.