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Il fanciullo rapito 29

marcia, lo costringeva di tratto in tratto a rallentare la sua fuga.

Sfinito lo era in realtà, ma contava su quei ritardi per lasciare campo ai dahomeni di ritirarsi, comprendendo che una lotta con quei negri coraggiosi e sanguinari, almeno pel momento, non era opportuna. Quei duecento uomini non avrebbero certo faticato a schiacciare i tre cacciatori, essendo tutti armati di fucile.

Le scariche e le grida erano intanto cessate, ma al disopra degli alberi si vedevano ancora innalzarsi nuvoloni di fumo dai riflessi sanguigni e nembi di scintille che il vento notturno spingeva assai lontane, minacciando di provocare altri incendi nei boschi vicini.

Mezz’ora dopo i due cacciatori ed il negro, lasciata la foresta, giungevano sul margine d’una prateria, in mezzo alla quale, presso un piccolo corso d’acqua, sorgeva la fattoria d’Alfredo.

Un orribile spettacolo s’offerse tosto agli sguardi del disgraziato proprietario e dei suoi compagni.

Del vasto fabbricato e dei suoi magazzini, che poche ore prima contenevano ingenti ricchezze, non rimanevano che poche muraglie annerite dal fumo e degli ammassi di rottami, di sotto ai quali sfuggivano ancora vortici di fumo e delle lingue di fuoco che lanciavano in aria getti di scintille.

Le palizzate che circondavano i fabbricati erano state in gran parte abbattute per lasciare il varco agli assalitori, i cancelli strappati giacevano al suolo, mentre tutto all’intorno si scorgevano casse sventrate, botti sfondate, animali morti e più oltre parecchi cadaveri umani ammucchiati alla rinfusa, che stringevano ancora ferocemente i lunghi e pesanti coltelli, adoperati dai barbari guerrieri del Dahomey.

Alfredo, scorgendo quella desolazione, si era arrestato come fosse stato pietrificato, poi si era lasciato cadere al suolo ripetendo con voce soffocata dai singhiozzi:

— Me l’hanno rapito!... Povero fanciullo!... Povero fratellino mio!...