La Costa d'Avorio/5. L'odio di Kalani
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Capitolo V
L’odio di Kalani
Alfredo Lusarno, catanese, da dieci anni aveva preso stanza sulla Costa d’Avorio. Figlio di uno di quegli arditi negozianti di corallo, che un tempo si spingevano fino sulle coste occidentali dell’Africa per vendere ai negri del Senegal, della Sierra Leone e della Repubblica di Liberia i prodotti dei banchi coralliferi di Sicilia e di Pantellaria, ritraendo grossi guadagni, a ventiquattro anni aveva deciso di abbandonare l’isola natìa e di visitare i paesi che avevano fatto la fortuna del genitore.
Spirito irrequieto, avventuroso, avido di emozioni e soprattutto appassionato cacciatore, non aveva posto indugio ad effettuare il suo disegno. Con poche migliaia di lire in tasca, ma pieno di buona volontà, si era imbarcato sul primo postale in partenza da Marsiglia per le colonie francesi dell’Africa occidentale, visitando successivamente San Luigi del Senegal, Dakar, Free-Town, Monrovia, quindi le diverse cittadelle della Costa d’Oro, soffermandosi a lungo a Whydah, la stazione più importante e più commerciale di quelle regioni.
Disgraziatamente, o meglio per sua fortuna, un mattino svegliandosi aveva fatti i suoi conti di cassa e si era accorto che i suoi biglietti da mille erano quasi tutti sfumati e che non gli rimanevano che poche dozzine di ghinee ed alcuni risdalleri.
Non si era sgomentato per questo, ma aveva pensato che era giunto il momento di lasciare i viaggi e di ricostruire la sua modesta fortuna, così troppo presto sfumata.
Avendo ormai conoscenza delle lingue parlate sulla costa e cognizioni commerciali sufficienti pei generi che si scambiavano in quelle importanti cittadelle e anche relazioni d’amicizia, era andato a offrirsi ad un portoghese che possedeva una importante fattoria a Porto Novo.
Il bravo portoghese, che aveva avuto occasione di apprezzare l’abilità e l’energia del siciliano, due qualità necessarie in quelle regioni per trafficare e farsi rispettare da quei negri, che sono generalmente ladri e selvaggi, l’aveva subito accolto in qualità di raccoglitore d’olio di elais, articolo importantissimo, ma che richiedeva fatiche non poche, dovendo gli acquirenti spingersi nell’interno per visitare i villaggi negri.
Alfredo Lusarno si era messo a lavorare con infaticabile energia, spingendosi perfino sulle frontiere del selvaggio reame del Dahomey, del Benin, nel regno degli Ascianti, nelle due repubbliche del Piccolo e del Grande Popo, facendo ottimi affari dovunque ed approfittando anche per dare libero sfogo alla sua passione per le grandi cacce.
Due anni dopo il proprietario della fattoria, uno zio di Antao, soddisfatto dell’attività del suo agente lo interessava sugli utili, e quattro anni più tardi il siciliano aveva avuto il piacere di constatare che la sua modesta fortuna sfumata nei viaggi, l’aveva triplicata in mezzo all’olio dei negri.
Nel 1874, morto il proprietario, dopo di aver liquidato ogni cosa e rimesso il ricavato ad Antao Carvalho, legittimo erede, aveva cominciato a trafficare per proprio conto, fondando una fattoria nello stato del re Tofa, accumulando rapidamente una cospicua sostanza.
Ma allora un ardente desiderio di rivedere la città natìa ed il bel cielo d’Italia, l’aveva preso. Si era ricordato d’aver lasciato in patria dei parenti ed una matrigna, causa non ultima della sua decisione di andarsene pel mondo a cercare fortuna, ed un giorno si era imbarcato per l’Europa, affidando la sua prosperosa fattoria ad un amico fidato.
Brutte sorprese l’attendevano in patria. Dei disastri finanziari avevano rovinato suo padre che era morto di dolore; la matrigna era pure morta poco dopo, ma avevano lasciato un figlio, un bel ragazzino bruno, ardito, somigliante in tutto al fratello, quantunque nato da altra madre e che era stato raccolto da alcuni pietosi parenti.
La città natìa non aveva più attrattive per l’intraprendente emigrato e la sua risoluzione era stata pronta. Aveva preso con sè il fratellino destinato un giorno a diventare suo erede ed erasi affrettato a ritornare nella sua fattoria, deciso a non più lasciarla.
Aveva rivolte tutte le sue cure al fratellino che cresceva prospero e robusto e che amava come fosse il proprio figlio, ma non aveva trascurato però nè i suoi commerci, nè le sue cacce, diventando uno dei più ricchi proprietari della Costa d’Avorio e uno dei più audaci cacciatori, forse il più famoso di tutti.
La sua felicità ormai era completa, e Alfredo, tanto ricco da non aver più bisogno di affaticarsi nei suoi commerci, poteva dedicare le sue giornate alla sua passione favorita in compagnia di Antao, che si era deciso di passare parecchi mesi insieme all’ex agente di suo zio, quando agli ultimi dell’aprile 1878, accaddero inaspettatamente gli avvenimenti precedentemente narrati.
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La ritirata dei dahomeni era stata così rapida, da far perdere ogni speranza di poterli ormai raggiungere, essendo quasi tutti i negri infaticabili camminatori, tali da poter superare i più lesti europei e da gareggiare perfino coi cavalli.
Uccisi e decapitati i difensori, secondo il loro barbaro uso, rapito il fanciullo, saccheggiata e poi incendiata la fattoria, si erano affrettati a raggiungere i grandi boschi del settentrione, forse per non farsi sorprendere dai guerrieri del re Tofa, sul cui territorio avevano compiuta l’aggressione.
Non avevano lasciato indietro che due dozzine di cadaveri fra i quali alcuni corpi di amazzoni, cadute sotto il piombo dei difensori della fattoria; e delle ricchezze racchiuse nei magazzini non avevano abbandonato che i barili d’olio d’elais, gran numero dei quali erano però stati poi distrutti dal fuoco.
Alfredo, rimessosi dal fiero colpo, si era cacciato fra le fumanti rovine del suo stabile, sperando di poter salvare qualcuno dei suoi fedeli servi che avevano opposto una breve, sì, ma disperata resistenza, ma non aveva trovato che i loro cadaveri decapitati e mezzo arsi dalle fiamme. I suoi quattro servi che lo seguivano nelle cacce, il suo intendente ed i suoi sei schiavi erano caduti tutti al loro posto, difendendo il padroncino.
— Miserabili!... Miserabili!... — ripeteva il povero siciliano, con voce cupa. — Tutto distrutto, tutti uccisi e il mio Bruno rapito!... Cosa accadrà del povero fanciullo, nelle mani di quei barbari?... Ma cos’è che vuol fare di lui quell’infame Kalani?... Si è vendicato finalmente quel tristo, ma lo ucciderò un giorno, dovessi andarlo a cercare ad Abomey.
— Coraggio, mio povero amico, — diceva Antao. — Lo libereremo un giorno e puniremo quell’uomo che ti ha rovinato. Metto a tua disposizione il mio braccio e le mie ricchezze.
— Non è delle ricchezze che io ho bisogno, Antao, ma del tuo braccio. Questa fattoria non rappresentava che la decima parte della mia fortuna e non m’importa che l’abbiano distrutta, ma il mio fratellino.... Antao, io fremo pensando cosa possono fare di quel poverino incapace a difendersi.
— Udiamo, Alfredo — disse il portoghese, sedendosi su di un barile e costringendo l’amico ad imitarlo. — Sii calmo e ragioniamo per vedere cosa ci convenga fare. I rapitori ormai sono lontani e non potremo di certo raggiungerli, quindi è inutile per ora metterci sulle loro tracce. Fors’anche hanno preso le loro misure per impedirci di seguirli e non siamo in grado di cimentarci in un combattimento contro di loro, specialmente in mezzo ai boschi.
— Lo so, Antao. Nulla potremmo ottenere inseguendoli.
— Consigliamoci adunque, ma dimmi innanzi tutto, a che cosa si deve attribuire quest’assalto improvviso.
— A una vendetta di Kalani.
— Ma chi è questo dannato Kalani, che odo nominare per la centesima volta?
— Due anni or sono era un servo ed ora è uno dei più potenti cabeceri del Dahomey.
— Sta bene, è un furbo che in due soli anni ha fatto un bel salto, una fortuna che sarebbe sorprendente in Europa, ma non in Africa. Perchè ti odiava?...
— L’avevo preso come servo, perchè era un negro scaltro, intelligente, energico e credevo anche affezionato, quantunque più tardi fossi stato informato che invece di essere un nativo del Gran Popo, era un dahomeno. Essendomi accorto che mi rubava, minacciai di scacciarlo, ma continuando, un giorno, acciecato dall’ira, lo feci frustare.
Una settimana dopo Kalani improvvisamente scompariva, dopo d’aver detto ad uno dei miei servi che sarebbe ritornato per vendicarsi. Non ne feci caso ed ebbi torto.
Quel furfante, ritornato nel Dahomey, si era accaparrata la fiducia di alcuni capi, poi del re Geletè ed era stato creato, non so per quale motivo, gran cabecero di Abomey, ossia gran capo e grande sacerdote dei sacrifici umani e dei feticci.
Un giorno, un negro che veniva da Abomey, mi fece avvertire che Kalani era sempre smanioso di vendicarsi; più tardi un altro mi consigliava di tenermi in guardia, poichè il mio servo tentava di indurre Geletè a fare una spedizione contro Tofa per farmi schiavo, aggiungendo che era spalleggiato dal principe Behanzin, il futuro re del Dahomey,1 ma non credetti nè all’uno nè all’altro. Pur troppo era vero!... Lo hai veduto ora, Antao.
— Ma cosa ne farà di tuo fratello, quel furfante?...
— Lo ignoro, ma sospetto a cosa mira Kalani.
— Spiegati.
— Non avendo potuto farmi assassinare o farmi prigioniero, ha preso il mio piccolo Bruno ritenendosi certo che io sarei andato nel Dahomey per liberarlo.
— Credi che non lo uccidano?... Sono così sanguinari quei negri?...
— Non lo credo. Se avessi questo timore, non sarei rimasto qui, ma mi sarei subito lanciato sulle tracce dei rapitori e...
— E t’avrebbero ucciso, Alfredo.
— Lo so, ora lo vedo. Ma non abbandonerò mio fratello, Antao, te lo giuro: io andrò ad Abomey.
— Ed io verrò con te.
— Grazie, amico, — disse il cacciatore, stringendo vivamente la mano del bravo portoghese. — Ti accetto, poichè so che sei un valoroso.
— Ma non possiamo recarci noi due fra quei negri feroci. Cosa conti di fare?...
— Recarmi prima dal re Tofa. I dahomeni hanno violate le sue frontiere e potrebbe prestarmi man forte per vendicarmi di Kalani.
— Vuoi un consiglio, Alfredo?
— Parla, Antao.
— Innanzi tutto andiamo a ritrovare l’amazzone che abbiamo lasciata nella foresta. Quella donna, che non mi è sembrata così cattiva come le sue compatriote, può esserci molto utile.
— È vero!... — esclamò il cacciatore, battendosi vivamente la fronte. — Ed io me l’era dimenticata!... Sì, Antao, andiamo a cercarla; può darci delle preziose informazioni sui tristi progetti di Kalani.
— Andiamo, — disse il portoghese, alzandosi.
— Ma tu sei stanco, mio bravo amico. Non sei ancora abituato alle lunghe marce fra queste foreste così difficili da attraversare.
— Morte di Saturno!... Le mie gambe mi porteranno egualmente, e poi, lasciarti andare solo, mentre forse i dahomeni ti attendono per cacciarti due palle nel petto?... Andiamo, Alfredo!... Guarda!... Le mie gambe funzionano perfettamente. —
Il cacciatore, che sapeva quanto valeva quel bravo compagno, non insistette oltre e si misero entrambi in marcia, preceduti dal negro Asseybo, che aveva piena conoscenza delle vicine boscaglie e del fiume che le attraversava.
L’alba era già spuntata ed il sole sorgeva fiammeggiante dietro le alte cime delle foreste che si estendevano ad oriente dell’Ouzme.
Bande di pappagalli grigi cominciavano a schiamazzare sulle alte cime dei mangani e degli aranci, salutando i primi raggi dell’astro diurno, mentre fra i fitti cespugli, certe specie di usignoli ma dalle splendide penne, facevano udire i loro gorgheggi armoniosi.
Delle truppe di scimmie si stiravano le membra indolenzite, emettendo grida rauche e discordi, mentre altre, più mattiniere, avevano già cominciati i loro saccheggi, spogliando con rapidità inaudita i banani ed i datteri delle loro deliziose e zuccherine frutta, o distruggendo le piccole piantagioni di mussoa dal piccolo grano verde ed eccellente o di ignami coltivate dai poveri negri della distrutta fattoria.
Quei formidabili predoni, vero flagello delle terre africane, quasi sapessero già che più nulla avevano da temere, non si preoccupavano della presenza dei tre uomini, anzi pareva che li deridessero, facendo loro boccacce e scagliando dietro di loro le frutta guaste.
Erano per lo più cercopitechi verdi, chiamati anche abulandj, quadrumani alti circa mezzo metro, ma con una coda lunga sessanta e più centimetri, dal pelame verde grigio inanellato di nero superiormente, la coda azzurrognola, il muso bruno, ma col naso nero ed il mento adorno d’una vera barba bianca che dà loro un aspetto dei più comici e dei più stravaganti.
Non mancavano però i cefo, altra specie di cercopitechi, assai numerosi sulla Costa d’Avorio dove vengono chiamati muindo, alti quanto i primi, ma col dorso olivastro a riflessi dorati, la faccia azzurra colla barba gialla solcata di nero e la coda rossastra. Visti ad una certa distanza sembravano vere maschere e salutavano i cacciatori con abbaiamenti interminabili, alternati a certi strani suoni paragonabili al rumore che produce una bottiglia quando viene stappata violentemente. Quantunque il portoghese, pure appassionato cacciatore, avesse un vivo desiderio di cacciare quei numerosi quadrumani che sono tutt’altro che cattivi, messi allo spiedo, continuava a seguire i compagni i quali affrettavano il passo per mettersi al riparo dai raggi cocenti del sole, che in quelle regioni producono sovente delle insolazioni fulminanti.
Giunti sotto i grandi boschi, Alfredo si orientò colla bussola che portava appesa alla catena dell’orologio e trovato il sentiero che conduceva al fiume, vi si lanciò in mezzo, non essendo possibile un passaggio attraverso i fitti vegetali che lo fiancheggiavano.
Procedeva però con prudenza, temendo che i negri che l’avevano assalito presso le rive del fiume, non avessero ancora abbandonati quei boschi. Di tratto in tratto s’arrestava per tendere gli orecchi o mandava innanzi Asseybo a esplorare certi macchioni che si prestavano per un agguato, oppure deviava quando trovava qualche altro passaggio.
Tutto però indicava che la grande foresta doveva essere deserta. Gli uccelli cantavano tranquillamente e le scimmie si trastullavano sugli alberi senza dare segni d’inquietudine e ciò indicava che nessuno li aveva disturbati.
Alle dieci del mattino, dopo una breve sosta e un’ultima esplorazione del negro, Alfredo ed il portoghese giungevano presso il gigantesco sicomoro sotto il quale avevano trovato il cappello del povero Gamani, il servo rapito dai dahomeni.
— Ci siamo, — disse Antao.
Alfredo accostò le mani alle labbra e lanciò un fischio prolungato. Quasi subito, in mezzo al bosco, si udì una voce di donna gridare:
— Eccomi, padrone!...
Note
- ↑ Questo Behanzin è lo stesso che intraprese la guerra contro i francesi, perdendo il trono e la libertà.