La Costa d'Avorio/32. L'incendio del recinto sacro
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Capitolo XXXII
L’incendio del recinto sacro
I guardiani dei feticci, strappati alle loro libazioni dallo spaventevole fracasso prodotto dal loro compagno, si erano affrettati a lasciare la capanna per vedere di che cosa si trattava, ma non erano usciti tutti. Cinque di loro, probabilmente incapaci di tenersi in piedi per aver voluto fare troppo onore alle bottiglie del re, erano rimasti sdraiati sulle stuoie e forse si erano subito riaddormentati.
D’altronde nemmeno quelli che si erano risoluti ad uscire, si trovavano in migliori condizioni, poichè s’avanzavano attraverso i viali puntellandosi gli uni cogli altri e descrivendo delle serpentine molto accentuate. Qualcuno anzi era già caduto fracassando la lanterna che portava e si arrabattava, ma invano, per rimettersi in piedi.
Alfredo, Antao e Gamani incontratisi con quei sette od otto ubriachi, li caricarono con impeto irresistibile, tempestando a destra ed a manca pugni formidabili che risuonavano come colpi di grancassa su quelle teste lanute.
Bastarono cinque secondi per mandare a gambe levate i sacerdoti di Geletè; i pugni avevano completato gli effetti troppo alcoolici delle bottiglie reali.
— Morte di Nettuno!... — esclamò Antao, quando li vide tutti a terra e nell’assoluta impossibilità di fare un movimento, tanto li avevano storditi quella scarica di scappaccioni. — Cosa facciamo ora di questi ubriachi?... —
Alfredo, invece di rispondere, s’abbassò rapidamente su quell’ammasso di corpi, afferrò un braccio e tirò fuori il più piccolo ed il più magro di tutti. Era un negro assai giovane poco più d’un ragazzo.
— Tieni questo, Gamani, — disse al servo, — e non lasciarlo finchè te lo dirò io. Deve venire con noi.
— Nessuno me lo strapperà di mano, padrone.
— Ora spogliamo questi sacerdoti e copriamoci coi loro mantelli.
— Noi?... — chiese Antao stupito.
— Zitti!... Affrettiamoci, se vi preme la pelle. —
In meno di mezzo minuto i sacerdoti furono spogliati e le loro vesti ed i loro orpelli furono indossati dai due bianchi e dai loro compagni.
Avevano appena terminato di camuffarsi, quando udirono picchiare furiosamente al portone della cinta. Pareva che una vera folla si pigiasse al di fuori, attirata dalla campana d’allarme di quel malaugurato negro.
— Aprite!... — si urlava.
— Sono giunti i soldati!...
— Spicciatevi!
— Sangue di Urano!... — esclamò Antao, impallidendo. — I soldati!... Povere le nostre teste!...
— Silenzio, — ripetè Alfredo. — Agite senza perdere tempo!... —
Poi volgendosi verso il padre di Urada ed alla ragazza, disse, rapidamente:
— Entrate in qualcuna di quelle capanne e portate qui alcuni idoli, i più venerati possibilmente. —
Poi mentre il vecchio e la giovane s’affrettavano ad obbedire senza chiedere spiegazione, si volse verso Antao dicendogli:
— Tu va’ ad incendiare quel gruppo di capanne. Sono costruite di giunchi e arderanno come zolfanelli.
— E se vi sono dentro dei negri ubriachi?...
— Tanto peggio per loro. Affrettati: stanno per abbattere il portone. Io intanto vado a mettere fuoco a quella capannuccia. —
Intanto che agivano, la folla, impaziente di non ricevere risposta dai sacerdoti, temendo forse che fossero stati assassinati o che i feticci stessero per venire rubati, aveva assalito il portone per irrompere nella cinta. Picchiava furiosamente, urlava e per spaventare i supposti ladri o assassini, sparava colpi di fucile.
Fortunatamente il portone, costruito con grosse tavole e rinforzato da traverse, teneva duro, ma non poteva però opporre una resistenza lunga a quei continui urti.
Già alcune traverse erano cominciate a cadere, quando i due bianchi ed i loro compagni si ritrovarono riuniti. Le capanne avevano preso subito fuoco e le fiamme, trovando un buon elemento, divampavano rapidamente, lanciando in aria i primi turbini di scintille.
Alfredo s’impadronì d’un feticcio, una specie di leone di creta coperto di carta dorata, Antao d’un mostriciattolo metà uomo e metà bestia pure coperto di carta dorata, Urada e suo padre di due strani volatili colla testa da serpente e si slanciarono tutti verso il portone seguìti da Gamani che teneva ben stretto il prigioniero, il quale doveva figurare come un compagno ferito.
— Gridate più che potete che è scoppiato il fuoco, — disse Alfredo a Urada ed a suo padre, — e seguitemi senza curarvi della folla. —
In quel momento il portone, sotto un’ultima e più vigorosa spinta, cadeva al suolo sfasciato. Alfredo ed i suoi compagni si precipitarono verso la folla atterrita, tenendosi stretti i feticci per nascondere il viso, mentre Urada, il vecchio e Gamani urlavano a squarciagola:
— Al fuoco!... Al fuoco!... Salvate i feticci!... —
I negri, vedendo i loro sacerdoti si ritrassero prontamente da un lato per lasciarli fuggire e porre in salvo le divinità, poi si precipitarono confusamente nell’interno del recinto fra clamori assordanti, cercando di combattere il fuoco che minacciava di distruggere tutte le capanne sacre.
I falsi sacerdoti, che ridevano in cuore loro della splendida riuscita della gherminella che li salvava dalle più terribili vendette, appena si trovarono fuori dalla folla, la quale d’altronde non si occupava più di loro, si cacciarono in mezzo ad un dedalo di oscure viuzze, galoppando furiosamente.
Sull’angolo d’una via Antao si sbarazzò del suo mostricciattolo, mandandolo a frantumarsi contro la porta d’una capanna, mentre Alfredo faceva volare in un’ortaglia il suo leone, poi il vecchio e Urada si liberarono pure dei loro volatili frantumandoli contro il tronco d’un albero. Gamani però si teneva ben stretto il prigioniero, minacciando di strangolarlo se mandava un solo grido.
Dopo mezz’ora di corsa, attraverso a viuzze deserte, a ortaglie e terrapieni, il vecchio negro, che si era messo alla testa per guidarli, s’arrestava in un orticello abbandonato, cinto da un’alta siepe e dove si trovava una capannuccia quasi sventrata, col tetto sfondato.
— Qui non correremo alcun pericolo, — disse. — Quest’abitazione e quest’orto appartenevano ad un mio parente morto due anni or sono e più nessuno è venuto ad abitarvi.
— Siamo lontani dal nostro apatam? — chiese Alfredo. — Sono inquieto pei miei uomini.
— In un quarto d’ora possiamo giungervi.
— Desidererei che i due negri ed i cavalli si concentrassero qui.
— Perché Alfredo? — chiese Antao.
— Per essere più pronti a lasciare la città.
— Ma Bruno?...
— Questa notte lo salveremo.
— E Kalani?...
— Questa notte lo ucciderò.
— Ma se non sappiamo ancora dove si trovano?...
— Ce lo dirà il prigioniero.
— Parlerà?...
— Ve lo costringeremo. Dopo quanto è accaduto questa notte, noi non possiamo rimanere qui ad aspettare che Geletè si risolva a riceverci. Un solo sospetto può costare la vita a tutti noi.
— L’ambasciata adunque ha finita la sua missione, — disse il portoghese, ridendo. — Geletè andrà in furia di vedersi burlato dai famosi principi del Borgu.
— E ci farà inseguire, Antao, ma mentre i suoi soldati ci cercheranno verso il nord, noi fuggiremo verso l’est. Quando avremo attraversato l’Okpa, potremo ridercene dei furori di Geletè.
— Padrone, se tu lo vuoi, io vado ad avvertire i due schiavi di venire qui, — disse Gamani.
— No, andrò io, — disse il vecchio negro. — Conosco meglio di tutti la via e certe scorciatoie deserte per le quali farò passare i cavalli senza che alcuno s’accorga della fuga dell’ambasciata. Urada basta per servire d’interprete nell’interrogatorio del sacerdote.
— Allora partite senza indugio, — disse Alfredo. — Sono già le undici e vorrei, prima dell’alba, trovarmi lontano da Abomey. Questa notte tutti sono in orgia e ci sarà facile lasciare la città inosservati.
— Fra mezz’ora sarò di ritorno, — concluse il vecchio negro.
Poi aggiunse, con aria misteriosa:
— Chissà?... Posso recare qualche notizia su Kalani. —
Mentre il negro si allontanava, Gamani aveva trascinato il prigioniero sotto la capanna ed aveva accesa la lanterna che aveva portata con sé. Il povero sacerdote era più morto che vivo, credendo che i suoi rapitori, si preparassero ad assassinarlo.
Urada, già istruita da Alfredo, aveva subito cominciato l’interrogatorio.
— Se ti preme salvare la vita, tu parlerai, — gli aveva detto. — Questi uomini, che sono nemici di Geletè, sono terribili e se ti ostinerai a tacere ti scorticheranno vivo, mentre se parlerai ti regaleranno tanto oro da comperare diecimila cauris. —
Il giovane sacerdote, udendo parlare d’oro, ebbe un sorriso da ebete, ma i suoi occhi mandarono un lampo di cupidigia. Come tutti i suoi compatrioti doveva essere venale.
— Guarda quest’uomo, — continuò Urada, indicando Alfredo che era allora entrato assieme ad Antao. — È il fratello del ragazzo dalla pelle bianca, che Kalani teneva prigioniero nel recinto sacro. Mi comprendi?...
— Sì, — rispose il sacerdote.
— Quest’uomo che non è un negro come ti sembra, ma un bianco, vuole riavere suo fratello che Kalani gli ha rapito e lo avrà, dovesse uccidere Geletè e mandare un esercito di europei a distruggere il Dahomey. Se tu ti ostinerai a tacere e ti rifiuterai di aiutarlo, fra un mese Abomey verrà presa d’assalto dagli uomini bianchi e data alle fiamme.
— Ma sa il re del pericolo che corre il suo regno? — chiese il sacerdote, con voce tremante.
— Lo saprà domani: intanto comincia tu a parlare, se vuoi risparmiare al Dahomey questo disastro.
— Cosa devo fare?...
— Dire dove è stato condotto il fanciullo dalla pelle bianca che fino a ieri si trovava prigioniero nel sacro recinto.
— Ma io lo so.
— Allora ce lo dirai.
— Si trova nella casa di Kalani.
— Da quando?...
— Da stamane.
— Perchè l’ha condotto nella sua casa?...
— Aveva dei timori. Un negro che veniva dai paesi dei Krepi lo aveva avvertito che degli uomini bianchi avevano lasciato il regno degli Ascianti per venire qui a rapire il ragazzo. —
Udendo la traduzione di quelle parole, Antao e Alfredo si erano guardati in viso con stupore e con inquietudine.
— Chi può averci traditi?... — chiese il portoghese. — Nessuno poteva sapere che noi eravamo venuti dal paese degli Ascianti.
— Urada, — disse Alfredo, che era in preda ad una viva agitazione. — Domanda spiegazioni su quel negro. Bisogna sapere chi è quel negro, per metterci in guardia da questo nuovo e gravissimo pericolo. —
La risposta fu pronta.
— È un negro che aveva seguìti gli uomini bianchi da Porto Novo, — aveva detto il sacerdote.
— Morte di Saturno!... Ora comprendo tutto!... — esclamò Antao. — È lo spione che ci ha fatti imprigionare dai Krepi.
— Quello che è sfuggito ai soldati del giudice, — aggiunse Alfredo. — Non credevo che quel briccone potesse giungere vivo fin qui. Amici miei, il pericolo ingrossa e se restiamo qui ancora domani, non risponderei più delle nostre teste. È necessario questa notte rapire Bruno o nessuno di noi lascerà più mai la capitale del Dahomey.
— Ma ne avremo il tempo, Alfredo?
— Ora lo sapremo. —
Si rivolse verso Urada e la istruì di quanto doveva chiedere al prigioniero. La brava ragazza s’affrettò a obbedire.
— Tu devi dirci altre cose ancora che ci preme di sapere, — disse al prigioniero. — Bada di non ingannarci, poichè noi non ti lasceremo libero, nè ti daremo l’oro promesso se non quando avremo le prove che tu avrai detto la verità.
— Sono pronto a parlare, — rispose il sacerdote. — Sono troppo giovane per morire ed amo l’oro.
— Dove sarà a quest’ora Kalani?...
— Dal re.
— Credi che si fermerà presso Geletè tutta la notte?...
— No, poichè prima dell’alba deve partire per Kana onde portare, sulle tombe dei defunti monarchi, le teste recise quest’oggi.
— Quante persone vi sono nella casa di Kalani?...
— Due schiavi e due soldati.
— I quali avranno festeggiati i sacrifici di quest’oggi colle bottiglie del padrone.
— Tutti bevono in tale occasione.
— Gamani, — disse Alfredo, — lega ed imbavaglia quest’uomo e se opporrà resistenza accoppalo con due pugni. Lo porteremo con noi e se non avrà mentito, riceverà il premio promesso. —
Avendo Urada tradotto quell’ordine, il prigioniero disse:
— Sono pronto a seguirvi, poichè so che gli uomini bianchi mantengono sempre le loro promesse. Se vi avrò ingannati, mi ucciderete.
In quell’istante, al di fuori, si udirono degli scalpitii che s’avvicinavano rapidamente. Antao ed Alfredo si erano precipitati nell’ortaglia temendo di venire sorpresi dai soldati di Geletè, ma tosto emisero un grido di gioia.
Erano il vecchio negro e i due dahomeni coi cavalli.
— Ho mantenuto la parola, — disse il padre di Urada, muovendo sollecitamente verso i due bianchi. Abbiamo abbandonato l’apatam senza che alcuno se ne accorgesse.
— La popolazione bivacca sempre nelle vie? — chiese Alfredo.
— Non finirà l’orgia prima di domani. Tutti sono ubriachi, compresi i soldati e le amazzoni, ma ho potuto sapere egualmente dove si trova Kalani.
— Dal re, è vero?...
— Sì, ma prima dell’alba ritornerà a casa, dovendo poi partire.
— Lo so e sarà là che noi lo aspetteremo. Sapreste guidarci, per vie poco frequentate, alla casa di quel miserabile?
— Sì, facendo il giro delle ortaglie.
— Allora partiamo subito. Quando il sole sorgerà, Kalani sarà morto e noi saremo lontani da Abomey.