La Costa d'Avorio/33. La morte di Kalani
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Capitolo XXXIII
La morte di Kalani
Pochi istanti dopo Alfredo, Antao ed i negri lasciavano la capanna diroccata per recarsi all’abitazione del loro mortale nemico. Erano saliti tutti a cavallo, avendo abbandonato le casse vuote o semivuote nell’orticello, onde essere più liberi ed in grado di poter operare una precipitosa ritirata fuori dalla città, nel caso che il colpo di mano non dovesse riuscire.
Tutte le armi erano state caricate per essere pronti a respingere qualsiasi attacco, sia da parte della popolazione che delle truppe.
Il vecchio negro, che aveva inforcato uno dei più robusti quadrupedi, guidava il drappello facendolo passare fra ortaglie e capanne disabitate, volendo evitare, fino a che lo poteva, l’incontro degli abitanti, per non destare delle curiosità pericolose. Dietro a lui venivano i due bianchi sempre camuffati da sacerdoti, poi Gamani, il quale si teneva sul dinanzi della sella, ma ben stretto, il prigioniero, quindi Urada ed i due dahomeni i quali tenevano le carabine in pugno.
Quella parte della città, che doveva essere la meno abitata, era oscura e silenziosa, ma in lontananza si scorgevano i falò attorno ai quali beveva e danzava la popolazione e si udivano le urla scordate di quegli ubriachi, accompagnate sempre dai suoni selvaggi dei barbari istrumenti musicali.
Pareva che l’orgia avesse raggiunto il più alto grado, poichè i clamori talvolta erano così assordanti, che Antao ed Alfredo penavano assai a udirsi.
— Che gole!... — esclamava il bravo portoghese. — Sfido io che quei cantori abbiano sempre sete!... Berrebbero tutta l’acqua del Koufo, se i loro sacerdoti fossero capaci di tramutarla in tanto ginepro.
— Quest’orgia colossale favorisce i nostri progetti, Antao, — rispondeva Alfredo. — Non potevamo scegliere una notte migliore per tentare l’audace colpo.
— Allora anche Kalani sarà ubriaco.
— Sì, e sarà tanto peggio per lui.
— Vuoi proprio ucciderlo?...
— L’ho giurato la notte che m’incendiò la fattoria e che mi rapì Bruno e manterrò la parola. Quel mostro è l’anima dannata di Geletè e di Behanzin, e liberando il Dahomey della sua presenza risparmierò la vita a migliaia d’infelici.
— È vero, Alfredo. Quel Kalani è il capo dei macellai.
— È lui che ordina i massacri, poichè è lui il capo dei sacerdoti.
— Furfante!... Gli farò vomitare sangue e rhum insieme. Ma dove lo attenderemo?
— A casa sua.
— Entreremo nella sua abitazione?...
— Sì, ma dopo d’aver legati e ridotti all’impotenza i suoi uomini.
— E se non venisse?...
— Verrà: il prigioniero ha detto che deve partire per Kana ed il padre di Urada ha confermata la notizia. —
Mentre così chiacchieravano, il vecchio negro continuava ad inoltrarsi fra ortaglie e viuzze deserte ed oscure, procurando di tenersi sempre lontano dalle vie illuminate dai falò.
Dopo d’aver fatto fare al drappello dei lunghi giri, s’arrestò dinanzi ad un’alta palizzata formata però di sottili tronchi d’albero, la quale pareva che racchiudesse un vasto giardino.
— Ci siamo, — disse.
— Da Kalani?... — chiese Alfredo.
— Sì: questo è il suo giardino e laggiù vi è la sua casa.
— Dov’è l’entrata?...
— È qui vicina, ma vi saranno i due soldati a guardia.
— Li ridurremo all’impotenza. Noi siamo sacerdoti, quindi ci sarà facile avvicinarli. —
Ad un suo cenno scesero tutti da cavallo, incaricarono Gamani e Urada di guardarli e di sorvegliare il prigioniero, poi seguirono il vecchio negro.
Voltato un angolo della cinta, si trovarono dinanzi ad un cancello già aperto, ma guardato da due negri armati di fucile, i quali però pareva che non avessero bevuto meno degli altri, perchè si tenevano entrambi appoggiati alla palizzata, come se le loro gambe li reggessero a fatica. Vedendo tuttavia avvicinarsi quel gruppo di persone si raddrizzarono, tentennando e chiedendo chi fossero.
— Guardiani dei feticci che cercano Kalani, — rispose il padre di Urada.
— Il padrone è ancora dal re, — dissero.
— Tornerà questa notte?...
— Lo aspettiamo per accompagnarlo a Kana. —
In quel momento Alfredo, Antao ed i due schiavi, che si erano avvicinati, si scagliarono d’un colpo solo sui due soldati afferrandoli per la gola onde impedire loro di gridare e con due pugni sul capo, abilmente dati, li mandarono a cadere l’un sull’altro.
— Imbavagliateli e spogliateli, — comandò Alfredo.
— Perchè spogliarli? — chiese Antao.
— I nostri dahomeni si metteranno qui in sentinella, dopo che avremo occupata l’abitazione. Se Kalani non vedesse le due guardie potrebbe insospettirsi ed invece d’entrare prendere il largo. —
I due schiavi furono lesti ad eseguire quegli ordini, poi afferrarono i due negri e li trasportarono sotto una tettoia che si trovava in un angolo dell’ortaglia, semi-nascosta da un gruppo di palme.
Intanto il padre di Urada si era recato ad avvertire la figlia e Gamani ed aveva fatti entrare i cavalli, facendoli nascondere, assieme al prigioniero, sotto la tettoia.
— Urada rimanga a guardia dei prigionieri e dei cavalli, — disse Alfredo. — Uno dei vostri schiavi rimanga in sentinella dinanzi al cancello per avvertirci dell’arrivo di Kalani e gli altri mi seguano.
— Andiamo a occupare la casa? — chiese Antao.
— Sì.
— Allora prepariamoci a scaricare un’altra tempesta di pugni. Bisogna picchiare, ma senza far fracasso. —
Alfredo ed i suoi compagni, attraversata rapidamente l’ortaglia, si erano arrestati dinanzi all’abitazione di Kalani.
Era una costruzione massiccia, che somigliava un po’ al palazzo reale; ma di gran lunga più piccola, con numerose finestre somiglianti a feritoie ed il tetto piatto.
Tutto all’intorno la ombreggiava una doppia fila di maestosi sicomori, i quali dovevano nasconderla o quasi, agli occhi dei vicini abitanti.
Alcune feritoie del pianterreno erano illuminate e da quelle uscivano delle voci umane assai allegre, alternate a rumorosi scrosci di risa. Probabilmente anche gli schiavi del capo dei sacerdoti festeggiavano, con del ginepro o con della birra di sorgo, la grande giornata.
Alfredo, prima di entrare, guardò attraverso una di quelle feritoie e vide quattro negri ed una donna seduti attorno ad un rozzo tavolo coperto d’una stuoia, sul quale stavano alcuni vasi, numerose tazze e qualche bottiglia rovesciata.
Quei poveri diavoli, approfittando dell’assenza del temuto padrone, facevano un po’ di gazzarra, bevendo e ridendo.
— Quegli schiavi non sono tali da opporre resistenza, — disse Alfredo ad Antao, che lo interrogava. — Tra pochi minuti, mio fratello sarà fra le mie braccia. Armate i fucili e seguitemi. —
La porta era aperta, non occorreva quindi forzare l’entrata. I cinque uomini s’inoltrarono in punta dei piedi, per piombare d’improvviso addosso ai servi. Attraversarono dapprima una stanza oscura, procedendo con precauzione per tema di urtare contro qualche ostacolo, poi, dopo d’aver percorso uno stretto corridoio, irruppero nella camera illuminata puntando i fucili, mentre il vecchio negro gridava, con voce minacciosa:
— Chi si muove è uomo morto!... Ordine del re!... —
I quattro schiavi e la negra si erano precipitosamente alzati rovesciando i vasi e le tazze, ma vedendo quei cinque fucili puntati e udendo quelle parole erano ricaduti sui loro sedili, tremando di spavento, mentre la loro tinta da nerastra diventava grigia, cioè pallida.
— Tutti a terra!... — disse il vecchio. — Nessuno opponga resistenza!... —
I cinque schiavi caddero in ginocchio, balbettando:
— Non uccideteci. —
Gamani ed il dahomeno, che avevano portato con loro delle corde e dei fazzoletti, imbavagliarono e legarono le braccia e le gambe a quattro, mentre il padre di Urada interrogava il quinto, minacciando di fracassargli il cranio se avesse tardato a rispondere.
— Dov’è il tuo padrone?... — gli chiese.
— Dal re, — balbettò lo schiavo.
— Tornerà questa notte?...
— Sì, perchè deve partire prima dell’alba.
— Tarderà molto?...
— Non lo credo. Noi lo aspettavamo per seguirlo.
— Dove si trova il fanciullo dalla pelle bianca che Kalani ha qui condotto?..
— Nella stanza del padrone.
— Chi veglia su di lui?...
— Nessuno.
— Dorme?...
— Poco fa dormiva.
— Guidaci subito da lui. —
Gli fece cenno di precederlo, mentre Antao s’impadroniva di una specie di torcia di fibre vegetali imbevuta d’olio d’elais.
Il negro, che era più morto che vivo per lo spavento, li condusse in un secondo corridoio il quale saliva al piano superiore e s’arrestò dinanzi ad una porta, dicendo:
— È qui. —
Alfredo ed Antao, in preda ad una viva emozione, si erano precipitati innanzi, aprendola impetuosamente.
In mezzo ad una stanzuccia quasi spoglia di mobili, ma colle pareti coperte di belle stuoie dipinte a vivaci colori ed illuminata da una lampada d’argilla, su di un grande cuscino giaceva un bel ragazzo dalla pelle assai abbronzita, dai capelli neri e ricciuti, dal profilo ardito, che rassomigliava moltissimo a quello d’Alfredo, e dalle labbra vermiglie. Poteva avere dieci anni, ma il suo corpo, assai sviluppato, poteva adattarsi ad uno di tredici o di quattordici.
Quel giovanetto dormiva tranquillamente, come si fosse trovato in piena sicurezza invece che sotto il tetto del più feroce e vendicativo uomo del Dahomey. Solamente le sue nere e sottili sopracciglia che si erano incrociate, dimostravano che qualche pensiero o qualche cattivo sogno turbava un po’ il suo sonno.
Alfredo gli si era precipitato sopra mandando un grido di gioia, l’aveva afferrato fra le robuste braccia e se l’era stretto al petto coprendolo di baci ed esclamando con voce rotta:
— Bruno!... Mio Bruno!... Ti rivedo finalmente, fratellino mio!... —
Il ragazzo, svegliato bruscamente, aveva aperti i suoi grandi occhi neri guardando, come trasognato, quell’uomo che se lo stringeva al petto come fosse impazzito, ed istintivamente aveva fatto un gesto come per respingerlo, ma ad un tratto aprì le braccia e le rinchiuse attorno al collo del fratello, gridando:
— Alfredo!... Sogno io?... No... vedo anche il signor Antao!... Fratello!... Signor Antao!...
— Morte di tutte le stelle del firmamento!... — tuonò il portoghese, che non trovava più alcun nome dei suoi pianeti favoriti, tanta era la sua commozione. — Qui, fra le mie braccia, fanciullo mio!... Morte del Dahomey!... Sono tutto scombussolato!... Toh!... Che strano fenomeno!... I miei occhi sono bagnati!... —
Il bravo giovane aveva strappato il ragazzo dalle braccia d’Alfredo e se l’era stretto al petto, tempestandolo di baci, mentre Gamani, che pareva fosse impazzito per la gioia, gli ballava intorno, gridando:
— Il padroncino!... Il padroncino!... Oh Gamani è contento di vederlo libero!...
— Silenzio!... — esclamò ad un tratto il padre d’Urada, che si era avvicinato ad una feritoia. — Ho udito il fischio d’allarme di mia figlia.
— Ci segnala l’avvicinarsi di Kalani, — disse Gamani.
— Kalani!... — esclamò il ragazzo, con accento di terrore. — Alfredo, fuggi o ti ucciderà.
— Fuggire io!... — disse il cacciatore, rizzando fieramente l’alta statura. — Sarò io che ucciderò Kalani, mio Bruno. —
Poi, volgendosi verso il suo schiavo e verso Gamani:
— Scendete nell’ortaglia e appena Kalani sarà entrato chiudete il cancello onde non ci sfugga. —
Prese il giovane fratello, se lo alzò fino alle labbra e lo baciò, quindi lo ricoricò sul cuscino, dicendogli:
— Rimarrai qui con questo negro mio amico, il quale veglierà su di te. Qualunque cosa accada, non ti muoverai.
— Ma cosa vuoi fare, fratello?...
— Compiere un giuramento che feci la notte che ti rapirono. Silenzio ed aspetta il mio ritorno. —
Fece cenno ad Antao di seguirlo, mentre il padre di Urada imbavagliava e legava lo schiavo che li aveva guidati in quella stanza.
I due bianchi scesero a pianterreno, trascinarono gli schiavi in un corridoio vicino, poi si misero in osservazione alle feritoie.
Kalani era allora entrato nell’ortaglia e s’avviava verso la sua casa, scortato dalle due sentinelle che aveva trovate dinanzi alla cancellata e che di certo non sospettava che fossero nemiche.
Indossava ancora il costume di gran sacerdote che aveva sfoggiato al mattino per comandare la festa del sangue e pareva che fosse molto alticcio, poichè il suo passo era incerto, tentennante. Doveva aver bevuto parecchie bottiglie con Geletè, Behanzin, ed i gran cabeceri.
Attraversò l’ortaglia canterellando fra i denti, salì i tre gradini, passò la stanza oscura ed entrò in quella illuminata, gridando:
— Schiavi dannati, entra il padrone!... Accorrete, se non volete che faccia scorticare la vostra vecchia pelle. —
Ad un tratto arretrò. Aveva scorto i vasi rovesciati e le sedie gettate a terra. Diffidente per natura, sospettò forse qualche tradimento, poichè aprì il mantello mettendo la destra sull’impugnatura del largo e pesante coltello che usano portare i dahomeni.
Non ebbe però il tempo di estrarlo: due uomini armati di fucile erano improvvisamente entrati.
Alfredo si avanzò verso il miserabile che era rimasto immobile, come pietrificato e strappandosi di dosso il mantello di sacerdote, gli chiese con accento terribile:
— Mi riconosci, Kalani?... —
Il negro aprì la bocca come se volesse rispondere, ma nessun suono gli uscì.
Cogli occhi sbarrati, schizzanti dalle orbite, guardava il suo mortale nemico senza essere capace di fare un gesto. La sua pelle era però diventata orribilmente grigiastra, mentre i suoi lineamenti esprimevano un terrore impossibile a descriversi.
— Tu non mi aspettavi, è vero, Kalani? — disse Alfredo con ironia. — Ora che mi hai conosciuto, preparati a morire, poichè la notte che tu hai assalito la mia fattoria e assassinati i miei negri, ho giurato di ucciderti e manterrò la promessa. —
Kalani, dinanzi a quella minaccia, ebbe un lampo di suprema quanto inaspettata energia.
Estrasse il largo coltello e balzò indietro per riparare nell’altra stanza, ma andò a urtare contro i due dahomeni che lo avevano silenziosamente seguìto e che furono lesti a respingerlo coi calci dei fucili.
Vedendosi accerchiato, il miserabile volle tentare uno sforzo disperato. Fece appello a tutta la sua audacia e col coltello alzato si scagliò come una belva addosso ad Alfredo, sperando di sorprenderlo.
Antao aveva gettato un grido e si era gettato innanzi, ma il cacciatore l’aveva preceduto. Lesto come una tigre aveva evitato il colpo mortale, poi aveva afferrato l’avversario pel collo.
Entrambi erano caduti a terra, rotolandosi pel pavimento. Antao ed i due dahomeni si erano gettati addosso a loro per cercare di uccidere il negro, ma la tema di colpire il cacciatore li faceva esitare.
Ad un tratto Kalani mandò un urlo di fiera ferita ed allargò la stretta, mentre Alfredo si rialzava prontamente, tenendo in pugno il largo e pesante coltello dell’avversario, lordo di sangue fino all’impugnatura.
Il capo dei sacerdoti, l’anima dannata di Geletè, si rotolò due volte pel pavimento, lasciandosi dietro una larga striscia di sangue, poi rimase immobile. Il cacciatore aveva mantenuto il suo giuramento, spaccandogli il cuore.
— È morto, — disse Antao, che si era curvato su Kalani.
— I miei negri sono vendicati, — rispose Alfredo con voce cupa. — Orsù, fuggiamo!... —