La Costa d'Avorio/18. Caccia ad un elefante
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Capitolo XVIII
Caccia ad un elefante
Antao, udendo quelle parole pronunciate in tono quasi imperioso, e comprendendo che stava per accadere qualche cosa di straordinario, aveva abbandonato prontamente le liane ritirandosi sul grosso ramo che gli aveva servito di rifugio.
Alfredo, nascosto in mezzo al fogliame, gli additava silenziosamente un grande macchione di mimose che stava di fronte a loro. Girò gli sguardi da quella parte e vide due ombre uscire fra gli alberi ed avanzarsi prudentemente allo scoperto.
Quantunque la luna mancasse, gli astri proiettavano una luce sufficiente per distinguere un oggetto od un essere vivente di dimensioni non troppo piccole, ed Antao, che aveva gli occhi buoni, vide subito di che cosa si trattava.
Quelle due ombre erano due negri di alta statura, quasi nudi, ma entrambi armati di fucile. Si erano arrestati a breve distanza dal bombax e curvi innanzi, pareva che ascoltassero con profondo raccoglimento.
— I cacciatori d’elefanti?... — chiese Antao ad Alfredo con un filo di voce.
— Non lo so, — rispose l’interrogato.
— O che siano i nostri ladri?...
— Lo sospetto.
— Bella occasione per fucilarli tutti e due.
— E per far fuggire gli altri colle nostre casse e coll’amazzone. No, Antao, non bisogna far loro sapere che noi siamo così vicini o chissà dove potremo raggiungerli.
— Ma...
— Taci!... —
I due negri dopo d’aver ascoltato per parecchi minuti, si erano rialzati e certi di essere soli in mezzo a quel bosco, si erano scambiati delle parole in lingua uegbè, che Alfredo ben conosceva.
— Più nulla, — aveva detto l’uno.
— No, — aveva risposto l’altro.
— Credi che gli elefanti avranno continuata la loro corsa indiavolata?...
— Hanno avuto troppa paura dei nostri tizzoni infiammati e delle nostre scariche, per arrestarsi. Sono capaci di continuare la corsa fino all’alba.
— Allora possiamo sperare che abbiano incontrato i bianchi e che li abbiano fatti a pezzi.
— Sì, se ci seguivano sempre.
— Non vorrei essermi trovato al loro posto.
— Lo credo, Cobbena.
— Una bella fortuna, se ci fossimo sbarazzati di loro.
— Almeno potremo giungere tranquillamente ad Abetifi e vendere i loro effetti senza la tema di vederceli giungere addosso.
— Se quella dannata donna non avesse gettata via la sua fascia forse non avrebbero trovate le nostre tracce, è vero Amadù?
— Se avessimo saputo che parteggiava pei bianchi, non l’avremmo di certo condotta con noi, credendo di liberare una nostra compatriota, ma Kalani od il re s’incaricheranno più tardi di infliggerle la punizione che si merita. Quando ci saremo sbarazzati di quelle casse e avremo realizzata una bella cifra, ripasseremo il Volta e marceremo su Abomey quasi senza arrestarci.
— Sì, Amadù. Ormai non ci rimangono più dubbi sulla direzione degli uomini bianchi. Credevano d’ingannare le spie del re, ma invece troveranno Kalani pronto a riceverli. Orsù, torniamo. Abbiamo almeno cinque miglia da percorrere, prima di giungere all’accampamento. —
I due negri, ricaricati i loro fucili e certi ormai che gli elefanti avessero continuata la loro terribile corsa attraverso alla foresta, si rimisero in cammino a passi rapidi, allontanandosi verso l’ovest.
Quando Antao non li udì più, chiese ad Alfredo con stupore:
— E tu hai lasciato che se ne andassero, mentre avremmo potuto fucilarli colla massima facilità. Hai avuto torto, amico.
— No, Antao, — rispose il cacciatore. — I loro compagni, te lo dissi già, non vedendoli ritornare, si sarebbero facilmente immaginati che noi li avevamo o uccisi o catturati, e sarebbero fuggiti forse verso il sud, facendoci perdere ogni speranza di poterli raggiungere.
«Ora sappiamo che si recano ad Abetifi e che ci sono poco lontani, quindi non ci possono più sfuggire. Lasciamo loro credere di essere stati massacrati dagli elefanti o fatti a pezzi dalle formiche e li prenderemo più facilmente.
«Penso anzi che abbiamo marciato troppo e che possiamo riposarci una mezza giornata, per lasciare loro il tempo di giungere tranquillamente nella cittadella degli Ascianti.»
— Hai ragione, Alfredo. Tu sei più astuto di me.
— Scendiamo, Antao, e andiamo a vedere che cosa è accaduto dei nostri uomini. —
Si lasciarono scivolare lungo le liane e giunsero felicemente a terra, mettendosi tosto in marcia per giungere al campo.
Non sapendo quale direzione avevano presa gli elefanti nella loro pazza corsa, temevano che quella formidabile banda fosse piombata in mezzo alle tende, uccidendo gli animali e gli uomini, perciò affrettavano il passo ansiosi di calmare le loro inquietudini.
Già calcolavano di trovarsi a poche centinaia di passi dall’accampamento, quando videro avanzarsi, correndo, un uomo, che subito riconobbero pel fedele Asseybo.
— Padrone!... — esclamò il negro, con voce affannata. — Credevo che ti fosse accaduta una disgrazia. Hai veduto gli elefanti?...
— Sì, ma come vedi siamo entrambi vivi, — rispose Alfredo. — Hanno distrutto l’accampamento?...
— No, padrone. Ci siamo accorti a tempo dell’avanzarsi di quegli animalacci e ci siamo rifugiati in mezzo al fiumicello salvando ogni cosa.
— Cominciavo a essere inquieto per voi.
— Ma il pericolo non è cessato, padrone.
— Cosa c’è ancora?...
— Uno di quegli elefanti, un maschio di statura gigantesca, forse ferito, si è sbandato e si aggira sulla riva del fiume in preda ad un furore spaventevole. I nostri uomini si sono salvati sulla riva opposta, ma corrono il pericolo, di momento in momento, di venire fatti a pezzi.
— Amico Antao, — disse Alfredo, rivolgendosi al portoghese. — Credo che domani mattina assaggeremo un delizioso arrosto di tromba d’elefante.
— Vuoi assalire quel colosso furibondo?...
— Sì, Antao, se mi aiuti.
— Ma potremo ucciderlo colle nostre carabine?...
— Sì, purchè tu cerchi di colpirlo intorno agli occhi o sotto la gola o meglio ancora, nelle giunture delle spalle.
— Mi proverò, Alfredo.
— Guidaci, Asseybo.
— Sta’ in guardia, padrone. Quell’elefante deve essere un vecchio maschio e tu sai che quelli sono terribili.
— Ci avvicineremo con prudenza. —
Il negro, sapendo per prova quanto il padrone fosse audace e abile cacciatore, non esitò più e si mise in cammino seguendo le rive del fiumicello.
Ben presto i due bianchi udirono il formidabile avversario. Dei frequenti barriti, un po’ rauchi, echeggiavano sotto la foresta, seguìti da strani gorgoglii che parevano prodotti da una pompa che si scaricava dell’acqua.
Probabilmente l’elefante era stato colpito ed assorbiva fragorosamente l’acqua del fiume per inondare la ferita.
Asseybo aveva rallentata la marcia e non si avanzava che con estrema prudenza, temendo di schiantare qualche ramo e di attirare così l’attenzione dell’animale.
Intanto i barriti diventando più potenti e più frequenti, destavano tutti gli echi della selva. Pareva che perfino le foglie tremassero.
— Ci darà da fare, — disse Alfredo ad Antao. — Quando sono feriti non esitano a scagliarsi anche contro un reggimento di cacciatori. Sii prudente e non scaricare la tua carabina se non sei certo del tuo colpo o ti farai schiacciare come una nocciuola.
— Provo un certo tremito che non è rassicurante, — rispose il portoghese; — ma dinanzi al pericolo e trattandosi di salvare la pelle, passerà! Non udranno i nostri spari, i negri che abbiamo veduto?...
— Bah!... A quest’ora devono essere ben lontani e poi queste masse di verzura non permettono alle detonazioni di espandersi a grandi distanze.
— Padrone! — esclamò in quel momento Asseybo. — Eccolo!... —
Presso la riva del fiume, semi-nascosta da un macchione di bambù, una massa mostruosa giganteggiava, colla tromba tesa innanzi, come se si preparasse a caricare un nemico od a prevenire un improvviso assalto.
Era un elefante selvaggio, ma uno dei più grossi e dei più belli che Alfredo avesse veduto fino allora, un animale degno di stare a fronte dei più colossali merghee delle regioni indo-malesi.
Gli elefanti africani, checchè se ne dica, sono più maestosi di quelli del continente asiatico e sebbene nelle forme generali siano quasi eguali, sono un po’ diversi nei particolari.
Generalmente sono più larghi di fianchi, più robusti fors’anche dei coomareah che sono i più forti ed i più massicci della razza asiatica: hanno la fronte convessa invece di averla concava, hanno quattro zoccoli nei piedi posteriori invece di tre, le orecchie più sviluppate che si riuniscono sopra le spalle e che pendono poi sul petto e le zanne d’una bellezza straordinaria e d’una mole enorme, perchè pesano sovente perfino quattrocento libbre, mentre quelle degli elefanti asiatici di rado sorpassano le cento.
Anche le femmine sono diverse da quelle asiatiche, perchè mentre queste sono sprovviste di zanne o le hanno appena visibili, le prime le hanno molto sviluppate, non tanto però come i maschi.
L’elefante che gl’intrepidi cacciatori stavano per affrontare, doveva essere rimasto indietro in causa di qualche ferita ad una gamba anteriore, vedendolo alzare di tratto in tratto la destra.
Pareva che non si fosse ancora accorto della presenza di quei nuovi nemici che contavano di regalarsi un pezzo di proboscide arrostita, essendosi avvicinato al fiume per bagnarsi la ferita invece di assalirli; ma non doveva tardare a sentirli trovandosi sottovento.
— Adagio, — aveva detto Alfredo ai suoi due compagni. — È necessario che ci mostri la fronte o le nostre palle non otterranno altro successo che quello d’irritarlo maggiormente. —
Si erano nascosti tutti e tre dietro un gruppo di teck, i cui tronchi colossali dovevano essere sufficienti a difenderli contro qualunque carica del pachiderma, e di là attendevano il momento propizio per fare una scarica.
Vedendo però che il colosso non si decideva ad abbandonare il fiume, Alfredo, che era impaziente di finirla, si risolse a costringervelo.
Raccomandò ai compagni di non abbandonare quel rifugio e strisciò all’aperto, tenendosi celato dietro una fila di ebani, i quali, in caso di pericolo, potevano preservarlo da un attacco furioso.
Giunto a trenta passi dal mostruoso animale, armò risolutamente la carabina, poi lanciò un fischio acuto.
L’elefante, sorpreso, cessò di colpo dall’assorbire l’acqua per versarsela sulla gamba ferita, poi risalì lentamente la sponda camminando a ritroso; quindi si volse emettendo un barrito assordante, che tradiva dell’inquietudine, ma che annunciava anche un imminente scoppio di collera. Quasi nel medesimo istante due lampi balenarono dietro ai tronchi dei tek, seguìti da due strepitose detonazioni.
Antao e Asseybo, vedendo il colosso presentarsi di fronte, avevano fatto fuoco.
Disgraziatamente le palle non dovevano essere giunte a destinazione esatta. Difatti il pachiderma, invece di cadere lanciò una possente nota metallica e si scagliò con impeto irresistibile verso gli alberi, roteando furiosamente la terribile tromba.
— Fuggite!... — aveva gridato Alfredo.
Il portoghese ed il negro non avevano atteso quel consiglio. Spaventati dall’irrompere di quell’enorme massa, erano balzati fuori dal rifugio, dandosi a precipitosa fuga attraverso la foresta.
Alfredo aveva veduto ogni cosa ed era diventato pallido. Guai se non riusciva ad arrestare il furioso animale: i due imprudenti non avrebbero continuata per molto la loro corsa, non ignorando che gli elefanti, malgrado la loro mole, possono spiegare un’agilità straordinaria e gareggiare talvolta perfino coi cavalli.
Balzò rapidamente fuori dagli ebani e si slanciò innanzi mandando alte grida, per attirare su di sè l’attenzione dell’animale.
Questi, credendo forse di avere i nemici dietro le spalle invece che dinanzi, fu pronto a volgersi e vedendo a pochi passi il cacciatore, lo assalì a testa bassa, colle zanne tese e la proboscide alzata.
Alfredo non era fuggito. Facendo appello a tutto il suo coraggio ed a tutto il suo sangue freddo, si era appoggiato al tronco d’un sicomoro, tenendo la carabina puntata.
A quindici passi fece fuoco.
Il colosso, colpito alla giuntura della spalla sinistra, s’inalberò come un cavallo sotto un violento colpo di sprone, poi lanciò un lungo barrito, ma che aveva qualche cosa di lamentevole, di straziante, quindi riprese la corsa.
Alfredo era passato prontamente dietro al tronco per evitare le zanne e la proboscide, poi dietro ad un altro che gli stava un po’ discosto e scivolò in mezzo ad un intricato macchione di cespugli.
L’elefante, trasportato dal proprio slancio, continuò la corsa sferzando furiosamente i tronchi degli alberi, ma ad un tratto le forze lo abbandonarono e cadde sulle ginocchia, lanciando una nota più lamentevole e meno possente.
In quel momento Antao e Asseybo, non vedendosi più inseguiti, ed avendo udito lo sparo del compagno erano ritornati sul campo della lotta.
Avevano ricaricate le armi ed accorrevano in aiuto al valoroso cacciatore.
Vedendo l’elefante dibattersi in mezzo alle piante e fare sforzi disperati per rialzarsi, gli si avvicinarono ed a soli dieci passi fecero una nuova scarica.
Fu il colpo di grazia!... Il povero animale, che era già moribondo, alzò un’ultima volta la tromba vomitando un getto di sangue spumoso, poi stramazzò pesantemente al suolo, rimanendo immobile.
— Alfredo!... — gridò Antao, raggiante di gioia. — È morto!... —
Il cacciatore che aveva allora ricaricata la carabina, balzò fuori dai cespugli, dicendo:
— Ecco una colazione ben guadagnata e condita con trecentocinquanta libbre d’avorio per lo meno. Asseybo, puoi preparare il forno per cucinare un piede di questo povero animale. —