La Costa d'Avorio/15. La caccia ai rapitori
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Capitolo XV
La caccia ai rapitori
Il negro, i due dahomeni e perfino i due cavalli presi da un inesplicabile terrore, si erano dati ad una fuga precipitosa quantunque nessun animale fosse comparso dinanzi a loro.
Antao ed Alfredo, credendo che sotto le macchie si celasse qualche leone, o qualche leopardo, invece di seguire i loro uomini si erano arrestati, armando precipitosamente i fucili, pronti a far fronte al pericolo.
Con loro non poca sorpresa, non udirono alcun ruggito, nè alcun urlo che potesse giustificare la paura dei negri e dei due cavalli, nè videro in alcun luogo muoversi i rami delle macchie.
— Ma che cosa avrà veduto Asseybo? — chiese il portoghese, sempre più stupito. — Eppure quel negro è coraggioso e non si spaventa per un nonnulla.
— Che abbia scambiato qualche grossa radice nera per un serpente?... — mormorò Alfredo. — Guardo dappertutto, ma non vedo assolutamente nulla che possa spaventarci.
Ad un tratto però udì in aria un acuto ronzìo ed alzati gli occhi, vide volarsi incontro uno sciame d’insetti un po’ più grandi delle nostre vespe. Un grido di terrore gli sfuggì:
— Antao!... Fuggiamo!... Le elovas!... —
Il portoghese, quantunque si meravigliasse che il compagno avesse tanta paura di uno sciame di vespe, vedendolo levarsi rapidamente la giacca, coprirsi la testa ed il viso e quindi fuggire a precipizio, credette saggia cosa imitarlo, correndogli dietro.
Le vespe però volavano rapidamente e come fossero furiose di vendicarsi, li perseguitavano senza posa, ronzando attorno a loro e cercando d’introdursi fra le pieghe delle giacche.
Alfredo, quantunque non potesse vederci bene, cercava dirigersi verso il luogo ove si udivano le grida dei negri. Pareva che avessero trovato un ricovero contro gli assalti di quegli ostinati insetti, poichè urlavano senza posa:
— Qui, padrone!... Presto, qui, padrone!... —
Attraversato un lembo della foresta, i due fuggiaschi scorsero i loro uomini ed i due cavalli tuffati in uno stagno che pareva fosse profondo, poichè non sporgevano che le loro teste.
Alfredo vi balzò dentro senza esitare ed il portoghese, che si sentiva addosso quelle dannate vespe, gli tenne dietro, mentre i negri, coi loro cappelli di foglie di cocco, respingevano i piccoli assalitori con abbondanti getti d’acqua.
Parve che quegli spruzzi riuscissero molto incomodi alle vespe perchè si affrettarono ad innalzarsi e quindi a volare verso i boschi in gruppo serrato.
— Se ne sono andate? — chiese Antao, che non sapeva ancora decidersi a levarsi la giacca protettrice. — Morte di Urano e di Saturno!... Ma erano idrofobe adunque?...
— L’acqua non fa per loro, — rispose Alfredo. — Fortunatamente i nostri uomini hanno trovato questo stagno che ci ha salvati.
— Bah!... Convengo che le punture delle api non sono piacevoli, Alfredo, ma anche senza quest’acqua non ci sarebbe toccato un guaio serio.
— T’inganni, Antao. Conosci quelle vespe?...
— No, ma mi parvero simili alle nostre.
— Ma tu ignori che veleno terribile iniettano quegli insetti che dai negri sono chiamate elovas. Ti produce un tale dolore, da impazzire o poco meno e che ti dura due o tre giorni.
Le elovas sono più temute delle mosche ibolai, le quali posseggono dei pungiglioni così acuti da passare perfino i calzoni. Non vi è alcun negro che osi avvicinarsi agli alberi dove hanno costruito il loro nido.
— Ma chi le ha disturbate?...
— Io, — rispose Asseybo. — Ho incespicato in qualche cosa che era stata tesa attraverso il sentiero, forse qualche liana e sono caduto addosso ad un ramo che era stato appoggiato appositamente al cespuglio delle elovas. Sentendo muoversi i rami sui quali avevano costruiti i nidi, temendosi forse assalite, si sono affrettate a darci addosso.
— Un ramo appoggiato appositamente? — chiese Alfredo.
— Sì, padrone, e qualcuno lo aveva collocato attraverso il sentiero per far scatenare le elovas contro l’imprudente che lo avesse urtato.
— Ma chi credi che sia, quel «qualcuno?»
— Uno dei ladri che inseguiamo, padrone.
— Furbi, quei furfanti! — esclamò Antao. — Forse speravano che le api ci cacciassero in corpo tanto veleno, da diventare gonfi come otri.
— E d’immobilizzarci due o tre giorni per sfuggirci, — aggiunse Alfredo. — Di queste astuzie bisogna attenderne ben altre, ma non ci avanzeremo che con prudenza. —
Essendo intanto calata la notte, risolsero di accamparsi presso quello stagno, quantunque non fosse prudente arrestarsi in quel luogo, che poteva servire di abbeveratoio a tutti gli animali della foresta. Avevano però la probabilità di ammazzare qualche capo di selvaggina ed un buon arrosto di carne fresca lo desideravano tutti.
Fu con questa speranza che Antao ed Alfredo, dopo una cena frugale, essendo a corto di provviste, andarono ad imboscarsi all’opposta estremità dello stagno, nascondendosi in mezzo a quattro grossi alberi che potevano proteggerli contro qualsiasi improvviso assalto.
Quell’attesa pareva da principio promettente, poichè appena l’oscurità cominciò a diventare fitta, una banda di animali sbucò dalla foresta, correndo allo stagno per dissetarsi, ma era composta esclusivamente di sciacalli e nessuno dei due cacciatori si sentiva capace di fare onore ad un arrosto di cane selvatico.
Più tardi, allontanatisi quei notturni predatori, videro avanzarsi prudentemente un superbo leopardo, ma pareva che si dirigesse verso lo stagno più spinto dalla speranza di sorprendere qualche vittima che per dissetarsi. Accortosi però della presenza dei cacciatori e prevedendo forse che nulla avrebbe avuto da guadagnare in una lotta con loro, con un grande salto si rintanò nella foresta, andando a cercare altrove prede meno pericolose.
Non vedendo comparire altri animali, i due cacciatori, ormai disperando di abbattere qualche succulenta gazzella stavano per tornarsene al campo, quando alzando gli sguardi sui rami d’un albero vicino scorsero parecchi punti luminosi giallastri, che ora apparivano ed ora scomparivano.
— Sarei curioso di sapere cosa vi è lassù, — disse Antao. — Che siano uccellacci notturni?
— Sarebbero volati via, — rispose Alfredo. — Credo invece che lassù ci sia l’arrosto che cerchiamo.
— Allora saranno scimmie e se sono tali lascio l’arrosto ai tuoi negri.
— No, Antao, non sono scimmie e te lo proverò. —
Il cacciatore puntò la carabina e fece fuoco. Subito si videro quei punti luminosi balzare attraverso i rami dell’albero mentre un corpo precipitava al suolo emettendo un debole grido.
— Non mi ero ingannato, — disse Alfredo. — L’arrosto è venuto, piccolo sì, ma squisito. —
Il portoghese, senza sapere di cosa si trattasse, non volendo essere da meno del compagno, mirò due punti luminosi che brillavano all’estremità d’un ramo e fece capitombolare un altro corpo.
— Vediamo ora cosa sono, — disse.
Alfredo aveva raccolto le due prede e le guardava con curiosità. Erano due animaletti grossi come scoiattoli, non essendo più lunghi di diciotto o venti centimetri, col corpo esile, il pelame corto, fitto, grigio fulvo sul dorso e biancastro sul ventre e con due orecchi straordinariamente grandi per degli esseri così piccoli.
— Che animali sono? — chiese Antao.
— Galangoni, — rispose il compagno. — Sono animaletti di abitudini notturne, che vivono ordinariamente sugli alberi nutrendosi d’insetti e delle gomme delle piante resinose.
— Hanno degli orecchi veramente mostruosi!
— Ma utili per loro, poichè per dormire senza venir disturbati, li ripiegano chiudendo perfettamente l’udito.
— Quest’arrosto lo serberemo per la colazione. —
Essendo prossima la mezzanotte, i due cacciatori tornarono al campo per gustare un po’ di riposo sotto la guardia di un dahomeno.
Ai primi albori la carovana, attraversato il Dschawoe in prossimità delle sue sorgenti, un fiume d’un corso non breve e che va a scaricarsi nel Volta, si rimettevano in marcia dietro le tracce dei fuggiaschi che erano state ritrovate, dopo però lunghe ricerche, sull’opposta riva. Quelle tracce si dirigevano ora in linea retta, verso l’ovest, in direzione del Volta, fiumana grandissima che forma la frontiera orientale del potente regno degli Ascianti. Ormai non vi era più da ingannarsi: i ladri si recavano in qualche cittadella di quel regno per disfarsi degli oggetti rubati ai due bianchi con maggior profitto, essendo i villaggi dei Krepi troppo poveri per far simili acquisti e sprovvisti specialmente di metalli preziosi.
Alfredo aveva creduto per un momento che avessero avuta l’intenzione di recarsi a Kpandu, una delle più grosse borgate dei Krepi, situata al di là del 7° di latitudine settentrionale, ma la linea quasi diritta che mantenevano le tracce e sempre verso occidente, lo avevano convinto del contrario. I ladri ormai dovevano mirare ad Abetifi, che è una delle più importanti città degli Ascianti, celebre pei suoi mercati settimanali che attirano numerose carovane e molti ricchi negozianti di Cumassia, la capitale del regno.
Le foreste che si estendevano al di là dello Dschawoe, permettevano fortunatamente di procedere con maggior lestezza non essendo ingombre di liane e di radici. Gli alberi erano riuniti in grandi gruppi, ma lasciavano qua e là degli spazi liberi abbastanza vasti ed affatto privi di quegli intricatissimi cespugli che ordinariamente occupano le radure delle foreste africane.
Asseybo che si manteneva sempre alla testa della carovana, osservava scrupolosamente le piante vicine alle tracce lasciate dai fuggiaschi, le quali erano sempre visibili, mantenendosi il suolo umido, ma non riusciva più a scoprire alcun segnale della giovane negra. Era da supporre che i suoi rapitori si fossero accorti degli oggetti lasciati cadere per guidare gl’inseguitori e che ora la sorvegliassero attentamente.
Sospettando poi sempre qualche nuova astuzia, il bravo negro guardava attentamente anche il suolo, per tema di porre i nudi piedi su qualche spino avvelenato nascosto entro terra o di cadere in qualche profonda buca armata di un palo aguzzo e ricoperta accuratamente in modo da ingannare perfino le fiere, astuzie ben note ai dahomeni.
Sentiva per istinto che quei furfanti, dopo il primo tentativo di arrestarli per alcuni giorni colle atroci punture delle pecchie, non avrebbero tardato a tendere altre insidie e forse più pericolose, per sbarazzarsi di loro.
I suoi timori, pur troppo, dovevano ben presto avverarsi.
La carovana, dopo una breve fermata sull’opposta riva del Deise, altro affluente del Volta, erasi da qualche ora messa in marcia, quando l’olfatto del negro fu colpito da un odore di bruciaticcio, che il vento portava dall’ovest.
Non era però quell’odore particolare che tramandano le piante resinose che vengono divorate dalle fiamme, ma un altro più acuto, più sgradevole e che pareva prodotto da ammassi di carne bruciata.
— Padrone, — disse, tornando rapidamente indietro. — Qualche cosa succede in mezzo od ai confini della foresta.
— Che quei furfanti abbiano incendiata la boscaglia per costringerci a retrocedere? — si chiese Alfredo, con inquietudine. — Questo odore di bruciaticcio può annunciarci un grave pericolo.
— Non sarà facile che questa immensa foresta prenda fuoco come uno zolfanello, — disse Antao.
— Possono aver incendiati dei macchioni d’alberi resinosi, — rispose Alfredo.
— Ma si direbbe che mille cuochi stiano arrostendo dei milioni di costolette. Non senti che odore?...
— Sì, Antao.
— Da che cosa proviene?...
— Non lo so.
— Mandiamo Asseybo su un albero. Di lassù potrà forse vedere se è la foresta che brucia. —
Il negro fu lesto a obbedire. Avendo osservato che un grosso tek lanciava la sua cima molto più in alto di tutti gli alberi vicini, aiutato dai due schiavi potè raggiungere i primi rami e quindi issarsi fino agli ultimi.
Dall’alto di quell’osservatorio il suo sguardo potè spaziare liberamente sopra tutta la foresta e scorgere distintamente, a meno di due chilometri di distanza, alcune colonne di fumo che s’innalzavano presso un largo fiume, il quale tagliava tutto l’orizzonte occidentale.
Pareva però che invece degli alberi bruciassero delle erbe, poichè in quella direzione non si vedevano che rade piante e nessuna ardeva.
Ad un tratto i suoi sguardi videro avanzarsi fra gli alberi vicini, come un largo serpente di colore oscuro, il quale minacciava di tagliare in due la foresta.
— Canaglie, — mormorò. — Ora comprendo tutto. —
Si lasciò cadere di ramo in ramo con rapidità fulminea e giunto a terra afferrò per la briglia il primo cavallo e si mise a correre gridando:
— Presto, padrone, o non potremo giungere al fiume prima di tre o quattro giorni. Frustate i cavalli o sarà troppo tardi. —
Senza chiedere spiegazioni, comprendendo che se Asseybo così agiva doveva avere le sue buone ragioni, i due europei ed i dahomeni si precipitarono dietro a lui, bastonando i cavalli per farli galoppare.
Il negro correva sempre, descrivendo un semicerchio, come se volesse sfuggire un gran pericolo che pareva dovesse venire dal nord-ovest e gettava intorno sguardi smarriti come se temesse da un istante all’altro di venire assalito.
— Diavolo d’un paese! — brontolava Antao, che trottava a fianco dei cavalli. — Si può mai essere un po’ tranquilli? Cosa sta per accadere ora?... Ieri le vespe ed oggi avremo qualche nuova specie di calabroni o di pipistrelli!...
Ad un tratto udirono Asseybo gettare un grido di trionfo.
— Ehi, negro del malanno!... — urlò Antao. — Sono fuggiti anche i calabroni?... Se mi fai correre ancora un po’ scoppio o mi prendo un colpo di sole.
— Presto!... — gridò Asseybo. — Siamo giunti in tempo!...
— In tempo di cosa?... — chiese Antao, che con un ultimo sforzo lo aveva raggiunto.
— Di passare salvando la nostra pelle.
— Da chi?...
— Guardate!... —
Il portoghese guardò sotto gli alberi, vide e scoppiò in una risata fragorosa.
— Un gorilla mi strangoli se costui non è pazzo!... — esclamò.
— No, Antao, — disse Alfredo. — Asseybo non è pazzo e se sei ancora vivo, puoi ringraziare lui solo.
— Ma... non vedi che sono formiche?...
— Sì, delle formiche, ma che non lascerebbero un brano di carne nè addosso a te, nè addosso ad un feroce leopardo. Mio caro, siamo sfuggiti ad un grave pericolo ed ancora una volta i ladri hanno fatto un buco nell’acqua. —