La Costa d'Avorio/14. Le tracce dei ladri
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Capitolo XIV
Le tracce dei ladri
Come avevano già sospettato, nè l’amazzone, nè i cavalli erano ritornati al campo.
I due dahomeni avevano vegliato l’intera notte dinanzi ai fuochi, ma non avevano udito nè alcuna voce umana, nè alcun nitrito che annunciasse la vicinanza degli animali, nè alcun altro rumore che facesse sospettare la presenza delle spie, che avevano seguìta costantemente la carovana dopo la sua partenza da Porto Novo.
Interrogati cosa ne pensassero dei sospetti manifestati da Alfredo e dell’esito negativo della spedizione, si mostrarono concordi nell’affermare che la scomparsa misteriosa della giovane negra, degli animali e soprattutto delle casse, si dovesse più attribuire alle spie che forse si erano nascoste a breve distanza dal campo, che ai gorilla.
Senza dubbio avevano approfittato del terrore dei due dahomeni e della loro fuga dopo l’improvvisa comparsa del mpungu, per gettarsi rapidamente sugli animali e sulle casse e quindi internarsi nei folti boschi.
Quantunque fossero ormai tutti convinti di ciò, pure Alfredo mandò i tre negri a frugare le macchie vicine, per accertarsi che la giovane negra non era stata uccisa, quindi assieme al portoghese si mise a esaminare le tracce dei ladri.
Essendo il suolo della foresta umido, non permettendo il folto fogliame degli alberi che i raggi del sole penetrassero, gli riuscì facile scoprire, al di là della radura, le tracce dei cavalli che erano chiaramente impresse sullo strato erboso.
— I nostri sospetti sono giusti, — diss’egli ad Antao che lo seguiva. — I nostri cavalli non sono fuggiti per paura del mpungu.
— Da che cosa lo arguisci?... — chiese il portoghese.
— Se i nostri cavalli fossero stati spaventati, sarebbero di certo fuggiti in diverse direzioni, mentre le loro tracce sono tutte unite, ma... toh!... Lo dicevo io? Guarda su questo terreno umido che è sprovvisto d’erbe.
— Diavolo!... — esclamò Antao, curvandosi. — Se non m’inganno, queste sono le tracce di due piedi nudi.
— Sì, Antao, — rispose Alfredo. — E qui vedo due altre orme di piedi nudi, più grandi delle prime.
— Allora non vi sono più dubbi: i negri che ci seguivano ci hanno derubati.
— Le tracce lo indicano.
— Ma a quale scopo?... Per privarci delle casse?
— È probabile, essendo i negri, in generale, tutti ladri, ma anche per impedirci di proseguire il viaggio. Forse si sono accorti che noi cercavamo d’ingannarli.
— Ma vorrei trovare le tracce della ragazza.
— Continuiamo le ricerche. —
Il passaggio dei cavalli attraverso la foresta era visibile anche per degli occhi meno acuti e meno sperimentati di quelli d’Alfredo. Gli zoccoli avevano calpestato profondamente l’umido terreno ed i corpi, nel passare, avevano tracciato come un sentiero fra i cespugli ed i rami bassi degli alberi, spezzando anche i più deboli.
Percorsi cinquecento passi, i due bianchi s’arrestarono mandando un grido di gioia. In mezzo alle erbe avevano trovato uno di quei piccoli fiocchi che ornavano la casacca della giovane negra.
— Finalmente!... — esclamò Antao, raccattandolo e mostrandolo con aria trionfante al compagno. –Ora abbiamo la prova che i ladri l’hanno rapita e mi duole sinceramente di aver ucciso quel povero gorilla.
— Sì, — disse Alfredo, lieto di quella scoperta, — ora possiamo dedicare tutti i nostri sforzi all’inseguimento di quegli audaci bricconi.
— Riusciremo a raggiungerli?...
— Lo spero, Antao.
— Ma saremo costretti a tornare verso la costa?...
— No, poichè le tracce finora si dirigono verso l’ovest ossia verso il Todji che scorre presso le frontiere degli Ascianti.
— Che quei furfanti abbiano intenzione di recarsi in quel regno a scambiare i nostri oggetti, prima di tornare in patria?
— È probabile, ma non lasceremo loro il tempo nè di giungere a Teki, nè ad Anum che sono le prime borgate degli Ascianti. Mentre io seguo le tracce, torna al campo, fa’ caricare sui due cavalli che fortunatamente ci sono rimasti, le nostre tende e le poche casse lasciateci e raggiungimi più presto che puoi. —
Il portoghese lieto per quella felice scoperta che chiariva la scomparsa della giovane negra, non si fece ripetere l’ordine due volte e tornò precipitosamente al campo, chiamando i negri a piena voce.
In un baleno le tende furono levate, gli arnesi della cucina furono collocati nel sacco, le casse caricate sui due cavalli e la carovana si mise frettolosamente in marcia per raggiungere il capo, il quale si spingeva celermente innanzi, dietro le tracce.
— Sono sempre visibili? — gli chiese Antao, che lo aveva raggiunto a passo di corsa.
— Sempre, — rispose Alfredo. — Finchè la foresta è così fitta abbiamo la speranza di non perderle.
— Ma poi?...
— Se possiamo seguirle fino al Todji non chiederei di più, poichè allora avrei la certezza che i ladri cercano di spingersi fino ai mercati di Teki o di Anum.
— Credi che abbiano molte ore di vantaggio su di noi?
— Avranno marciato tutta la notte, ma saranno costretti ad accordare oggi un po’ di riposo ai cavalli. Forzando le marce, spero di poterli raggiungere prima di tre o quattro giorni.
— Ma si lasceranno inseguire senza cercare d’arrestarci?...
— Tutto dipenderà dal loro numero. Se sono pochi si limiteranno a fuggire colla massima celerità, se sono in parecchi cercheranno di certo di crearci degli imbarazzi o d’impedirci di stringerli troppo da vicino, ma non siamo uomini da inquietarci. È bensì vero che tutti i dahomeni sono coraggiosi, ma anche noi non abbiamo certo paura di loro. —
I due cavalli intanto, vivamente aizzati dai due schiavi, li avevano raggiunti, quantunque fossero eccessivamente carichi, mentre Asseybo si era spinto più innanzi dietro alle tracce, essendo più abile del suo padrone.
La foresta si manteneva sempre assai fitta e solo di quando in quando, a grandi distanze, si trovavano delle radure. Era un continuo caos di tronchi, di rami, di foglie, di liane e di radici. Ora erano macchioni di cedri i cui fiori spandevano all’intorno acuti profumi, o gruppi immensi di ebani che avrebbero fatto la fortuna di qualche tribù che avesse voluto approfittarne, o di acajù dal legno non meno prezioso e non meno ricercato per la fabbricazione dei mobili di lusso, o di constiawa dai quali alberi si ricava una tintura molto pregiata, di colore giallo zafferano, di enormi cauciù che danno la gomma e non pochi tek, alberi che raggiungono delle altezze imponenti e dai quali si ricava un legname così resistente da sfidare perfino le palle di cannone.
In mezzo a quei vegetali che confondevano reciprocamente le loro fronde ed i loro rami, si vedevano svolazzare bande di pappagalli grigi e verdi, di grossi avvoltoi e anche alcune aquile, mentre sui tronchi si vedevano correre miriadi di bellissime lucertole colla testa gialla, il corpo grigio ferro e la coda a tre colori ossia rosa, bianca e nera.
Questi animaletti si trovano dappertutto nei paesi della Costa d’Avorio e soprattutto nelle capanne dei negri dove si vedono, a tutte le ore del giorno, correre sui soffitti e lungo le pareti, occupati a dare la caccia agli ospiti pericolosi, ossia agli scorpioni dal morso doloroso, alle tarantole ed ai terribili ragni-vampiri.
Come si può immaginare, sono animaletti rispettati da tutti i negri per i servigi immensi che rendono e perciò si propagano straordinariamente.
Non mancavano le scimmie in mezzo a quelle grandi foreste. Di tratto in tratto, sulle cime di qualche albero fruttifero, si vedevano delle piccole truppe di quelle scimmie chiamate drilli, quadrumani affini ai mandrilli, ma non pericolose come questi ultimi.
Sono molto più piccole, non essendo più alte di settanta centimetri, hanno il pelame olivastro sul dorso, ma biancastro sotto, mentre il muso è nerissimo e le mani ed i piedi color del rame.
La loro barba, che è folta assai e che poi sale fino sul cranio formando una specie di cappuccio, dà loro un aspetto comicissimo.
Vedendo passare la carovana s’affrettavano a guadagnare le più alte cime degli alberi, mettendosi fuori di portata dai loro assalti e di lassù, manifestavano le loro inquietudini con grida assordanti.
Dopo il mezzogiorno però, la carovana fece l’incontro d’un branco di scimmie ben più pericolose. Stava passando attraverso ad un macchione di goyavi e di sicomori, quando un ramo di considerevole grossezza cadde dinanzi ad Antao, il quale per poco non ne ebbe spaccato il cranio.
Il portoghese, furioso, afferrò rapidamente la carabina credendosi assalito da qualche negro nascosto su qualche albero, ma invece d’un uomo vide sulla cima d’un’acacia una orribile scimmia che rideva a crepapelle, come fosse lieta di quel pessimo scherzo che per poco mandava il brav’uomo all’altro mondo.
Doppiamente arrabbiato, Antao, che si trovava a cinquanta passi dai compagni, puntò il fucile e senza curarsi se commetteva una imprudenza, fece fuoco.
Il quadrumane, colpito nel cranio, interruppe le sue risa per mandare un urlo acuto e piombò al suolo come un sacco di cenci, fracassandosi le ossa.
Quella scimmia era senza dubbio la più brutta che Antao avesse fino allora veduta. La sua testa era veramente spaventosa con quelle due rigonfiature rigate che le deturpavano le gote, con quella bocca larga e sporgente, armata di acuti denti, con quella barba arruffata color arancio vivo e quel cranio piramidale.
Il suo corpo massiccio, robusto, coperto d’un pelame ispido, aveva tutte le tinte immaginabili. Era verde oliva e nero sul dorso, bruno chiaro sul ventre e sui fianchi, il petto giallognolo, le mani e gli orecchi neri ed il naso rosso fuoco.
La sua statura poi oltrepassava il metro, non compresa la coda che era appena visibile.
— Ehi, Antao!... — gridò Alfredo, vedendo l’amico assorto in una lunga contemplazione. — Contro chi hai fatto fuoco?...
— Contro la tavolozza d’un pittore, — rispose il portoghese ridendo.
— Contro una tavolozza?...
— Vieni a vederla e sarai persuaso. —
Alfredo, quantunque fosse certo che l’amico scherzasse, tornò indietro, ma appena ebbe dato uno sguardo alla scimmia, afferrò Antao per un braccio, dicendogli:
— Fuggi!... Simili tavolozze sono pericolose, mio caro.
— Ma è una scimmia e non già un gorilla.
— È un mandrillo e questi quadrumani hanno tali denti da farti a pezzi. Fuggiamo prima che giungano i compagni del morto.
— Non chiedo di meglio, amico, — rispose Antao. — Ne ho avuto abbastanza del gorilla, per attirarmi ora addosso la collera di altre scimmie. —
Fortunatamente nessun mandrillo si fece vedere, sicchè poterono raggiungere tranquillamente la carovana senza essere inquietati.
Asseybo intanto, che precedeva tutti per non smarrire le tracce dei ladri, aveva trovato un altro oggetto appartenente alla giovane negra, e cioè la sua fascia rossa che era rimasta appesa ad un ramo basso d’un grande cedro.
Non si poteva ammettere che l’amazzone l’avesse perduta, avendogliela veduta attorno ai fianchi, strettamente annodata. Doveva averla indubbiamente lasciata cadere per indicare il suo passaggio attraverso quella vasta boscaglia, certa che gli uomini bianchi, derubati dei loro effetti e dei loro animali, avrebbero seguìte le tracce dei fuggiaschi.
Verso il tramonto, sull’opposta riva dell’Aka, fiume che scaricasi nel lago Anglo, nei pressi di Krikor, fu trovata anche la cartucciera dell’amazzone pendente da un altro ramo, ma in modo da poter essere veduta dal primo individuo che fosse passato per di là.
Accanto alla pianta si scorgevano gli avanzi d’un fuoco e ciò indicava che i fuggiaschi dovevano essersi fermati colà per preparare il pasto e per far riposare i cavalli.
— Ora non possiamo più dubitare della fedeltà di quella brava ragazza, — disse Antao ad Alfredo.
— Sì, — rispose questi, — mantiene il suo giuramento.
— Però quelle canaglie devono sempre avere un grande vantaggio su di noi e sarà difficile che noi possiamo raggiungerli.
— Non spero di poterli sorprendere nella foresta, Antao. I nostri animali sono troppo carichi per poter gareggiare con quelli che ci hanno rubato, ma a me basta che continuino a fuggire verso l’ovest, ossia verso gli Ascianti.
— Ma non avremo delle noie in quel paese di barbari?...
— Gli Ascianti non sono più civili dei dahomeni, è vero, ma non osano molestare gli Europei, dopo che hanno provato la forza delle armi inglesi.
— Quale pericolo potrebbero correre se ci tendessero una imboscata e ci massacrassero tutti?... Chi andrebbe a raccontarlo agli Europei della Costa?...
— È vero, ma una superstizione fortunata rende inviolabile la vita degli uomini bianchi.
— Forse che gli Ascianti ci credono uomini discesi dal cielo?...
— No, ma in causa d’una profezia che rimonta alla fine del primo quarto di questo secolo. In quell’epoca i grandi cumfos, ossia i profeti del regno, hanno predetto che giungerebbe un tempo in cui il loro paese sarebbe stato costretto a cambiare religione, usi e costumi per opera di uomini bianchi protetti dai feticci, aggiungendo che se uno di quegli uomini venisse ucciso, le più spaventose calamità avrebbero colpito la dinastia ed il suo popolo.
In seguito a quella profezia, per tema di uccidere uno di quegli uomini protetti dai feticci, fu decretata una legge speciale colla quale si proibisce severamente a chiunque, anche ai re, di sacrificare qualsiasi europeo che metta i piedi sul territorio degli Ascianti.
— Allora non temo più per la mia pelle.
— Puoi vivere tranquillo, specialmente nella nostra qualità d’italiani e di portoghesi. Se fossimo inglesi, chissà, potremmo aspettarci qualche brutta sorpresa.
— Si dice che gli Ascianti non abbiano torto ad odiare gli Inglesi.
— La guerra mossa dall’Inghilterra a quel popolo non è stata giusta, Antao, e l’odio se lo sono meritato. Non ha avuto altro scopo, si può dire, che di derubare gli Ascianti della grande quantità d’oro che possedevano.
Dopo d’aver incendiata la capitale e di aver imposto ai vinti un enorme tributo di guerra, accorgendosi che gli Ascianti erano ancora ben forniti d’oro, cercarono alti cavilli per imporne un secondo che colle minacce ottennero.
Come puoi immaginarti, gli Ascianti amano l’Inghilterra come il fumo negli occhi e se noi appartenessimo a quella nazione, potremmo pagare cara l’imprudenza di avventurarci sulla riva del Volta. —
In quel momento si vide Asseybo, che si trovava a dieci passi da loro, cadere al suolo fracassando un ramo che pareva fosse stato appositamente gettato attraverso quella specie di sentiero, quindi rialzarsi prontamente, gridando coll’accento del più vivo terrore:
— Fuggite!... Fuggite!... —