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La caccia ai rapitori 107

— Possono aver incendiati dei macchioni d’alberi resinosi, — rispose Alfredo.

— Ma si direbbe che mille cuochi stiano arrostendo dei milioni di costolette. Non senti che odore?...

— Sì, Antao.

— Da che cosa proviene?...

— Non lo so.

— Mandiamo Asseybo su un albero. Di lassù potrà forse vedere se è la foresta che brucia. —

Il negro fu lesto a obbedire. Avendo osservato che un grosso tek lanciava la sua cima molto più in alto di tutti gli alberi vicini, aiutato dai due schiavi potè raggiungere i primi rami e quindi issarsi fino agli ultimi.

Dall’alto di quell’osservatorio il suo sguardo potè spaziare liberamente sopra tutta la foresta e scorgere distintamente, a meno di due chilometri di distanza, alcune colonne di fumo che s’innalzavano presso un largo fiume, il quale tagliava tutto l’orizzonte occidentale.

Pareva però che invece degli alberi bruciassero delle erbe, poichè in quella direzione non si vedevano che rade piante e nessuna ardeva.

Ad un tratto i suoi sguardi videro avanzarsi fra gli alberi vicini, come un largo serpente di colore oscuro, il quale minacciava di tagliare in due la foresta.

— Canaglie, — mormorò. — Ora comprendo tutto. —

Si lasciò cadere di ramo in ramo con rapidità fulminea e giunto a terra afferrò per la briglia il primo cavallo e si mise a correre gridando:

— Presto, padrone, o non potremo giungere al fiume prima di tre o quattro giorni. Frustate i cavalli o sarà troppo tardi. —

Senza chiedere spiegazioni, comprendendo che se Asseybo così agiva doveva avere le sue buone ragioni, i due europei ed i dahomeni si precipitarono dietro a lui, bastonando i cavalli per farli galoppare.

Il negro correva sempre, descrivendo un semicerchio, come se volesse sfuggire un gran pericolo che pareva dovesse venire dal nord-ovest e gettava intorno sguardi smarriti come se temesse da un istante all’altro di venire assalito.

— Diavolo d’un paese! — brontolava Antao, che trottava a fianco dei cavalli. — Si può mai essere un po’ tranquilli? Cosa