La Colonia Eritrea/Parte II/Capitolo XIII
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CAPITOLO XIII.
Espulsione dei Lazzaristi francesi dall’Eritrea — Mangascià si prepara alla riscossa — Chiede aiuti a Menelik — Si avvicina ad Adigrat per toglierlo ad Agos Tafari alleato dell’Italia — Baratieri invade ed occupa l’Agamè — Inseguimento infruttuoso di Mangascià — L’alleato Agos Tafari a Makallè — Baratieri entra in Adua per la seconda volta — Preoccupazioni politiche e finanziarie del Governo — Baratieri si ritira da Adua lasciandovi poche truppe — È chiamato in Italia — Grandi feste fattegli a Roma ed altrove — Sua intesa col Governo — Riparte per l’Eritrea — Ripresa della campagna contro Mangascià — Combattimento di Debra Ailat — Occupazione del Tigrè — Conseguenze politiche e militari.
Il generale Baratieri, con decreto delli 22 gennaio 1895, ordinava l’espulsione dall’Eritrea dei Lazzaristi francesi, sospetti di connivenza negli accordi tra Batah Agos e Mangascià. Questi Lazzaristi facevano parte di una missione cattolica istituita da oltre 50 anni nell’Abissinia settentrionale, ove avevano eretto chiese e caseggiati ed acquistati vasti poderi che sapevano sfruttare in tutti i modi, ritraendone una rendita annua di oltre mezzo milione di lire.
Avevano chiese a Keren, a Scinnaar, ad Atiliena e ad Akrur, donde bandivano la fede religiosa senza troppi scrupoli e senza sottigliezze, badando piuttosto ad affezionarsi le popolazioni che a convertirle, piuttosto a procurarsi autorità e ricchezze che a fare dei santi.
La loro fine astuzia accompagnata dai bei modi, dalle maniere tolleranti e gentili, aveva potuto insinuarsi tra i capi e le autorità etiopiche ottenendone non pochi risultati.
Ma la loro avversione alla espansione italiana, manifestatasi fin dai primi tempi della nostra occupazione di Massaua, e che divenne ancora più acerba dopo che l’istituzione della nuova Prefettura Apostolica nell’Eritrea toglieva loro la suprema direzione spirituale di tutti i cattolici dell’Etiopia, urtava col sentimento nazionale italiano e creava imbarazzi alla nostra politica coloniale.
Perciò il decreto che li colpiva fu ritenuto provvido.
Essi strepitarono e protestarono, minacciando anche ricorsi ai tribunali ed al Governo francese, ma tutto fu inutile; ai primi di febbraio 1895 dovettero abbandonare la Colonia, lasciando ad un loro avvocato la cura dei beni e delle controversie giudiziarie che erano sorte circa la legittima proprietà di taluni di essi.
Intanto che i predetti religiosi recavano altrove le loro querele ed i loro astii contro l’Italia e contro il cappuccino italiano Padre Michele da Carbonara, il quale il 9 dicembre 1894 aveva assunto solennemente nella chiesa di Keren la prefettura Apostolica dell’Eritrea, Mangascià ridottosi a ramingare con pochi fedeli pel Tembien, si adoperava con tutte le sue forze a riannodare il suo esercito disperso, battendo il chitet1 ed inducendo con preghiere, con minaccie e colle più solenni promesse dell’imminente intervento scioano, tutti i validi alle armi a seguirlo.
Lo accompagnava, facendogli coro ed aiutandolo ne’ suoi sforzi Tesfai Antalo, lo spodestato governatore dell’Agamè, ed entrambi spedivano messi sovra messi a Menelik per indurlo a mantenere la promessa fatta di aiuti di uomini e munizioni, e per lagnarsi di essere stati esposti ed abbandonati ad uno scacco contro gli italiani.
Allo scopo però di guadagnar tempo e di mascherare i suoi intendimenti ostili, e per evitare che gli piombassero addosso le forze di Baratieri, Mangascià si affrettò a scrivere a lui ed al Re d’Italia, chiedendo pace e perdono ed attribuendo l’accaduto, come al solito, all’intromissione del diavolo.
Baratieri d’altra parte non era tranquillo, perchè sapeva bene che se anche era riuscito a sconfiggere e sbandare con gravi perdite l’esercito tigrino a Coatit e Senafè, non lo aveva però distrutto, nè aveva reso impossibile la sua ricostituzione; dovette perciò chiedere rinforzi ed aiuti al Governo italiano, il quale benchè cominciasse a sentirsi a disagio cogli intendimenti battaglieri del Generale, ed a nutrire preoccupazioni politiche e timori di nuove ed ingenti spese, proprio allora che a forza di sacrifici e di dolorose economie si ristabiliva il pareggio del nostro bilancio, ed erano imminenti le elezioni generali politiche bandite col programma delle economie, concedette, non senza dar luogo a discussioni vivaci in seno allo stesso Gabinetto, due battaglioni bianchi, una batteria, nonché i mezzi per formare altri due battaglioni indigeni, e materiali e munizioni per rifornire i magazzini ed i forti.
Appena che Baratieri potè disporre di questi rinforzi, avendo saputo che Mangascià si era avvicinato con 4000 fucili ad Ausen per tentare un colpo contro l’Agamè, gli mandò senza altro un ultimatum, ordinandogli l’immediato licenziamento delle truppe come indispensabile condizione di pace; quindi non ottenendo da lui che delle scuse e delle giustificazioni che come al solito non concludevano nulla, decise tosto di muovergli contro.
Cominciò a far concentrare per il 14 marzo 1895 un corpo d’operazioni di circa 4000 uomini a Senafè agli ordini del tenente colonnello Pianavia, ed egli stesso mosse da Massaua ad assumerne la direzione per invadere ed occupare definitivamente la provincia dell’Agamè minacciata da Mangascià.
Di questo corpo d’operazioni facevano parte i battaglioni Galliano ed Ameglio, la solita batteria di montagna di Cicco di Cola e le bande assoldate, e più tardi vi si aggiunse il battaglione Toselli, il quale in questo frattempo aveva lasciato delle orme di profonda sapienza politica e militare nella completa pacificazione delle Provincie dell’Okulè-Kusai.
Il generale Arimondi, ed alcuni vollero attribuire ciò a dissidi col Governatore, fu lasciato a Keren a guardare colle rimanenti forze la frontiera verso i dervisci.
Baratieri, dopo aver solennemente inaugurato in Senafè un bel forte, che Toselli vi aveva fatto costruire dalle truppe, col concorso gratuito delle servitù indigene, mosse poco appresso alla volta di Adigrat, ove entrava trionfalmente il 25 marzo, ricevendovi l’omaggio del nostro alleato Agos Tafari, il quale fece al Governatore ogni sorta di gentili accoglienze.
L’occupazione della posizione di Adigrat per parte delle nostre truppe, fu un avvenimento politico-militare di grande importanza. Questa località è situata a 2545 m. sul livello del mare, sul fianco della dorsale che forma l’orlo orientale dell’altipiano etiopico; a sud le si parano d’innanzi le altissime e formidabili barriere di Adagamus e del Colle di Seetà che sbarrano le vie provenienti dall’Enderta ed a Ausen; a sud-ovest è difesa dal massiccio nodoso di Alequà, donde si dirama una catena di montagne perpendicolare alla dorsale predetta, che prolungandosi verso Adua, va a formare lo spartiacque tra il bacino del Mareb e quello del Tacazzè; ad est è isolata dalle ripidi pendici scendenti verso il mare. Perciò la posizione di Adigrat viene ad esser chiusa come in un immenso campo trincerato e domina tutte le strade che dal sud conducono verso l’Okulè Kusai; mentre per mezzo della linea di alture che da Alequà vanno verso Adua (monte Augher, Entiscio, Saurià) domina anche le vie che dalla capitale tigrina conducono verso nord-est nella valle dell’Unguia e del Belesa in direzione dell’Okulè - Kusai predetto.
Adigrat è il villaggio capoluogo della regione Agamè, la quale situata in parte sull’alto Dega, ed in parte nel Uoina Dega, offre svariato aspetto di bellezza; è salubre, ricca di pascoli, di bestiami e di prodotti agricoli, importante per il movimento commerciale, popolata di gente laboriosa e fiera.
Appena compiuta questa occupazione, Baratieri dispone per renderla permanente, destinandovi il maggiore Toselli con un presidio di circa 1300 uomini, e designando l’alleato Agos Tafari a capo della vicina importante provincia tigrina dell’Enderta, coll’incarico di inseguire, sostenuto dal tenente colonnello Pianavia, ras Mangascià, il quale sorpreso e prevenuto della sua speranza di riconquista dell’Agamè, saputa la nostra occupazione di Adigrat, da Ausen si ritira precipitosamente verso sud, sottraendosi all’inseguimento, che riesce infruttuoso.
Quindi Baratieri, ricevuti gli omaggi consueti dei notabili dell’Agamè, sempre ossequiosi ai vincitori, il 12 aprile 1895, accompagnato da poca truppa ma coll’aureola della vittoria, entra per la seconda volta in Adua, accolto dalla popolazione e dal clero con ogni sorta di dimostrazioni servili.
Rinfrancate le popolazioni con un bando che prometteva pace e perdono a tutti, Baratieri volle consacrare le sue conquiste con un atto di religione che ne aumentasse l’autorità e la stima fra gli indigeni; e mosse con pochi uomini alla volta di Axum, la città santa, ove fu ricevuto dal capitolo in pompa magna coll’Eccighiè Teofilos alla testa, ed ove col suo contegno corretto, col suo rispetto ai luoghi sacri ed ai pregiudizi religiosi dei Tigrini, seppe lasciare delle gradite impressioni.
Frattanto il tenente colonnello Pianavia, dopo aver insediato con apposite bande Agos Tafari a Makallè, ed espugnato Amba Salama tenuta da certo Degiac Desta, si congiungeva col Governatore in Adua.
Sorrideva certo alla mente del generale Baratieri di annettere definitivamente alla nostra Colonia anche Adua e Axum, proclamando addirittura la sovranità dell’Italia in tutto il Tigrè; ma trovò opposizioni nel Governo; sicchè limitandosi per ora a promettere ai Tigrini la protezione dell’Italia, fu costretto a rientrare colle sue truppe al di qua del Mareb, non senza però lasciare presso Adua, fortificato nelle alture di Fremona, a qualche chilometro a nord ovest della città, il battaglione del maggiore Ameglio, col pretesto di garantire la pace della città e sorvegliare i movimenti di Mangascià, ma colla speranza, che potesse servire di avanguardia in una prossima occupazione definitiva del Tigrè.
Se non che gli ardimenti del generale Baratieri e le nuove condizioni da lui create nella Colonia cominciarono a sollevare in Italia delle gravi preccupazioni.
Quivi, mediante i savii ma dolorosi provvedimenti escogitati dal ministro Sonnino, era appena stata scongiurata e vinta la crisi che da tanti anni tormentava il bilancio nazionale ed aveva portato lo sconcerto su tutto il funzionamento economico ed amministrativo del regno; ed il timore di nuove imprese e di nuove spese, che cagionassero una ricaduta delle finanze e facessero perdere il pareggio del bilancio ottenuto con tanti sacrifici, manteneva in sospeso gli animi della nazione e vigilanti tutti i deputati che si interessavano di cose finanziarie.
Ma d’altra parte Baratieri, cui l’abbandono forzato di Adua e Axum era stato ostico ad eseguire, tornò a tempestare il Governo con domande di nuovi aiuti, esponendogli la necessità di debellare completamente Mangascià rifattosi minaccioso, e risolvere con uno sforzo decisivo la quistione tigrina, che avrebbe indotto anche Menelik a rinunziare a qualsiasi impresa ostile contro la Colonia.
Tali domande e proposte trovarono però una seria opposizione nel Gabinetto, e specialmente nei ministri Sonnino e Saracco, che volevano ad ogni costo rimanere fedeli al programma delle economie e ritenevano già grave il concedere pel bilancio coloniale 9 milioni annui.
Provò il Crispi, che per conto suo sarebbe forse stato propenso ad accordare a Baratieri i mezzi richiesti, ad invitarlo a provvedere ai suoi bisogni colle risorse locali, ricordandogli che Napoleone faceva la guerra coi denari dei vinti, ma ne ebbe in risposta che il Tigrè era esausto e che non poteva dar niente.
Le domande e le insistenze di Baratieri continuarono ancora per qualche tempo, e le sue relazioni col Gabinetto si inasprirono al punto che per due volte egli chiese di essere esonerato dalla sua carica; finalmente il Ministero, impressionato dalle conseguenze e dalle responsabilità cui andava incontro mantenendosi ancora nella negativa, e dal timore di doversi privare dell’opera di un uomo a cui sorrideva la popolarità e che coi riflessi della sua gloria fortificava anche il Gabinetto, dovette cedere, ed invitò il Baratieri a venire a Roma per intendersi.
Erano in questo frattempo avvenute le elezioni generali politiche favorevoli al Governo, e ciò facilitava di molto gli accordi.
Baratieri venne in Italia nell’agosto del 1895 ed il suo soggiorno nella madre patria fu tutto un trionfo per lui. Presentatosi alla Camera per prestare il suo giuramento di deputato eletto dal collegio di Crema, fu ricevuto cogli stessi onori già tributati a Garibaldi. Il vincitore di Coatit e Senafé fu accolto dall’assemblea in piedi, ed abbracciato dal presidente in mezzo ad un’ovazione indescrivibile, che deve avergli fatto provare le vertigini del trionfo. Feste, ricevimenti, banchetti di ministri, generali e deputati, tutto concorse a manifestare a Baratieri l’ammirazione in cui era tenuto dagli italiani, e la fiducia che avevano riposto in lui.
L’intesa fra Baratieri ed il ministero avvenne facilmente, e le nubi addensate sulla Colonia parvero dissipate da questi accordi che la riammettevano al comando del Generale popolare e valoroso2.
Invece fu quello un funesto momento di sventura per la nostra patria, perchè da esso si iniziarono i folli ardimenti e le temerarie imprese che poi trassero la Colonia nell’orlo della rovina.
Baratieri appena ottenuti i mezzi domandati e senza preoccuparsi che in quei giorni si facevano più insistenti le voci di mosse ostili di Menelik e di altri capi etiopici, rivolgendo i suoi sguardi unicamente a Mangascià che durante l’estate aveva potuto rinsediarsi a Makallè cacciandone il nostro alleato Agos Tafari e s’affannava in preparativi di riscossa, ripartì tosto per l’Africa, disponendosi alla completa conquista del Tigrè. Sbarcò a Massaua il 26 settembre e si mise subito in opera per chiamare sotto le armi la milizia mobile e per formare un corpo d’operazione in Adigrat, concentrandovi in breve sette battaglioni, due batterie e le bande del Seraè.
L’avanguardia fu affidata al comando del generale Arimondi, il quale si spinge subito verso il sud, sperando di incontrare e battere le forze di Mangascià, mentre una colonna volante agli ordini del maggiore Toselli con marcie forzate cercava di prenderlo alle spalle.
Baratieri assunse in persona il comando del grosso, seguendo il movimento dell’avanguardia.
Però Mangascià che non voleva esporsi da solo a nuovi scacchi, fu sollecito a ritirarsi da Makallè senza aspettare l’urto delle truppe italiane, e lo fece abbastanza in tempo per prevenire l’aggiramento di Toselli che non riescì.
Proseguendo nella sua ritirata verso il sud, il Ras si lasciò indietro una retroguardia di circa 1300 uomini, che fu raggiunta dalle truppe del generale Arimondi a Debra Ailat, e quivi li 9 ottobre 1895 sconfitta e dispersa.
I Tigrini vi perdettero una ventina di morti, molti feriti, e lasciarono in potere dei nostri oltre a 200 prigionieri e più di 1000 capi di bestiame; fra i nostri si ebbero 11 morti ed una trentina di feriti.
Quattro giorni dopo Arimondi, continuando ad inseguire Mangascià fuggente verso il sud, arrivò ad Amba Alagi e quivi liberò quel brigante di ras Sebath che più tardi avrebbe ripagato l’Italia colla più nera ingratitudine.
E così terminava il terzo periodo della campagna tigrina.
Fu una vera delusione. Il Tigrè era rimasto, è vero, in mano dei nostri; ma i tigrini erano tutt’altro che debellati; essi c’erano ancor tutti, e non avevano fatto che secondare le loro abitudini ritirandosi davanti alle maggiori forze italiane per andarsi a riordinare e rinvigorire oltre la frontiera, quivi aspettandovi i soccorsi di Menelik.
Frattanto Baratieri entrava in Antalo e Makallè, capitale dell’Enderta, e vi riceveva secondo il consueto gli atti forzati e falsi di sommissione dei notabili e dei preti della provincia; e dal castello che fu residenza del negus Giovanni, ricevendo a rapporto gli ufficiali, proclamava il Tigrè annesso alla colonia Eritrea.
Dopo quest’annessione e questa conquista che doveva poi fruttar tanti dolori, Baratieri si recò a far atto di sovranità anche nella vecchia capitale tigrina Adua, quivi ricevendovi nuove sottomissioni ed omaggi; e verso la fine di ottobre ritornò a Massaua, lasciando il comando del Tigrè al generale Arimondi.
Il Tigre così era definitivamente annesso non dal Governo, ma dal Governatore, alla colonia Eritrea. Adigrat, Adua e Makallè erano fortificate e presidiate dalle nostre truppe, ed altre pattuglie e colonne volanti percorrevano la regione tigrina per sottometterla e purgarla dai ribelli. Si vedrà poi se tale annessione sarà duratura, e se le predette forze saranno sufficienti a mantenerla.