La Canzone del Carroccio/Note
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NOTE
NOTE
Pag. 6, v. 5. — Vedi l’elenco dei prigionieri della Fossalta in Lod. Frati, La prigionia del re Enzo, Bologna, 1902, pag. 90-114. Nel pallatio novo Comunis Bononie col re era Dominus Comes Conradus, quello istesso, che il 1º maggio det 1263 fu tolto e rimosso e posto in altro luogo, perchè la sua compagnia era intollerabile e noiosa al re prigioniero. Era conte di Solimburgo, come ha il Ghirardacci nella sua Historia di Bologna. E in altre prigioni erano ritenuti altri tedeschi, tra cui un Brettoldus de Lostal o Bertoldus de Astal, ossia, come pare, Harstall, che riuscì a fuggire con altri nel 1253 (Savioli, Ann. Bol., III p. I pag. 268).
Pag. 6, v. 8. — Era custodito anch’esso nell’Arengo nuovo (Frati, 91), e relaxatus est, a istanza del Papa. Si sa dove Dante lo mise, per il tradimento che poi fece a Manfredi (Inf. xxxii, 115 sgg.):
Ei piange qui l’argento de’ Franceschi: |
Pag. 7, v. 1. — I bovi bianchi in Italia, dice Varrone (RR. II, 5, 10), non... frequentes. Più dei bianchi, e anche dei neri, erano numerosi i rossi (robeo, donde «roggio», colore), e i gialli miele. I bianchi, che erano i più fiacchi al lavoro, si serbavano ai solenni sacrifizi. Celebri, per questo riguardo, erano i bovi del Clitumno. Verg. Georg., II, 146. Vennero poi i bianchi coi barbari. E si hà da credere, che non subito mettessero in bando i rossi, ma a poco a poco; chè nelle parti meridionali e specialmente in Sicilia i bovi rossi, magri, e corridori, tengono ancora il campo.
Pag. 8, v. 13. — E sul principio dovevano i coltivatori aggiogare il nuovo venuto bianco al vecchio bove indigeno robeo; se anche oggi, inconsapevolmente, il contadino romagnolo grida al suo paio, che è pur di due belli e grandi bovi bianchi: Bi e Ro; che sono le initiali di Bianco, e Rosso.
Pag. 11, v. 2. — Do, dei manenti, la definizione, che è negli Statuti Bolognesi del 1250 (I, pag. 481: ed. Frati): Manentes... appellamus qui solo alieno ita se astrinxerunt ut nec ipsi nec sui liberi invitis dominis a solo discedere valeant. E più genericamente ed esattamente in Ranfrido (l. c. pag. cit.): Manentes sunt qui in solo alieno manent, in villis, quibus nec liberis suis invito domino licet recedere. Io chiamo manenti i servi della gleba indigeni. Quanto agli arimanni è ancor controversa la loro origine e conditione. Certo gli arimanni del contado di Bologna non erano liberi, messi come sono a fascio con gli altri servi: Ordinamus quod aliquis non possit deinceps esse manente vel astrictus ascripticius, vel conditionalis sive arimannus... Ma quelli che erano già, rimasero. Per me gli arimanni erano servi della gleba, a condizione quanto si voglia mitigata, ma d’origine langobarda. Come si vedrà appresso.
Pag. 11, v. 8. — Nello statuto cxlv del 1250 si stabilisce, e ordina, che per amor di Dio, e della Beata Maria vergine si diano iohanni tonso, qui firmat et apperit portas stabule palacij communis bononie, pro suo merito et labore C. sol. bon. in festivitate omnium sanctorum (Stat. comm. Bon., II, 148). Nei medesimi, vol. III, 214, e ’15, si leggono altre provvidenze per il buon vecchierello, chiamato qui custode delle porte dell’Arengo (curie): che oltre l’annuale paga di cento soldi di bolognini, gli si dia per Ognissanti tanto di panno bono di mezzalana da farsene un vestito e un mantello frodato di pelli d’agnello, e un cappuccio nel mese di gennaio, che non gli possano essere ritolti. E abbia pane e vino dal Podestà e non possa essere sindacato e rimosso. E c’è una giunta: che, sendo il predetto Giovanni lumine occulorum gravatus ultra quam sit sollitus, gli si permetta l’aiuto che gli può dare homo bonus frater eius. Circa il vernacolo Zuam, cfr. Zuam de Becaria in Parlamenti ed epistole, Augusto Gaudenzi, Dialetto... di Bologna, pag. 170.
Pag. 11, v. 16. — È parola in Stat. predetti, III, 158, di bonifacius qui sonat campanas communis, che hà di suo soldo lire dieci di bolognini, e perchè fa il servizio bene et fideliter, e ora ha più da fare (per la custodia di Enzio, verisimilmente), gli si dia un vestito, e una guarnacca e una pelle come quelli che si dànno ai banditori, e si davano a Deodato delle campane; e perchè ha da stare giorno e notte in palazzo, e non convien che discenda, abbia dal podestà pane e vino e companatico, come gli altri servitori del podestà.
Pag. 12, v. 9. — Fu nel 1188, quando, a detta del cronista Matteo de’ Griffoni (Mem. Hist., p. 6), duo millia Bononienses et ultra iverunt ultra mare pro recuperatione Terrae Sanctae Ecclesiae: et multi ex eis nunquam reversi fuerunt... Tra questi dominus Ursus de Chaçanimicis... dominus Scappa de Garisendis... dominus Petrus de Asinellis... Il Toso, se era nato, come si vedrà appresso, col carroccio, cioè nel 1173, ora, nel 1251, era sui 78 anni.
Pag. 12, n. 15. — E questa volta fu nel 1217, e fu memorabile. «Allorchè Giovanni di Brienne (uno de’ suoceri di Federico II) invocava soccorsi alla Palestina (1217), in Bologna si formarono due schiere di crociati; nell’una convennero i ghibellini, nell’altra i guelfi. — I primi si elessero a condottiero Bonifazio de’ Lambertazzi, i secondi Baruffaldino de’ Geremei. Da quel dì innanzi il nome delle costoro famiglie divenne un grido di guerra... (Savioli) — ». Così si legge in Il Dominio della parte Guelfa in Bologna di Vito Vitale (Bologna, Zanichelli 1902).
Pag. 13, v. 4. — Nel 1185, quando Zuam era putto di 12 anni, Imperator Federicus et Pocaterra, ejus filius, intraverunt Bononiam; s’intende, con buona pace de’ Bolognesi. Matth. de Griff., Mem. Hist., p. 6.
Pag. 13, v. 13. — Fu nel 1223, secondo il medesimo cronista (p. 8): Sanctus Franciscus de Ordine fratrum Minorum primo praedicavit in platea communis Bononiae. Ma il tremuoto e la predica, a cui allude la canzone, avvennero sull’ultimo dell’anno precedente. Su che vedi il bellissimo libro del nostro Alfonso Rubbiani, La chiesa di S. Francesco in Bologna, Bologna, Zanichelli 1886, pag. 1 e e2. E si leggano qua e là i Fioretti, specialmente il cap. xxvi, il iv e il xv e altri.
Pag. 17, v. 4, e 6. — Lo statoio (stadûr) è una caviglia di ferro con grosso cerchio pendente in cima. Le zerle sono verghe, che servono come di timone ai bovi davanti.
Pag. 18, v. 1 sgg. — Armi da getto: Trabucchi, Mangani, Balestre grosse, Truli, saettamento. Armi dei milites o equites: Panceriam sive cassettium, Gamberias sive schinerias, collare, cirotica ferri, Cappellinam vel capellum ferri, Elmum el Lanceam, Scutum et Spatam sive Spontonem, et Cultellum et bonam sellam ad equum ab armis et bonam cervileriam. — Stat. Mut. 1328, lib. I, Rubr. 24 in Mur., Ant. It., diss. 26ª.
Vedi poi Salimbene, Ediz. dell’Holder-Egger, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XXXII, pagg. 36 e 60.
Pag. 18, v. 12. — Noto è come a Federigo II, che minacciava per riavere il figlio, rispondesse Bologna con parole di Rolandino de’ Passeggeri: non sumus arundines paludine que vento modico agitantur... Vedi Frati. La prig., pag. 117.
Pag. 19, v. 19. — Il Duddo o vesterarius, presso i Langobardi, esercitava l’ufficio di tesoriere e guardarobiere; lo scafardo, di amministratore del danaro.
Pag. 19, v. 21 sgg. — Lo Sculdahis o centenario o locoposito fu poi un capo civile, militare, giudiziario come il duca, ma di distretti campestri. Fara è il nome della famiglia langobarda, esteso certo come quello latino di «gente». I gasindi erano consiglieri, e coadiutori del re. L’eribanno era la chiamata all’armi degli uomini liberi o arimanni o exercitales. Si sa come i Langobardi facessero grande allevamento di porci, e come sin d’allora bene li cucinassero e salassero.
Pag. 25, v. 3. — Le compagnie delle armi, su che vedi lo studio di Augusto Gaudenzi nel Bull. dell’I. S. I., n. 8, furono, almeno un certo tempo, cinque per quartiere, e di più quattro appartenenti a tutti. Queste erano quelle della Stella, dei Lombardi, dei Toschi, dei Beccai per l’armi. Le altre nel 1306 s’erano ridotte a Leoni, Aquile, Griffoni, Branca; Spade, Drappieri per l’armi, Leopardi, Vari; Castelli, Quartieri, Traverse, Schise; Chiavi, Dragoni, Balzani.
Pag. 29, v. 3. — I quattro gonfaloni de’ Quartieri avevano nelle insegne ciò che è nel v. 16 di pag. 30; di più, ma non so da quando, un santo: S. Pietro, S. Francesco, S. Domenico, S. Petronio. La croce rossa divideva in quattro quarti l’insegna bianca.
Pag. 29, v. 13. — Su gli Andalò, e gli altri grandi casati bolognesi ghibellini e guelfi, cioè de’ Lambertazzi e de’ Geremei, vedi il pretioso libro Delle Torri Gentilizie di Bologna ecc. del conte Giovanni Gozzadini, Bologna, Zanichelli 1880. Alberto de’ Cazzanemici si denominava Alberto dalle iniquità.
Pag. 30, v. 5. — Callegari, calzolai di pelle grossa, bisilieri, tessitori di panni di bigello.
Pag. 30, v. 13. — L’orso, arma dei Cazzanemici grandi, detti appunto dell’orso. Il leon rampante a scacchi con la rosa all’orecchio, era l’arma dei conti da Panico, terribili conti, intorno ai quali vedi Gozzadini, Op. cit, p. 388 sgg.
Pag. 30, v. 17. — La gaiferia, vel cuba o çuba o çuppa (Stat. delle Società del popolo... a cuta di Augusto Gaudenzi, pagg. 17, 110, 136, e altrove) doveva aver lo stemma o arma delle società.
Pag. 31, v. 6. — Comazzo, de’ Galluzzi, di parte geremea, ad Uspinello, de’ Carbonesi, di parte lambertazza. Notissima l’inimicizia di queste due grandi famiglie, e la tragica fine d’una donzella e d’un giovane amanti e sposi contro la volontà de’ loro consorti.
Pag. 31, v. 10. — Non fu veramente un angelo, sì i Parmensi medesimi che lo presero e non vollero ritenerlo dopo la battaglia di S. Cesario: «Et Mutinenses voluerunt carrocium Bononiensium tollere, et secum in Mutinam ducere, sed Parmenses non permiserunt... Et crediderunt Parmensibus Mutinenses... et dimiserunt illud in Plumatio». In quella battaglia manganelle fuerunt Bononiensibus violenter ablate. Vedi Salimbene, pag. 60 (ediz. cit). E i confederati di Modena, Parma, e Cremona, abbeverarono i cavalli nell’acque di Reno. Id. pag. 35 sgg.
Pag. 31, v. 16. — L’asino. Nel mese di settembre dell’anno stesso di Fossalta (maggio del 1249) Bononienses.... cum uno mangano projecerunt unum asinum vivum in Mutinam. Matth. de Griff., Mem. Hist., p. 12.
Pag. 31, v. 18. — Blancardo, Buira, come più su Berta e Bertazzola, sono nomi dimestici de’ carrocci. Berta era il carroccio de’ Padovani, Blancardo quello di Parma. Così Gaiardo (e anche Berta, come è nel Chron. Est., 45) quello di Cremona, Regolio quello più antico di Parma. Quanto all’ultimo accenno, si tratta d’un carroccio fatto dai Parmensi imperiali nel 1236. Vedi Chron. Parm., pag. 11.
Pag. 31, v. 22. — I Lombardi. Grande dissidio intorno alla compagnia de’ Lombardi, quando e perchè nascesse in Bologna, tra il conte Nerio Malvezzi, che la narrò in un garbato volumetto, e Augusto Gaudenzi, il grande maestro in tali argomenti. Devo dire? Io inchino alla sentenza di quest’ultimo; eppur confesso che mi fa molta forza il considerare come l’istituzione del Carroccio in Bologna fosse del 1173, come s’è notato, o prima, ossia durante la lotta col Barbarossa.
Pag. 35, v. 14. — È Ariberto arcivescovo che sommuove e collega i popolani delle campagne contro i vassalli minori, nel 1037-’39.
Pag. 36, v. 14. — È Lanzone, il capitano del popolo milanese contro i nobili, nel 1041 e segg.
Pag. 37, v. 5. — Milano distrutta a cominciare dal 26 marzo 1162.
Pag. 37, v. 8. — Giuramento nel monastero di Pontida, il 7 aprile 1167.
Pag. 37, v. 22. — L’arator selvaggio: il Barbarossa. Vedi sopra a pag. 13, v. 6. Che il Barbarossa facesse arare e seminar di sale Milano, cioè qualche luogo in essa città, a guisa di simbolo, non è inverosimile; certo fu detto e creduto: «trovando la città di Milano che gli s’era rubellata, si l’assediò, e per lungo assedio l’ebbe l’anno di Christo 1158 (67) del mese di marzo, e fecele disfare le mura, e ardere tutta la città, e arare e seminare di sale...» Vill., I. F., V, cap. 1. Il medesimo racconta fa stessa cosa di Arezzo per opera di Totila in I. 47. E così è affermato in Vita Witichindi di H. Meibomius (R. G. I., pag. 625) «propter rebellionem periura (urbs Mediolani), tyrannidem aliaque scelera a Germanici sanguinis Imperatore solo aequata aratrisque in agri speciem proscissa, non frugis, sed ad ludibrium salis semen accepit». Tacciono la circostanza di tal ludibrio i cronisti e storici milanesi. Essa è raccolta dal Tommaseo in Diz., IV. I 509, e, per non parlar d’altri, dal Carducci nell’ode per l’VIII agosto, vv. 46-47:
. . . . . . . . . .l’ira |
E siffatto rito d’esecrazione, come a condannare alla desolazione eterna di salso deserto il suolo d’una città, è ben antico! Vedi Liber Iudicum, cap. 9, (urbe destructa, ita ut sal in ea dispergeret), Hieronym. in Matth. cap. 5, Glossar. milit. di Carlo d’Aquino, e altri.
Pag. 38, v. 3. — Legnano! Il 29 di maggio, 1176
Pag. 38, v. 7. — Otto Morena in Hist. Laud. dice che il Barbarossa, non però a Legnano, si gettò contro il carroccio, dove era lo sforzo de’ pedoni, uccise i bovi, portò via la croce e il vessillo. Citato nella diss. cit. del Muratori in Ant. It.
Pag. 38, v. 20. — Alberto da Giussano, personaggio forse leggendario dell’epica battaglia. Chi non lo conosce dalla «Canzone di Legnano»?
Pag. 42, v. 8. — «sublimis est pertica sursum erecta cum pomo aereo deaurato, in qua inter alia insignia rubeum tentorium ponitur et vexillum longissimum, cum cruce alba, et desuper ramus olivae...». Così, del carroccio di Pavia, l’An., De laud. Papiae in R. I. S., XI.
Pag. 43, v. 4. — Il milliarium aureum.
Pag. 49, v. 3. — Sì: Bologna considerò il re Enzio, un po’ come Roma la lupa e Fiorenza il leone, quello che uscì dalla sua stia e prese tra le branche Orlanduccio (Vill., VI, 69). E Parma aveva la sua «leona». Chr. Parm., pag. 91.
Pag. 49, v. 7. — «Cum... serenitatis nostrae gremium abundet copia filiorum...». Parole di Federigo al comune di Modena: vedi in Frati, La prig., pag. 117.
Pag. 49, v. 8. — Era ben cosciente Federigo del suo sogno di rinnovare l’antico imperio! Nell’agostaro, per esempio, «improntato era il viso dello ’mperadore a modo di Cesari antichi, e dall’altro una aguglia...». Vill, VI. 21.
Pag. 49, v. 15 sgg — Vedi il Testamento del re prigione nell’Op. cit. di Lodovico Frati.
Pag. 53, v. 3. — Fu preso il 26 maggio 1249. Ora siamo all’8 ottobre del 1251.
Pag. 53, v. 14. — Queste e altre seguenti sono parole desunte dalle lettere di Federigo ai Bolognesi.
Pag. 55, v. 14. — Per il ferino corteo dell’imperatore, vedi, ad esempio, Salimbene, pag. 196 sg. Per l’elefante, Sigonio, De regn. Ital., XVII
Pag. 56, v. 18. — Come a Cortenuova.
Pag. 56, v. 19. — Già comincia il conte Currado a dar prova della sua societas intollerabilis et inepta, che lo fece poi, dopo dodici anni, rimuovere di lì. Stat. Comm. Bon., III, 490.
Pag. 59, v. I. — È verisimile, che Enzio nulla sapesse della morte (13 decembre 1250) del suo grande genitore, un anno presso a poco dopo, che ella era avvenuta? È, direi, più che probabile. Fra Salimbene insiste singolarmente su ciò che l’imperatore «non credebatur mortuus». Pag. 243. Dice, che Manfredi ne occultava la morte, per prevenire Corrado suo fratello, e così «multi crediderunt eum non esse mortuum, cum vere mortuus esset». Pag. 347. Narra d’un eremita che fu fatto passare per Federigo. Pag. 173. Infine, in quei medesimi giorni, Salimbene seppe l’avvenimento da Innocenzio in persona, a Ferrata: «firmiter nuntiatum est nobis»; e prima non lo credeva. Pag. 174.
Pag. 61, v. 9. — Il Mondo è questa Europa occidentale. Il Regno di Dio è l’Oriente.
Pag. 61, v. 23. — La profezia è in Salimbene, pag. 349: «In ipso quoque finietur imperium, quia, etsi successores sibi fuerint, imperiali tamen vocabulo ex romano fastigio privabuntur».
Pag. 62, v. 3. — Da Merlino.
Pag. 65, v. 9. — Fu Innocenzio IV che primo diede ai cardinali la veste rossa e la mazza d’argento.
Pag. 65, v. 16. — Il Mur. nella diss. 26ª, riporta dagli Statuti di Ferrara, tra le altre denominazioni di armi offensive e difensive, anche Tallavacium sive bonam Targetam.
Pag. 68, v. 5. — Vedi Savioli, III i, p. 246.
E così in lui è il racconto del Carroccio che va incontro al Papa trionfante. Come era uso. Per esempio narra il Griffoni (Mem. Hist., ad a. mcccxxvii), che incontro al cardinal legato Bertrando fu mandato il carroccio cum x militibus bononiensibus et ducentis bagurdatoribus noviter indutis ad unum intaglium. Così a Firenze incontro al cardinale Pelagrù andò il carroccio con armeggiatori. Vill., VI, 77, Comp., III, 85.