Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO III

SCENA I

Fessenio servo solo.

Ecco, o spettatori, le spoglie amorose. Chi cerca che se gli apicchi gentilezza, acume, accorgimento queste veste compri ed alquanto indosso le porti: perché di quel vago Calandro sono, tanto astuto che, d’un giovane innamorato, si crede che fanciulla sia; di quel che ha tanto della divinitá che muore e risuscita posta sua. Chi comprar le vuole dinari porga; che io, come cose d’omo giá passato di questa vita, vendere le posso. Prima si messe da morto nel forziero che arrivato fusse. Ah! ah! ah! Cosi Lidio galantemente da donna vestito aspetta con allegrezza questo vezzoso amante che, a dire il vero, è piú schifo che Bramante. Io son corso inanzi perché qua mi trovi la scanfarda che io ho ordinato per questo conto. Ed eccola che^^rie ne viene. E vedi anco lá, col forzieri, el facchino; el quale^p pensa portare preziosa mercanzia e non sa che ella è la piú vile che in questa terra sia. Nessuno vuol le veste? no? Addio, dunque, spettatori. Andrò a congiungere il castron con la troia. Restate in pace.

SCENA II

Meretrice, Fessenio, Facchino,

Sbirri di dogana, Calandro.

Meretrice. Eccomi, Fessenio. Andianne.

Fessenio. Lassa andare innanzi questo forziero nostro. Non di lá, no, facchino. Va’ pur dritto.

Meretrice. Che vi è drento? [p. 41 modifica]

Fessenio. Vi è, anima mia bella, robba da te.

Meretrice. Che?

Fessenio. Sete e panni.

Meretrice. Di chi sono?

Fessenio. Di colui con chi sguazzar dèi, viso bello.

Meretrice. Oh! e me ne dará qualche cosa?

Fessenio. Si, se farai ben quel che t’ho detto.

Meretrice. Lassa pur governallo a me.

Fessenio. Fa’ che, sopra tutto, tu ti ricordi, nota, di chiamarti Santilla e di tutte l’altre cose che io t’ho detto.

Meretrice. Non mancherò d’un pelo.

Fessenio. Altrimenti non aresti un baghero.

Meretrice. Tutto farò benissimo. Ma oh! oh! oh! Che voglian questi sbirri dal facchino?

Fessenio. Oimè! Salda, cheta! Ascolta.

Sbirri. Di’ su: che è qui drento?

Facchino. Mò che soie mi?

Sbirri. Sei stato in doana?

Facchino. Non mi.

Sbirri. Che c’è drento? Di’ sú.

Facchino. Non l’ho visto o verto mi.

Sbirri. Dillo, poltron!

Facchino. El me fu deccio che ’l ghera seda e pagni.

Sbirri. Sede?

Facchino. Madesine.

Sbirri. È chiavato?

Facchino. E’ crezo de no mi.

Sbirri. Le son perdute. Posa giú.

Facchino. Eh! no, misser.

Sbirri. Posa, poltroni Tu vorrai che io ti soni, si?

Fessenio. Oimè! oimè! Lava male. Spacciato è il fatto nostro; ogni cosa è guasta; tutto è scoperto; ruinati siamo.

Meretrice. Che cosa è?

Fessenio. Rotto è il disegno.

Meretrice. Parla, Fessenio: che c’è?

Fessenio. Aiutami, Sofilla. [p. 42 modifica]

Meretrice. Che vuoi?

Fessenio. Piangi, lamentati, grida, scapigliati. Cosí! sú!

Meretrice. Perché?

Fessenio. Presto lo sapermi.

Meretrice. Ecco. Oh! oh! oh! uha!

Sbirri. Oh! oh! oh! Questo è un morto.

Fessenio. Che fate? Olá! che cercate?

Sbirri. Il facchino ci disse esserci cosa da gabella e troviamo che c’è un morto.

Fessenio. Un morto è.

Sbirri. Chi è?

Fessenio. Il marito di questa poveretta. Non vedete come si dispera?

Sbirri. Perché cosí il portate nel forziero?

Fessenio. A dirvi il vero, per ingannare la brigata.

Sbirri. O perché?

Fessenio. Saremmo da ognuno scacciati.

Sbirri. La cagione?

Fessenio. È morto di peste.

Sbirri. Di peste? Oimè! Io che l’ho tócco!

Fessenio. Tuo danno.

Sbirri. E dove il portate?

Fessenio. A sotterrarlo in qualche fossa; o, cosí, il forziero e lui butteremo in un fiume.

Calandro. Ohu! chu! ohu! Ad annegarmi, ch? Io non son morto, no, ribaldi!

Fessenio. Oh! Ognun si fugge per paura. O Sofilla! facchino! O Sofílla! facchino! Sí! Va’ , giungeli tu! El diavol non gli faria voltare in qua. Va’, poi, impacciati con pazzi, tu! Va’!

SCENA III


Calandro, Fessenio.


Calandro. Ah poltron Fessenio! Mi volevi annegare, ch?

Fessenio. Eimè! Eh! padron, perché mi vuo’ battere?

Calandro. Domandi perché, tristo, ah? [p. 43 modifica]

Fessenio. Sí. Perché?

Calandro. Il meriti, sciagurato ribaldo!

Fessenio.

Miser chi del ben far sempre ha mal merto.

Adunque tu me offendi perché t’ho salvato?

Calandro. E che salvamento è questo?

Fessenio. Che, ah? Dissi a quel modo perché tu non fussi portato in doana.

Calandro. E che era, quando ben m’avessin portato lá?

Fessenio. Che era, ch? Tu meritavi che io vi t’avessi lassato portare; e arestilo veduto.

Calandro. Che domin era?

Fessenio. E’ par che ci nascessi pure oggi. Eri còlto in frodo; eri preso; e te ariano poi venduto come l’altre cose che son còlte in frodo.

Calandro. Maaa... Tu facesti molto bene, adonque. Perdonami, Fessenio.

Fessenio. Un’altra volta, aspetta il fine prima che ti corrucci. Mio danno, se io non te ne pago.

Calandro. Cosí farò. Ma dimmi: chi era quella, cosí brutta, che fuggiva via?

Fessenio. Chi era, ah? non la cognosci?

Calandro. No.

Fessenio. È la Morte che teco era nel forziero.

Calandro. Meco?

Fessenio. Teco, si.

Calandro. Oh! oh! Io non la vidi mai lá drento meco.

Fessenio. Oh buono! Tu non vedi anco il sonno, quando dormi; né la sete, quando bevi; né la fame, quando mangi. Ed anco, se tu vuoi dirmi il vero, or che tu vivi, tu non vedi la vita; e pure è teco.

Calandro. Certo, no, ch’io non la veggo.

Fessenio. Cosi non si vede la morte, quando si muore.

Calandro. Perché si è fuggito il facchino?

Fessenio. Per paura della morte: sí che temo che a Santilla oggi andar non potrai. [p. 44 modifica]

Calandro. Morto son se oggi con lei non sono.

Fessenio. Io non saprei in ciò che farmi: se giá tu non pigliasse un poco di fatica.

Calandro. Fessenio, per essere con lei farò ogni cosa, sino andare scalzo a letto.

Fessenio. Ah! ah! Scalzo a letto, ah? Questo è troppo. Non piaccia a Dio.

Calandro. Di’ pur sú.

Fessenio. Ti bisogna, in fine, esser facchino. Tu sei si travisato di abito e, per essere stato morto un pezzo, nel viso se’ si cambiato che non fia chi ti conosca. Io mi presenterò lá come legnaiuolo che fatto abbi il forziere Santilla comprenderá subito come il fatto sta, perché ella è piú savia che una sibilla. E insieme farete il bisogno.

Calandro. Oh! Tu hai ben pensato. Per amor suo porterei e’ cestoni.

Fessenio. Oh! oh! Grande ardire costui ha. Orsú! Piglia.

Alto! O diavol! Tu caschi. Sta’ forte. Ha’ lo bene?

Calandro. Benissimo.

Fessenio. Orsú! Va’ inanzi; fermati all’uscio: e io, cosi, di drieto a te ne vengo. Quanto sta bene questa bestia sotto la soma! Sciocco animalaccio! Intanto che io menerò, per l’uscio di drieto, quella scanfarda, bisognerá pure che Lidio si lassi baciar da costui. Ma, se gli baci sui li nano fastidiosi, li parranno poi piú suavi quelli di Fulvia. Ma ecco Samia. Non ha visto Calandro. Dirolli due parole. E la bestia stará tanto piú carica.

SCENA IV

Fessenio servo, Samia serva.

Fessenio. Onde vieni?

Samia. Da quel negromante a chi, per la strada di lá, ella poco fa mi mandò.

Fessenio. Che dic’egli?

Samia. Che presto verrá da lei. [p. 45 modifica]

Fessenio. Eh! ch! ch! Che son bubole? Io vo a trovar Lidio per obedire a quanto madonna mi commise dianzi.

Samia. È egli in casa?

Fessenio. Si.

Samia. Che credi di lui?

Fessenio. A dirlo a te, non bene. Pure non so.

Samia. Basta. Noi stiamo fresche!

Fessenio. Addio.

SCENA V

Samia serva, Fulvia.


Samia. Ti so dire che la va bene! che né da Lidio né dallo spirito porto cosa che buona sia. Questa è la volta che Fulvia si dispera. Vedila che appare su l’uscio.

Fulvia. Tu sei stata tanto a tornare!

Samia. Non ho, prima che or ora, trovato Ruffo.

Fulvia. Che dice?

Samia. Niente, pare a me.

Fulvia. Pure?

Samia. Che lo spirito gli ha risposto... Oh! come diss’egli? Non me ne ricordo.

Fulvia. Sia col malanno, cervel d’oca.

Samia. Oh! oh! oh! Io me ne ricordo. Dice che gli ha risposto anghibuo.

Fulvia. Ambiguo, vuoi dir tu.

Samia. A quel modo, sí.

Fulvia. Non dice altro?

Samia. Che di nuovo lo pregherrá.

Fulvia. Altro?

Samia. Che, volendo servirti, verrá a dirtelo subito.

Fulvia. Misera a me! che non ne sará nulla. Ma Lidio?

Samia. Fa quel conto di te che delle scarpe vecchie.»

Fulvia. Ha’ lo trovato?

Samia. E parlatoli. [p. 46 modifica]

Fulvia. Dimmi, dimmi: che c’è?

Samia. L’arai per male?

Fulvia. Oimè! che c’è? Di’ sú.

Samia. In fin, e’ par che non te cognoscessi mai.

Fulvia. Che mi di’ tu?

Samia. Cosi sta mò.

Fulvia. A che il comprendesti?

Samia. Mi rispose in modo che mi fe’ paura.

Fulvia. Forse finse burlare teco.

Samia. Non m’aria svillaneggiata.

Fulvia. Non sapesti forse dire.

Samia. Meglio non m’imponesti.

Fulvia. Era forse accompagnato.

Samia. Lo tirai da parte.

Fulvia. Forse parlasti troppo forte.

Samia. Quasi all’orecchio.

Fulvia. In fin, che ti disse?

Samia. Mi scacciò da sé.

Fulvia. Dunque, piú non mi ama?

Samia. Né te ama né ti stima.

Fulvia. Cosi credi?

Samia. Ne son certa.

Fulvia. Lassa me! che odo io?

Samia. Tu intendi.

Fulvia. E di me non ti domandò?

Samia. Anzi, disse non saper chi tu fussi.

Fulvia. Dunque, m’ha dismenticata?

Samia. Se non te odia pur, bene ne vai.

Fulvia. Ahi cieli avversi! Certo, or cognosco lui spietato e me misera. Ahi quanto è trista la fortuna della donna! e come è male appagato lo amore di molte nelli amanti! Ahi trista me! che troppo amai. Lassa! che ad altri tanto mi diedi che non sono piú mia. Deh, cieli! perché non fate che Lidio me ami come io lui amo? o che io fugga lui come esso me fugge? Ahi crudeli che chiedo io? Disamar e fuggir Lidio mio? Ah! certo, questo né far posso né voglio; anzi, penso io stessa trovarlo. [p. 47 modifica]E perché non mi è lecito da omo vestirmi una sol volta e trovar lui, come esso, da donna vestito, spesso è venuto a trovar me? Ragione voi è. Ed egli è ben tale che merita che questa e maggior cosa si faccia per lui. Perché far noi devo? perché non vo? perché perdo io la mia giovinezza? Non è dolor pari a quello de una donna che si trova aver perso la sua giovinezza in vano. Fresca sta chi crede, in vecchiezza, ristorarla. Quando tro verrò io uno amante cosí fatto? quando arò io tempo andarlo a trovare, come al presente, che egli è in casa e che il mio marito è di fuora? chi mei vieta? chi mi tiene? Certo, si farò, che ben mi accorsi che Ruffo interamente non si confidava disporre lo spirito per me. Li ministri non operano mai bene come colui a cui tocca; non eleggono il tempo commodo; non mostrano lo effetto de l’amante. Se io da lui vo, vedrá le mie lacrime, sentirá e’ mie’ lamenti, udirá e’ mie’ preghi. Or butteromegli ai piedi, or fingerò morire, or al collo le braccia li circunderò: e come sará mai si crudele che a pietá di me non si mova? Le parole amorose, per li orecchi dal core ricevute, hanno piú forza che stimar non si può e alli amanti quasi ogni cosa è possibile. Cosi spero; cosí far voglio. Or da omo a vestir mi vo. Tu, Samia, su l’uscio resta: né lassar fermarsici alcuno, acciò che io, a l’uscire di casa, cognosciuta non fusse. Tutto farò subito.

SCENA VI

Samia serva, Fulvia.

Samia. Oh povere e infelici donne! a quanto male siamo noi sottoposte quando ad Amore sottoposte siamo! Ecco, Fulvia, che giá tanto prudente era, ora, di costui accesa, non cognosce cosa che si faccia. Non possendo aver Lidio suo, a trovarlo va vestita da omo; sanza pensar quanti mali avvenir ne potriano, quando mai si sapesse. Forse ch’ella non è bene appagata? che ha dato a costui la robba, l’onore e le carne; ed esso tanto la stima quanto il fango. Ben semo noi tutte sventurate. Eccola che giá ne viene da omo vestita. Parti che l’abbia fatto presto? [p. 48 modifica]

Fulvia. Tu intendi. Vo a trovar Lidio, Tu resta qui; e tien l’uscio serrato, mentre che io vo e torno.

Samia. Cosí farò. Guarda come va!

SCENA VII

Fulvia sola.

Nulla è, certo, che Amore altri a fare non costringa. Io, che giá sanza compagnia a gran pena di camera uscita non sarei, or, da amor spinta, vestita da uomo fuor di casa me ne vo sola. Ma, se quella era timida servitú, questa è generosa liberta. A casa sua, benché alquanto discosto sia, me ne dirizzo, che ben so dove sta. E farò lá sentirmi, che far lo posso; perché altri non vi è che la sua vecchiarella e forse anche Fessenio, a’ quali tutto è noto. Nessuno mi conoscerá: onde questa cosa non si saprá giá mai; e, se pur si dovessi sapere, egli è meglio fare e pentirsi che starsi e pentirsi.

SCENA VIII

Samia sola.

Ella va a darsi piacere; e, dove io la biasimava, or la scuso e laudo perché chi amor non gusta non sa che cosa sia la dolcezza del mondo ed è una bella bestia. So ben io che altro ben non sento, se non quando mi trovo col mio amante Lusco spenditore. Semo in casa soli ed egli è qui nella corte. Meglio è che, cosí drento all’uscio serrato, ci sollazziamo insieme. La padrona m’insegna che anch’io mi dia bel tempo. Matto è chi non sa pigliare e’ piaceri quando può averli con ciò sia che il fastidio e la noia, sempre che altri ne vuole, sieno apparecchiati. Luuusco! [p. 49 modifica]

SCENA IX

Fessenio servo.

Non serrar. Olá! Non odi? Ma non importa. Ben mi fía aperto: che, or che Calandro è con la vaga scanfarda condotta da me per la via di lá, voglio ire a narrare il fatto a Fulvia che so ne creperá delle risa. Ed invero la cosa è tale che faria ridere li morti. Bei misteri do verranno essere li loro! Or vado a Fulvia.

SCENA X

Fessenio fuor de l’uscio.

Samia dentro.

Fessenio. Tic, toc; tic, toc. Sete sordi? Oh! oh! Tic, toc. Aprite. Oh! oh! Tic, toc. Non udite?

Samia. Chi picchia?

Fessenio. Fessenio tuo. Samia, apri.

Samia. Ora.

Fessenio. Perché non apri?

Samia. Io mi alzo per metter la chiave nella toppa.

Fessenio. Presto, se vuoi.

Samia. Non truovo il buco.

Fessenio. Or escine.

Samia. Eh! eh! eimè! non si può ancora.

Fessenio. Perché?

Samia. Il buco è pieno.

Fessenio. Soffia nella chiave.

Samia. Fo meglio.

Fessenio. Che?

Samia. Scuoto quant’io posso.

Fessenio. Che indugi?

Samia. Oh! oh! oh! Laudato sia il manico della vanga, Fessenio, che ho fatto el bisogno ed ho tutta unta la chiave perché meglio apri. [p. 50 modifica]

Fessenio. Or apri.

Samia. Fatto è. Non senti tu ch’io schiavo? Or entra a tuo piacere.

Fessenio. Che voglian dire tante serrature?

Samia. Fulvia ha voluto che oggi si chiavi l’uscio.

Fessenio. Perché?

Samia. A te può dirsi tutto. Vestita da omo, è ita a trovar Lidio.

Fessenio. Oh! Samia, che mi di’ tu?

Samia. Tu hai inteso. Io ho a stare coll’uscio serrato e aprire quando la viene. Vatti con Dio.

SCENA XI

Fessenio servo solo.

Or vedo bene esser vero che nessuna cosa è, quantunche grave e dubiosa, che far non ardisca chi ferventemente ama: come fa costei, la qual se n’è ita a casa di Lidio né sa che suo Ì marito lá si trova. Il quale, posto che male accorto sia, non potrá però fare che di lei mal non pensi, vedendola in quell’abito e in quel loco sola; e forse in modo se ne adirerá che a’ parenti di lei il fará noto. Voglio andar lá presto per vedere se, in alcun modo, a questo riparar potessi. Ma oh! oh! oh! Che cosa è questa? Oh! oh! oh! Fulvia che, oh! oh!, Calandro da prigion ne mena. Che domin è questo? Starommi cosí da parte per udire e vedere a che si riduce la cosa.

SCENA XII

Fulvia, Calandro.

Fulvia. Oh valente marito! Questa è la villa dove andar dicevi? A questo modo, ah? Non hai da far tanto a casa tua che tu vai sviandoti altrove? Misera me! A chi porto io tanto amore? e a chi tanta fede servo? Or so perché, le notti passate, [p. 51 modifica]non mi ti sei mai appressato: come quello che, avendo a scaricare le some altrove, volevi arrivare fresco cavalieri in battaglia. In fede mia, non so come io mi tengo che io non ti cavi gli occhi. E forse che non pensavi ascosamente farmi questo inganno? Ma, per mie’ fé, tanto sa altri quanto tu. E, a questa ora, in questo abito, d’altri non fidandomi, io propria son venuta per trovarti. E cosí ti meno, come tu sei de- ^ gno, sozzo cane, per svergognarti e perché ognuno prenda compassione di me che tanti oltraggi da te sopporto, ingrato! E pensi tu, dolente, se io rea femina fussi come tu reo omo sei, che modo mi mancasse da sollazzarmi con altro come tu con altra ti sollazzi? Non credere: perché io né si vecchia né si brutta sono che rifiutata fussi, se piú a me stessa che alla tua gaglioffezza rispetto non avessi avuto. Vivi sicuro che ben vendicata mi sarei contro a colei che a canto ti trovai. Ma va’ pur lá. Non abbia mai cosa che mi piaccia, se non te ne pago e di lei non mi vendico.

Calandro. Hai finito?

Fulvia. Si.

Calandro. Col mal anno, lassa che mi corrucci io, non tu, dispettosa! che m’hai cavato del paradiso mondano e toltomi ogni mio sollazzo. Fastidiosa! Tu non vali le scarpette vecchie sue, che la mi fa piú carezze e meglio mi bacia che tu non fai. Ella mi piace piú che la zuppa del vin dolce; e luce piú che la stella Diana; e ha piú magnificenzia che la Quintadecima; e è piú astuta che la fata Morgana. Si che tu non te l’aresti inghiottita, no, malvagia femina che tu sei! E se tu mai le fai male, trista a te!

Fulvia. Orsú! Non piú! In casa, in casa. Apri. Olá! Apri.

SCENA XIII

Fessenio servo solo.

O Fessenio, che è questo che tu veduto hai? O Amore, quanto è la potenzia tua! Qual poeta, qual dottore, qual filosofo potria mai mostrare quelli accorgimenti, quelle astuzie che fai tu a [p. 52 modifica]chi seguita la tua insegna? Ogni sapienzia, ogni dottrina di qualunche altro è tarda respetto alla tua. Qual altra, sanza amore, averia avuto tale accorgimento che di si gran periculo escita fusse come costei? Mai non vidi malizia simile. Ella se ferma in su l’uscio. Anderò da lei e le darò speranza di Lidio suo perché è d’avere ormai compassione della poveretta.

SCENA XIV

Fulvia, Fessenio servo, Samia serva.

Fulvia. Guarda, Fessenio mio, se io sgraziata sono! che, in loco di Lidio, trovai questa bestia di mio marito, col quale mi son però salvata.

Fessenio. Tutto ho visto. Tirati piú drento, che altri in questi panni non ti veda.

Fulvia. Ben ricordi. El gran disio d’esser con Lidio in modo mi accecò che piú oltre non pensai. Ma dimmi, Fessenio caro: hai trovato Lidio mio?

Fessenio. Corre il sangue ov’è la percossa. Ho.

Fulvia. Si?

Fessenio. Si.

Fulvia. Be’, Fessenio mio: che dice? Dimmi.

Fessenio. Non partirá cosí presto.

Fulvia. Doh Dio! Quando potrò io parlar seco?

Fessenio. Forse anche oggi; e, quando con Calandro ti vidi, a lui me ne andavo per disporlo a venire da te.

Fulvia. Fallo, Fessenio mio, che buon per te! E la vita mia te raccomando.

Fessenio. Farò tutto perché a te venga; e a lui ne vo. Resta in pace.

Fulvia. In pace, ch? In guerra e in lamenti resterò io. Tu alla pace mia vai, che a Lidio vai.

Fessenio. Addio.

Fulvia. Fessenio mio, torna presto.

Fessenio. Cosi farò. [p. 53 modifica]

Fulvia. Ahi infelice Fulvia! Se io cosí troppo sto, certo io me morirò! Misera! che far devo?

Samia. Forse lo spirito lo moverá.

Fulvia. Dch! Samia, poi che il negromante sta tanto a venire, torna a ritrovarlo.

Samia. Cosi mi pare; e non ci voglio perder tempo.

Fulvia. Raccomandagli questa cosa. E torna presto.

Samia. Subito che l’ho trovato.

SCENA XV

Samia serva, Ruffo negromante.

Samia. Oh! oh! oh! Gran ventura! Ecco Ruffo. Contentiti el cielo.

Ruffo. Che cerchi, Samia?

Samia. Consumasi di sapere quello che hai fatto della fac- ’cenda sua.

Ruffo. Credo si condurrá in porto.

Samia. E quando?

Ruffo. Verrò a dire a Fulvia il tutto.

Samia. Tu stai pur troppo a far questa cosa.

Ruffo. Samia, le son trame che non si fanno al gitto. Bisogna accozzare stelle, parole, acque, erbe, pietre e tante bazzicature che è forza che ci vada tempo.

Samia. Se voi il fate pur poi...

Ruffo. Ne ho ferma speranza.

Samia. Oh! oh! oh! Conosci tu l’amante?

Ruffo. Non certo.

Samia. È quel lá.

Ruffo. El conosci ben, tu?

Samia. Non è anco due ore che io gli parlai.

Ruffo. Che ti disse?

Samia. Mi si mostrò piú aspro che un tribulo. V Ruffo. Va’, parlali ora per vedere se lo spirito l’ha punto, raddolcito. [p. 54 modifica]

Samia. Ti pare?

Ruffo. Te ne prego.

Samia. A lui ne vo.

Ruffo. Olá! Tornatene poi per di lá a Fulvia; e io ne verrò subito a lei.

Samia. Fatto è.

Ruffo. Fin che costei parla a Lidio, mi starò qui apparato.

SCENA XVI

Fannio servo, Lidio femina, Samia serva.

Fannio. O Lidio, ecco in verso noi la serva di Fulvia. Nota che ha nome Samia. Rispondeli dolcemente.

Lidio femina. Cosi pensavo.

Samia. Sei tu piú turbato?

Lidio femina. No, Dio, no. Samia mia, perdonami, che in altro caso io ero occupato ed ero quasi fuor di me, tal ch’io non so quel che mi ti dissi. Ma dimmi: che è di Fulvia mia?

Samia. Vuo’ lo sapere?

Lidio femina. Non per altro te ne ricerco.

Samia. Domandane il cor tuo.

Lidio femina. Non posso.

Samia. Perché?

Lidio femina. O non sai che ’l cor mio è con lei?

Samia. Tanto faccia Iddio sani delle reni voi altri amatori quanto voi dite mai il vero. Dianzi non poteva costui sentire ricordarla; e or mi vuol far credere che altro bene non ha che lei. Come se io non sapessi che tu non l’ami e non vuoi venire dove la sia!

Lidio femina. Anzi, mi si strugge la vita infin che seco non mi trovo.

Samia. Alla croce di Dio, che lo spirito potria pure aver lavorato da buon senno. Tu verrai, dunque, come suoli?

Lidio femina. Che vuol dir «come suoli»?

Samia. Dico, in forma di donna. [p. 55 modifica]

Lidio femina. Bee’, si: come l’altre volte.

Samia. Oh che nuova porto io a Fulvia! Non voglio star piú teco. E tornerommene per la strada di dreto perché altri non mi veda, partendo da te, entrare in casa. Addio.

Lidio femina. Addio.

SCENA XVII

Lidio femina, Fannio servo, Ruffo negromante.

Lidio femina. Hai tu udito, Fannio?

Fannio. Si; e notato quel «come suoli». Certo, peraltro */ sei còlto in iscambio.

Lidio femina. Cosi è vero.

Fannio. Sará bene avvertirne Ruffo che a punto a noi torna.

Ruffo. Or be’, che vuoi fare?

Lidio femina. Ti par cosa da lassare?

Ruffo. Eh! ch! ch! L’amico si risente. E ne hai bene ragione, Lidio, che, per certo, l’è un sole.

Lidio femina. La conosco e so dove sta a punto.

Fannio. Se ne trarrá piacere.

Ruffo. Ed utile.

Fannio. Se io, Ruffo, ben le tuo’ parole notai, tu dicesti dianzi che, altro mezzo non giovandoli, ella al tuo ricorre: da che comprendo che ha tentato piú la pratica. A noi di ciò non fu mai parlato. Però è da creder che Lidio, qui, sie còlto in y iscambio per un altro, come oggi ha fatto la sua serva: per il che è necessario che tu, a cautela, dica a Fulvia, per parte dello spirto, che di cosa passata non parli mai piú; perché il fatto potria scoprirsi e gran scandalo riuscirne. Avvertisci bene.

Ruffo. Ben notasti; saviamente ricordi. Cosí farò. Orsú! Qui non è da dire altro. A’ fatti. Io a lei me ne vo; voi in ordin vi mettete.

Lidio femina. Va’ e torna, che in punto ci troverrai.

Fannio. Lidio, aviati. Io, or or, drieto a te ne vengo. Ruffo, duo parole. [p. 56 modifica]

Ruffo. Che c’è?

Fannio. Io ti dirò un secreto tanto a proposito di questa cosa quanto tu mai immaginar non potresti. Ma guarda che tu non lo dica, poi.

Ruffo. Non mi lassi avere Dio cosa che io brami, se io ne parlerò giá mai.

Fannio. Vedi, Ruffo, tu rovineresti me e leveresti a te l’utile che trarrai di questa pratica.

Ruffo. Non temer. Di’ sù.

Fannio. Sappi che Lidio mio padrone è ermafrodito.

Ruffo. E che importa questo merdafiorito?

Fannio. Ermafrodito, dico io. Diavoli tu se’ grosso!

Ruffo. Be’, che vuol dire?

Fannio. Tu noi sai?

Ruffo. Per ciò il dimando.

Fannio. Ermafroditi sono quelli che hanno l’uno e l’altro sesso.

Ruffo. Ed è Lidio uno di quelli?

Fannio. Si, dico.

Ruffo. Ed ha il sesso da donna e la radice d’uomo?

Fannio. Messer si.

Ruffo. Te giuro, alle guagnele, che mi è sempre parso che Lidio tuo abbia, nella voce e anco ne’ modi, un poco del feminile.

Fannio. E per quello sappi che, questa volta, userá con Fulvia solo il sesso feminile per ciò che, avendolo ella domandato in forma di donna, e donna trovandolo, dará tanta fede allo spirito che poi la te adorerá.

Ruffo. Questa è una delle piú belle trame che io sentissi mai. E ti so dire che e’ denari verranno a staia.

Fannio. Fatt’è. Come è liberale?

Ruffo. Liberale, dimandi? Gli amanti serran la borsa con la fronde del porro; perché i ducati, e’ panni, il bestiame, li offizi, le possessioni e la vita darieno coloro che aman come costei.

Fannio. Tutto mi consoli. [p. 57 modifica]

Ruffo. Consolato hai tu me con quel barbafiorito.

Fannio. Piacemi che tu noi sappi nominare perché, volendo, noi saprai poi ridire.

Ruffo. Or vattene a Lidio; e vestitevi. Io me ne vo a Fulvia e dirò che ara lo attento suo.

Fannio. Adunque, io sarò la serva.

Ruffo. Ben sai. Siate in ordine quando a voi tornerò.

Fannio. In un tratto. Ben feci a trovare i panni ancor per me.

SCENA XVIII

Ruffo negromante, Samia serva.

Ruffo. Sin qui la cosa va in modo che li cieli non me l’ariano potuta ordinar meglio. Se Samia è per di lá arrivata a casa, Fulvia deve aspettarmi. Mosterrolle lo spirito aver fatto tutto e che le bisogna, con questa immaginetta, dire alcune parole e far certe cose che li parranno tutte a proposito d’incantesimi. E ricorderolle che di cosa successa e seguita in questo amore suo e ch’io seco faccia, fuor che alla serva sua, con altri non ne parli. Farò tutto subito e fuor me ne tornerò. E vedi in su l’uscio comparsa Samia.

Samia. Entra presto, Ruffo, e va’ da Fulvia lá in quella camera terrena; perché, su di sopra, è Calandro pecora.

SCENA XIX

Samia serva, Fessenio servo.

Samia. Ove vai, Fessenio?

Fessenio. Alla padrona.

Samia. Non puoi ora parlarli.

Fessenio. Perché?

Samia. È col negromante.

Fessenio. Dch! lassami entrare.

Samia. In fine, non si può.

Fessenio. Son tutte bubole.

Samia. Bubole son le tua. [p. 58 modifica]

Fessenio. Sono un... presso ch’io non ti dissi. Or io darò una volta e tornerò a Fulvia.

Samia. Ben farai.

Fessenio. Se Fulvia sapesse quel ch’io so, non se cureria di spirti; perché Lidio brama piú d’esser con lei che essa non fa e oggi vuol trovarsi seco. E di mia bocca glie ne voglio dire io, perché so mi donerá qualche cosa. Però noi dissi a Samia.

Lassami partire di qui perché, vedendomi Fulvia, penseria che io fermo mi ci fussi per vedere il suo negromante; che esser deve quel che esce di casa.

SCENA XX

Ruffo negromante solo.

La cosa procede bene. Io spero ristorare le miserie mie e uscire di questi stracci perché la mi ha dati di buon denari. Non potrei piú bel giuoco avere alle mani. Costei è femina ricca e, per quel che io comprendo, piú innamorata che savia. Se io non me inganno, credo che trarrá ancor da maladetto senno; né io di minor ventura avevo bisogno. Vedi, vedi che pur li sogni, alle volte, son veri. Questo è la fagiana che, stanotte, sognai aver presa. Mi parea trarle molte penne della coda e porle sopra il cappel mio. S’ella se lasserá prendere, che mi pare ornai di si, io la spinnerò di maniera che bene ne staranno un pezzo i fatti miei. Per mie’ fé, che anche io mi saperrò dar buon tempo e vorrò del buono. Oh! oh! che ventura! Ma che donna è quella che mi accenna? Non la conosco. Lassami accostar piú a lei.

SCENA XXI

Ruffo negromante, Fannio servo vestito da donna.

Ruffo. Oh! oh! oh! Fannio, tanto te ha questo abito trasfigurato che non ti ricognoscevo.

Fannio. Non son io buona robba? [p. 59 modifica]

Ruffo. In ogni modo, si. Andate a contentar quella scontenta.

Fannio. Contenta so io ben che non fia, a questa volta.

Ruffo. Si, si, perché Lidio userá seco il sesso feminile.

Fannio. Messer si. Be’. Possemo andare? di’.

Ruffo. A posta vostra. Lidio è vestito?

Fannio. E’ mi aspetta qui presso; e sta tanto bene che non è persona che non lo pigliasse per donna.

Ruffo. Oh! oh! quanto mi piace! Fulvia vi aspetta. Va’, trova Lidio e da lei ve n’andate. Io de qui intorno non mi partirò, per intendere poi a che fine se arreca la cosa. Oh! oh! oh! Ella è, vedi, giá in su l’uscio. Ben ha presto fatto quanto li dissi.

SCENA XXII

Fessenio servo, Fulvia.

Fessenio. Or sei tu fuor di passion, madonna mia.

Fulvia. Come?

Fessenio. Lidio è per te in maggior fiamma che tu per lui. Non prima gli dissi quanto me imponesti che in ordine si misse; e a te ne viene.

Fulvia. Fessenio mio, questa è nuova da altro che da calze; e certo ben ti ristorerò. Odi, di sopra, che Calandro domanda i panni per uscir fuori. Tira via, che meco non te veda. Oh che commoditá ! oh che piacere mi fa! Ogni cosa comincia andarmi prospera. Lassami spingere fuora questo uccellaccio acciò che io libera resti.

Fessenio. Ti so dir che questi amanti ristoreranno il tempo perso. E, se Lidio fia savio, doverrá ben fermarla alla cosa di sua sorella, se mai si ritrovassi. Calandro non sará in casa. Hanno viso per grande spazio sollazzarsi insieme. Io posso andarmi a spasso. Ma oh! oh! oh! Vedi Calandro che vien fuora. Lassami discostar di qui perché, fermandosi a parlare qui meco, potria veder Lidio che ornai deve arrivare. [p. 60 modifica]

SCENA XXIII

Calandro, Lidio maschio, Lidio femina.

Calandro. Oh felice giorno per me! che non ho prima el pie fuor de l’uscio che vedo apparire il mio galante sole e verso me venire. Ma, oimè! Che saluto gli darò io? Dirò «buon di»? Non è da mattina. «Buona sera»? Non è tardi. «Dio t’aiuti»? Saluto da vetturali. Dirò «anima mia bella»? Non è saluto. «Cor del corpo mio»? Detto da barbieri. «Viso de angioletta»? Par da mercante. «Spirito divino»? Non è bevitrice. «Occhi ladri»? Mal vocabulo. Oimè! la m’è giá adosso. Anima... cor... vis... spi... och... Cancher ti venga! Oh castron che io sono! Avevo fallito. E ben ho fatto a bastemiar quella perché questa qua è Santilla mia, non quella. Buon di... volsi dir, buona sera. In fede mia, la non è dessa: m’ingannavo. La è questa qui. Mai non è. Ella è pur quella: lassami ire da lei. Anzi, è pur questa. Parole! Ell’è quella. Or questa è la vita mia. Anzi, è pur quell’altra. Anderò da lei.

Lidio maschio. Pillerá! Questo matto mi stima donna; e è di me innamorato; e mi verrá dreto fino a casa sua. Torniamo pur a casa nostra. Spoglierommi e, piú al tardi, torneremo da Fulvia.

Calandro. Eimè! Lei non è dessa. Infin, l’è quella che è andata lá per la strada. Meglio è trovarla.

Lidio femina. Or che questa bestia non può vederci, entriamo in casa presto. E vedi lá, drento all’uscio, Fulvia che ci accenna. Drento, su!