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atto terzo | 43 |
Fessenio. Sí. Perché?
Calandro. Il meriti, sciagurato ribaldo!
Fessenio.
Miser chi del ben far sempre ha mal merto.
Adunque tu me offendi perché t’ho salvato?
Calandro. E che salvamento è questo?
Fessenio. Che, ah? Dissi a quel modo perché tu non fussi portato in doana.
Calandro. E che era, quando ben m’avessin portato lá?
Fessenio. Che era, ch? Tu meritavi che io vi t’avessi lassato portare; e arestilo veduto.
Calandro. Che domin era?
Fessenio. E’ par che ci nascessi pure oggi. Eri còlto in frodo; eri preso; e te ariano poi venduto come l’altre cose che son còlte in frodo.
Calandro. Maaa... Tu facesti molto bene, adonque. Perdonami, Fessenio.
Fessenio. Un’altra volta, aspetta il fine prima che ti corrucci. Mio danno, se io non te ne pago.
Calandro. Cosí farò. Ma dimmi: chi era quella, cosí brutta, che fuggiva via?
Fessenio. Chi era, ah? non la cognosci?
Calandro. No.
Fessenio. È la Morte che teco era nel forziero.
Calandro. Meco?
Fessenio. Teco, si.
Calandro. Oh! oh! Io non la vidi mai lá drento meco.
Fessenio. Oh buono! Tu non vedi anco il sonno, quando dormi; né la sete, quando bevi; né la fame, quando mangi. Ed anco, se tu vuoi dirmi il vero, or che tu vivi, tu non vedi la vita; e pure è teco.
Calandro. Certo, no, ch’io non la veggo.
Fessenio. Cosi non si vede la morte, quando si muore.
Calandro. Perché si è fuggito il facchino?
Fessenio. Per paura della morte: sí che temo che a Santilla oggi andar non potrai.