La Calandria/Atto II
Questo testo è incompleto. |
◄ | Atto I | Atto III | ► |
ATTO II
SCENA I
Lidio femina, Fannio servo e la Nutrice.
Lidio femina. Assai è manifesto quanto sia miglior la fortuna degli uomini che quella delle donne. Ed io piú che l’altre l’ho per prova cognosciuto: per ciò che, da quel giorno in qua che Modon nostra patria fu arsa da’ turchi, avendo sempre io vestito da maschio e Lidio chiamatomi (che cosí nome avea el mio suavissimo fratello), credendosi sempre ognun che io maschio sia, ho trovato venture tali che ben ne son stati li fatti nostri; ove che, se io nel vestire e nel nome mi fussi mostro essere donna, come sono in fatto, né il turco di cui eravamo schiavi ce aria venduti né forse Penilo riscossici, se saputo avesse che io femina fusse, onde in miserabil servitú sempre ci conveniva stare. Ed io or vi dico che, quando fussi maschio come son femina, sempre in tranquillo stato ci viveremmo: per ciò che, credendosi Perillo, come sapete, che io maschio sia, e fidelissimo nelli affari suoi avendomi trovato sempre, me ama tanto che vuol darmi per moglie Verginia unica figliuola sua e di tutti gli beni suoi farla erede. E, dicendomi el nipote che Perillo vuol, doman o l’altro, io la sposi, per conferire la cosa con voi, mia nutrice, e teco, Fannio mio servo, fuora di casa me ne sono venuta; e piena di tanto travaglio quanto io ben sento e voi pensar potete. E non so se...
Fannio. Taci, oimè! taci; a fin che costei, che afflitta verso noi viene, non attinga quel che parliamo.
SCENA II
Samia serva, Lidio femina, Fannio.
Samia. Te so dir che l’ha ne l’ossa! Dice aver visto Lidio suo dalle finestre e mandami a favellarli. Tirandol da parte, li parlerò. Bona vita, messer.
Lidio femina. Ben venga.
Samia. Due parole.
Lidio femina. Chi sei tu?
Samia. Mi domandi chi sono?
Lidio femina. Cerco quel ch’io non so.
Samia. El sapermi ora.
Lidio femina. Che vuoi?
Samia. La padrona mia ti prega che tu voglia amarla come lei fa te e, quando ti piaccia, venire da lei.
Lidio femina. Non intendo. Chi è la padrona tua?
Samia. Eh! Lidio, tu vuoi straziarmi, si?
Lidio femina. Straziar vuoi tu me.
Samia. Laudato sia Dio poi che tu non sai chi è Fulvia né me conosci. Orsú! su! Che vuo’ tu che io le dica?
Lidio femina. Buona donna, se altro non mi di’, altro non te rispondo.
Samia. Fingi non intendere, ch?
Lidio femina. Io non te intendo né ti conosco e manco d’intenderti e conoscerti mi curo. Va’ in pace.
Samia. Discretamente fai, certo. Alla croce di Dio, che io glie ne dirò bene.
Lidio femina. Dilli ciò che tu vuoi, pur che dinanzi mi ti levi in la tua mal ’ora e sua.
Samia. Va’ pur lá. Ci starai se crepassi, greco taccagno, che la mi manda al negromante. Ma, se cosí risponde lo spirito, trionfa Fulvia.
Lidio femina. Misera e trista la fortuna di noi donne! E queste cose inanzi mi si parano perché io tanto piú cognosca e pianga il danno del mio esser donna.
Fannio. Io arei pure voluto intendere il tutto da costei; ché nocer non potea.
Lidio femina. La cura piú grave tutte l’altre scaccia. Pur, se piú mi parlasse, piú grato me le mostrerrei.
Fannio. Io cognosco costei.
Lidio femina. Chi è?
Fannio. Samia serva di Fulvia gentildonna romana.
Lidio femina. Oh! oh! oh! Anch’io la cognosco, ora. Pazienzia! Ella ben nominò Fulvia.
SCENA III
Lidio femina, Fannio servo, Ruffo negromante.
Ruffo. Oh! oh! oh!
Lidio femina. Che voce è quella?
Ruffo. Vi sono andato cercando un pezzo.
Fannio. Addio, Ruffo. Che c’è?
Ruffo. Buono.
Fannio. Che?
Ruffo. Or lo saperrete.
Lidio femina. Aspetta, Ruffo. Odi, Tiresia. A casa te ne va’ e vedi quel che fa Perillo nostro padrone circa al fatto di queste nozze mie; e, quando verrá lá Fannio, mandami per lui a raguagliare quello che vi si fa perché intendo oggi non lassarmi trovare per vedere se in me verificar si potesse quel che il vulgo dice: «Chi ha tempo ha vita». Va’ via. Or di’ tu, Ruffo, quel buon che ci porti.
Ruffo. Benché novellamente vi cognoschi, pur molto vi amo, sendo tutti d’un paese; e li cieli occasion ce dánno che insieme ce intendiamo.
Lidio femina. Certo, da noi amato sei e teco sempre ce intenderemo volentieri. Ma che ce di’ tu?
Ruffo. Dirò brevemente. Udite. Una donna, di te, Lidio, innamorata, cerca che tu suo sia come ella è tua e dice che, non giovandoli altro mezzo, al mio ricorre. E la causa per che essa de l’opera mia mi richiede è perché, buttando de figure e punti e avendo pure ben la chiromanzia, tra le _donne, che credule sono, ho fama d’essere un nobil negromante; e tengan per certo che io abbia uno spirito col quale elle s’avvisano che io faccia e disfaccia ciò che voglio. Il che io volentieri consento per ciò che spesso grandissimo utile e talor di belli piaceri con queste semplicette ne traggo: come si fará ora con costei, se savio sarai; però ch’ella vuole che io ti costringa andar da lei ed io, pensando reco intendermi, glie n’ho data qualche speranza. Se tu or vorrai, ricchi insieme diventeremo e tu di lei diletto trar potrai.
Lidio femina. Ruffo, in queste cose assai fraude intendo si fanno ed io, inesperto, facilmente potria esserci gabbato. Ma, fidandomi di te che sei il mezzano, non me ne discosterò allora che delibererò di farlo. Ci penseremo Fannio ed io. Ma dimmi: chi è costei?
Ruffo. Una detta Fulvia, ricca, nobile e bella.
Fannio. Oh! oh! oh! La padrona di colei che or ora ti parlò.
Lidio femina. Vero dici.
Ruffo. Come! La serva sua t’ha parlato?
Lidio femina. Or ora.
Ruffo. E che le rispondesti?
Lidio femina. Me la levai dinanzi con villane parole.
Ruffo. Non fu fuor di proposito. Ma, se piú ti parla, mostratele piú piacevole, se alla cosa attender vorremo.
Lidio femina. Cosi si fará.
Fannio. Dimmi, Ruffo: quando aria Lidio ad esser con lei?
Ruffo. Quanto piú presto, meglio.
Fannio. A che ora?
Ruffo. Di giorno.
Lidio femina. Oh! io saria visto.
Ruffo. Vero. Ma la vole che lo spirito ti costringa andarvi in forma di donna.
Fannio. E che vuol far di lui, se la pensa lo spirito lo converta in donna?
Ruffo. Penso volessi dire in abito, non in forma di donna. Pur ella cosí disse.
Lidio femina. È bella trama: hai tu notato, Fannio?
Fannio. Benissimo. E piacemi assai.
Ruffo. Be’, volete darli effetto?
Lidio femina. Da qua ad un poco te ne diremo l’animo nostro.
Ruffo. Ove ci troverremo?
Fannio. Qui.
Lidio femina. E chi prima arriva l’altro aspetti.
Ruffo. Ben di’. Addio.
SCENA IV
Fannio servo, Lidio femina.
Fannio. Li cieli ci porgono occasione conforme al pensier tuo di non te lassare trovare oggi, con ciò sia che, andando tu da costei, love non ti troverrebbe. Ed oltra di questo, scoprendola tu puttana, spesso da lei beccherai danari per pagarti il silenzio tuo a non parlarne. Oltra questo, è cosa da crepar delle risa. Tu donna sei; ella in forma di donna te adomanda; da lei anderai. Al provar quel che cerca, troverrá quel che non vuole.
Lidio femina. Vogliam farlo?
Fannio. Per altro noi dico.
Lidio femina. Be’. Va’ a casa, intendi quel che vi si fa e trova li panni per vestirci. E me tro verrai nella bottega di Franzino e risolveremo Ruffo al si.
Fannio. Levati ancor tu di qui, perché colui che lá appare essere potria uno che Perillo mandasse per te.
Lidio femina. Non è de’ nostri. Pur tu hai ben detto.
SCENA V
Fessenio servo, Fulvia.
Fessenio. Voglio andare un poco da Fulvia, che comparita su l’uscio la vedo, e mostrarle che Lidio vuol partirsi per vedere come se ne risente.
Fulvia. Ben venga, Fessenio caro. Dimmi: che è di Lidio mio?
Fessenio. Non mi pare quel desso.
Fulvia. Eimè! Di’ su: che ha?
Fessenio. Sta pure in fantasia di partirsi per cercare Santina sua sorella.
Fulvia. Eh lassa a me! Vuol partirsi?
Fessenio. Ve è vòlto, in fine.
Fulvia. Fessenio mio, se tu vuoi l’util tuo, se tu ami il ben di Lidio, se tu stimi la salute mia, trovalo, persuadilo, pregalo, stringilo, suplicalo che per questo non si parta, perché io farò per tutta Italia cercar di lei; e, se avvien che si ritrovi, da mò, Fessenio mio, come t’ho detto altre fiate, li do la fede mia che io la darò per moglie a Flaminio mio unico figliuolo.
Fessenio. Vuoi che cosí gli prometta?
Fulvia. Cosi ti giuro e cosí mi obligo.
Fessenio. Son certo che volentieri l’udirá perché è cosa da piacergli.
Fulvia. Spacciata sono, se tu con lui non mi aiuti. Pregalo che salvi questa vita che è sua.
Fessenio. Farò quanto mi commetti; e per servirti vo a trovarlo a casa ove ora si trova.
Fulvia. Non men farai per te, Fessenio mio, che per me. Addio.
Fessenio. Costei sta come pò; e, per Dio, ormai è d’aver compassione di lei. Fia bene che Lidio oggi, da donna vestito, come suole, venga da lei. E cosí fará perché non meno lo desidera che costei. Ma far prima bisogna la cosa di Calandro. Ed eccolo che giá torna. Dirogli avere ultimato il fatto suo.
SCENA VI
Fessenio servo, Calandro.
Fessenio. Salve, padron, che ben salvo sei da che la salute ti porto. Dammi la mano.
Calandro. La mano e i piedi.
Fessenio. Parti che i pronti detti gli sdrucciolino di bocca?
Calandro. Che c’è?
Fessenio. Che, ah? El mondo è tuo; felice sei.
Calandro. Che mi porti?
Fessenio. Santilla tua ti porto, che piú te ama che tu non ami lei e di esser teco piú brama che tu non brami; perché gli ho detto quanto tu se’ liberale, bello e savio. Uh! uh! uh! Tal che la vuol, in fine, ciò che tu vuoi. Odi, padrone. Ella non senti prima nominarti che io la viddi tutta accesa de l’amor tuo. Or sarai ben, tu, felice.
Calandro. Tu di’ il vero. E’ mi par mille anni succiar quelle labra vermigliuzze e quelle gote vino e ricotta.
Fessenio. Buono! Volse dir sangue e latte.
Calandro. Ahi, Fessenio! Imperator ti faccio.
Fessenio. Con che grazia l’amico accatta grazia!
Calandro. Or andianne da lei.
Fessenio. Come da lei? E che? pensi tu ch’ella sia di bordello? Andar vi ti bisogna con ordine.
Calandro. E come vi si anderá?
Fessenio. Coi piedi.
Calandro. So bene. Ma dico: in che’ modo?
Fessenio. Hai a sapere che, se tu palesemente vi andasse, saresti visto. E però sono rimasto con lei, perché tu scoperto non sia e perché ella vituperata non resti, che tu in un forziero entri e, portato in camera sua, insieme quel piacere prendiate che vorrete tutti a due.
Calandro. Vedi che io non v’andrò coi piedi come dicevi.
Fessenio. Ah! ah! ah! accorto amante! Tu di’ il vero, in fine.
Calandro. Non durerò fatica, non è vero, Fessenio?
Fessenio. Non, moccicon mio, no.
Calandro. Dimmi: il forziero sará si grande che io possa entrarvi tutto?
Fessenio. Mò che importa questo? Se non vi entrerai intero, ti farem di pezzi.
Calandro. Come di pezzi?
Fessenio. Di pezzi, si!
Calandro. Oh! come?
Fessenio. Benissimo.
Calandro. Di’.
Fessenio. Noi sai?
Calandro. Non, per questa croce.
Fessenio. Se tu avesse navigato, il saperresti: perché aresti visto spesso che, volendo mettere in una piccola barca le centinara delle persone, non vi enterriano se non si scommettesse chi le mani, a chi le braccia e a chi le gambe secondo il bisogno; e, cosí stivate, come l’altre mercanzie, a suolo a suolo, si acconciano si che tengano poco loco.
Calandro. E poi?
Fessenio. Poi, arrivati in porto, chi vuol si piglia e rinchiava il membro suo. E spesso anco avviene che, per inavvertenzia o per malizia, l’uno piglia el membro dell’altro e sei mette ove piú gli piace; e talvolta non gli torna bene perché toglie un membro piú grosso che non gli bisogna o una gamba piú corta della sua, onde ne diventa poi zoppo o sproporzionato, intendi?
Calandro. Si, certo. In buona fé, mi guarderò bene io che non mi sia nel forziero scambiato il membro mio.
Fessenio. Se tu a te medesimo non lo scambi, altro certo non te lo scambierá, andando tu solo in nel forziero: nel quale quando tu intero non cappia, dico che, come quelli che vanno in nave, ti potremo scommettere almen le gambe; con ciò sia che, avendo tu ad essere portato, tu non hai adoprarle.
Calandro. E dove si scommette l’omo?
Fessenio. In tutti e’ luoghi ove tu vedi svolgersi: come qui, qui, qui, qui... Vuo’ lo sapere?
Calandro. Te ne prego.
Fessenio. Tel mosterrò in un tratto, perché è facil cosa e si fa con un poco d’incanto. Dirai come dico io; ma in voce summissa, per ciò che, come tu punto gridasse, tutto si guasteria.
Calandro. Non dubitare.
Fessenio. Proviamo, per ora, alla mano. Da’ qua. E di’ cosi: Ambracullac.
Calandro. Anculabrac.
Fessenio. Tu hai fallito. Di’ cosi: Ambracullac.
Calandro. Alabracuc.
Fessenio. Peggio! Ambracullac.
Calandro. Alucambrac.
Fessenio. Oimè! oimè! Or di’ cosi: Am...
Calandro. Am...
Fessenio. ... bra...
Calandro. ... bra..
Fessenio. ... cul...
Calandro. ... cul..
Fessenio. .. lac...
Calandro. ... lac...
Fessenio. Bu...
Calandro. Bu...
Fessenio. ... fo...
Calandro. ...fo...
Fessenio. ...la...
Calandro. ...la...
Fessenio. ... ccio...
Calandro. ... ccio.
Fessenio. ... or...
Calandro. ... or...
Fessenio. ... te la...
Caland.ro. ... te la...
Fessenio. ... do.
Calandro. Oh! oh! oh! ohi! ohi! oimè!
Fessenio. Tu guasteresti il mondo. Oh che maladetta sia tanta smemorataggine e si poca pazienzia! Ma, potta del cielo, non ti dissi pure ora che tu non dovevi gridare? Hai guasto lo ’ncanto.
Calandro. El braccio hai tu guasto a me.
Fessenio. Non ti puoi piú scommetter, sai?
Calandro. Come farò, dunque?
Fessenio. Torrò, in fine, forziero si grande che vi entrerai intero.
Calandro. Oh! cosí si. Va’ e trovalo in modo che io non mi abbia a scommettere, per l’amor di Dio! perché questo braccio m’amazza.
Fessenio. Cosi farò in un tratto.
Calandro. Io anderò in mercato, e tornerò qui subito.
Fessenio. Ben di’. Addio. Sará or ben ch’i’ trovi Lidio e seco ordini questa cosa della quale ci fia da ridere tutto questo anno. Or vo via sanza parlare altrimenti a Samia che lá su l’uscio veggo borbottare da sé.
SCENA VII
Samia serva, Fulvia.
Samia. Come va il mondo! Non è ancora un mese passato che Lidio, della mia padrona ardendo, voleva ad ogni ora esser seco; e poi che vidde lei bene accesa di lui, la stima quanto il fango. E, se a questa cosa remedio non si pone, certo Fulvia ci fará drento error di sorte che tutta la cittá ne sará piena. E ho fantasia che li fratelli di Calandro, fin da mò, alcuna cosa non abbino spiato, perché altro non stima, altro non pensa e d’altro non ragiona che di Lidio. Bene è vero che chi ha amore in seno sempre ha li sproni al fianco. Or voglia il cielo che a bene ne esca.
Fulvia. Samia! Samia Odila che di sopra mi chiama. Ara dalle finestre visto Lidio, che lá lo vedo parlare con non so chi. O forse vorrá rimandarmi a Ruffo.
Fulvia. Saaamia!
Samia. Veeengo.
SCENA VIII
Lidio femina, Fannio servo.
Lidio femina. Cosi t’ha detto Tiresia?
Fannio. Si.
Lidio femina. E del parentado mio come di cosa conclusa si parla in casa?
Fannio. Così sta.
Lidio femina. E Virginia ne è lieta?
Fannio. Non cape in sé.
Lidio femina. E si preparano le nozze?
Fannio. Tutta la casa è in faccende.
Lidio femina. E credeno che io ne sia contenta?
Fannio. Lo tengano per fermo.
Lidio femina. Oh infelice Santilla! Quel che ad altri giova solo a me nuoce. Le amorevolezze di Perillo e della moglie verso me mi sono acutissimi strali per non poter fare el desiderio loro né quel che sarebbe il ben mio. Dch! me avesse Dio dato per luce tenebre, per vita morte e per cuna sepultura allor che io del materno ventre uscii; da che, in quel punto che io nacqui, morir dovea la ventura mia. Oh sanza fin beato, fratello dulcissimo, se, come io credo, nella patria morto restasti! Or che farò io, meschina Santilla? che cosí omai chiamar mi posso, e non piú Lidio. Femina sono, e conviemmi esser marito! Se io sposo costei, subito cognoscerá che io femina e non maschio sono; e, da me scornati, el padre e la madre e la figlia porriano farmi uccidere. Negar di sposarla non posso; e, se pur niego di farlo, sdegnati, a casa maladetta me ne manderanno. Se paleso esser femina, io medesima a me stessa fo il danno. Tener cosí la cosa piú non posso. Misera a me! che, da uno lato, ho il precipizio; da l’altro, e’ lupi.
Fannio. Non te disperare, che forse e’ cieli non te abbandoneranno. A me par che si segua el parer tuo di non te lassar trovare oggi da Perillo; e lo andare da colei viene a proposito; y e io li panni da donna, per vestirti, ho in ordine. Chi scampa d’un punto ne schiva mille.
Lidio femina. Ogni cosa farò. Ma dove è quel Ruffo?
Fannio. Rimanemo che chi prima arrivava l’altro aspettassi.
Lidio femina. Meglio è che Ruffo aspetti noi. Leviamoci di qui, perché colui che è lá non ci veda, se fusse alcuno che per ordine di Perillo me cercasse: se ben de’ sua non mi pare.
SCENA IX
Fessenio servo, Calandro.
Fessenio. Non potria meglio esser ordinata la cosa. Lidio da donna si veste e in la sua camera terrena Calandro aspetta e da fanciulla galantissima se gli mosterrá. Poi, al far quella novella, chiuse le finestre, una scanfarda a canto se gli metterá: attento che di si grossa pasta è il gocciolone che l’asino dal rosignolo non discerneria. Vedilo che ne viene tutto allegro. Contentiti el ciel, padrone.
Calandro. E te, Fessenio mio. È in ordine il forzieri?
Fessenio. Tutto. E vi starai drento sanza snodarti pure un capello, pur che bene vi ti acconci drento.
Calandro. Meglio del mondo! Ma dimmi una cosa ch’io non so.
Fessenio. Che?
Calandro. Arò io a stare nel forziero desto o adormentato?
Fessenio. Oh salatissimo quesito! Come desto o adormentato? Ma non sai tu che in su’ cavalli si sta desto, nelle strade si camina, alla tavola si mangia, nelle panche si siede, ne’ lettisi dorme e ne’ forzieri si muore?
Calandro. Come si muore?
Fessenio. Si muore, si. Perché?
Calandro. Cagna! L’è mala cosa.
P’essenio. Moristi tu mai?
Calandro. Non, ch’io sappia.
Fessenio. Come sai, adonque, che l’è mala cosa, se tu mai non moristi?
Calandro. E tu se’ mai morto?
Fessenio. Oh! oh! oh! oh! Mille millanta, che tutta notte canta.
Calandro. È gran pena?
Fessenio. Come el dormire.
Calandro. Ho a morir, io?
Fessenio. Si, andando nel forziere Calandro. E chi morirá me?
Fessenio. Ti morirai da te stesso.
Calandro. E come si fa a morire?
Fessenio. El morire è una favola. Poi che noi sai, son contento a dirti el modo.
Calandro. Dch si! Di’ sú.
Fessenio. Si chiude gli occhi; si tiene le mani cortese; si torce le braccia; stassi fermo fermo, cheto cheto; non si vede, non si sente cosa che altri si faccia o ti dica.
Calandro. Intendo. Ma il fatto sta come si fa poi a rivivere.
Fessenio. Questo è bene uno de’ piú profondi secreti che abbi tutto il mondo e quasi nessuno il sa. E sia certo che ad altri noi direi giá mai; ma a te son contento dirlo. Ma vedi, per tua fé, Calandro mio, che ad altra persona del mondo tu non lo palesi mai.
Calandro. Io te giuro che io non lo dirò ad alcuno; ed anche, se tu vuoi, non lo dirò a me stesso.
Fessenio. Ah! ah! A te stesso sono io ben contento che tu ’l dica; ma solo ad uno orecchio, a l’altro non giá.
Calandro. Or insegnamelo.
Fessenio. Tu sai, Calandro, che altra differenzia non è dal vivo al morto se none in quanto che il morto non se move mai e il vivo si. E però, quando tu faccia come io ti dirò, sempre risusciterai.
Calandro. Di’ su.
Fessenio. Col viso tutto alzato al cielo si sputa in sii; poi con tutta la persona si dá una scossa, cosi; poi s’apre gli occhi, si parla e si muove i membri. Allor la Morte si va con Dio e l’omo ritorna vivo. E sta’ sicuro, Calandro mio, che chi fa questo non è mai, mai morto. Or puoi tu ben dire d’avere cosí bel secreto quanto sia in tutto l’universo ed in Maremma.
Calandro. Certo, io l’ho ben caro. Ed or saprò morire e rivivere a mie’ posta.
Fessenio. Madesi, padron buaccio.
Calandro. E tutto farò benissimo.
Fessenio. Credolo.
Calandro. Vuo’ tu, per veder se io so ben far, ch’i’ provi un poco?
Fessenio. Ah! ah! Non sará male; nia guarda a farlo bene.
Calandro. Tu ’l vedrai. Or guarda. Eccomi.
Fessenio. Torci la bocca. Piú ancora; torci bene; per l’altro verso; piú basso. Oh! oh! Or muori a posta tua. Oh! Bene.
Che cosa è a far con savi! Chi aria mai imparato a morir si bene come ha fatto questo valente omo? El quale more di fuora eccellentemente.
Se cosí bene di drento more, non sentirá cosa che io gli faccia; e cognoscerollo a questo. Zas! Bene. Zas! Benissimo.
Zas! Optime. Calandro! o Calandro! Calandro!
Calandro. Io son morto, i’ son morto.
Fessenio. Diventa vivo, diventa vivo. Su! su! che, alla fé, tu muori galantemente. Sputa in su.
Calandro. Oh! oh! uh! oh! oh! uh! uh! Certo, gran male hai fatto a rinvi vermi.
Fessenio. Perché?
Calandro. Cominciavo a vedere l’altro mondo di lá.
Fessenio. Tu lo vedrai bene a tuo agio nel forziero.
Calandro. Mi par mill’anni.
Fessenio. Orsú! Poi che tu sai si ben morire e risuscitare, non è da perder tempo.
Calandro. Or via! sii!
Fessenio. Nooo! Con ordine vuol farsi tutto, a fin che Fulvia non se ne accorga. Con lei fingendo andare in villa, a casa di Menicuccio te ne vieni; ove tro verrai me con tutte le cose che fanno di mestiero.
Calandro. Ben di’. Cosi farò or ora, che la bestia sta parata.
Fessenio. Mostra. Che l’hai in ordine?
Calandro. Ah! ah! Dico che ’l mulo, drento a l’uscio, è sellato.
Fessenio. Ah! ah! ah! Intendeva quella novella.
Calandro. Mi par mille anni esser a cavallo; ma in su quella angioletta di paradiso.
Fessenio. Angioletta, ah? Va’ pur lá. Se io non mi inganno, la castroneria si congiungerá oggi con la lordezza. E debbe or montare a cavallo. Voglio avviarmi inanzi e dire a quella vezzosa porca che in ordine sia e me aspetti. Oh! oh! oh! Vedi Calandro giá montato. Miraculosa gagliardia di quel muletto che porta cosí sconcio elefantaccio!
SCENA X
Calandro, Fulvia.
Calandro. Fulvia! o Fulvia!
Fulvia. Messer, che vuoi?
Calandro. Fatti alla finestra.
Fulvia. Che c’è?
Calandro. Vuoi altro? Io vo insino in villa, che Flaminio nostro non si consumi drieto alle cacce.
Fulvia. Ben fai. Quando tornerai?
Calandro. Forse stasera. Fatti con Dio.
Fulvia. Va’ in pace, col mal anno. Guarda che vezzoso marito mi detteno li frategli miei! che mi fa venire in angoscia pure a vedello.