L'impresario delle Smirne/Atto IV

Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Notte.

Camera di Lucrezia con lumi.

Lucrezia ed il Conte Lasca.

Lasca. Spiacemi non avermi potuto trovare dal Turco; ma ho saputo tutto quello che colà è succeduto. So la ridicola pretensione delle altre due donne, e vi do ragione di aver voluto sostenere il vostro punto.

Lucrezia. Ed io so che presentemente mi corbellate.

Lasca. E perchè?

Lucrezia. Perchè ora voi mi date ragione; e quando sarete coll’altre, farete seco loro lo stesso.

Lasca. Voi non mi conoscete, e pensate male di me. Protesto che per voi ho il primo e il più forte impegno. [p. 250 modifica]

Lucrezia. Lasciamo le fanfaluche da parte, e favelliamo sul sodo. Sarò io la prima donna?

Lasca. Sì, ve lo prometto.

Lucrezia. E con qual fondamento?

Lasca. Dopo che voi partiste dal Turco, sono andato da lui. L’ho trovato in un’agitazione grandissima. Nibio, con imprudenza, gli aveva fatto scaldar la testa, guidandogli un esercito di mangiapani. Studiai di rasserenarlo, m’impegnai d’interessarmi per lui, e nello stato in cui si trova, gli pare d’aver trovato in me un aiuto del cielo. Si fida di me, mi si raccomanda, ed aderendo a’ miei consigli ed alle mie premure, mi ha dato parola, che verrà qui da voi questa sera.

Lucrezia. Verrà da me il Turco? (con piacere)

Lasca. Me l’ha promesso, e l’aspetto.

Lucrezia. Almeno avrò il piacere di parlargli io sola, senza la presenza incomoda di quelle due impertinenti.

Lasca. Ma deggio dirvi, che anche la signora Annina e la signora Tognina verranno qui istessamente.

Lucrezia. Come! verranno in casa mia? (con isdegno)

Lasca. No, cara signora Lucrezia, non dite in casa vostra. Noi siamo in una locanda. Qui tutti possono liberamente venire. Se poi non volete che vengano nella vostra camera, Beltrame le ne darà un’altra, e voi allora...

Lucrezia. No, no, vengano pure se vogliono; mi basta che voi ci siate, e che non ardiscano in camera mia di fare le saccenti.

Lasca. Vi assicuro che staranno in cervello. Mi conoscono, e sanno che dove sono io, non si fa il bell’umore. Ho già loro parlato, e quando verranno, le vedrete trattarvi con tutta la possibile civiltà.

Lucrezia. Con chi tratta bene meco, so corrispondere con egual politezza; anzi penso, che se vengono nella mia camera, sarà necessario di far loro un picciolo trattamento.

Lasca. Eh, questo non preme.

Lucrezia. Non dico di far gran cose, ma un poco di caffè, un poco di cioccolata, si usa al paese mio. [p. 251 modifica]

Lasca. Tutto ciò, credetemi, è superfluo.

Lucrezia. Eh, non importa! Farò preparar io.

Lasca. Se ciò si dovesse fare, toccherebbe a me a farlo.

Lucrezia. Fatelo, se volete, io non mi oppongo.

Lasca. Lo farei, se fosse necessario; ma non vengono qui da voi per far la conversazione; vengono per affari, e sarebbe un’affettazione... Oh, ecco la signora Tognina. Fatele buona ciera. Questo val meglio di tutti i rinfreschi del mondo.

SCENA II.

Tognina e detti.

Tognina. Padrona mia riverita.

Lucrezia. Serva sua divotissima.

Tognina. Sta bene?

Lucrezia. Per obbedirla.

Lasca. Brave, signore mie, avrò piacere che siate buone amiche e buone compagne.

Tognina. Sarebbe per me una fortuna, s’io avessi il bell’onore di essere in compagnia di questa signora, che è tanto buona e di buon cuore. (con ironia)

Lucrezia. Anzi potrei chiamarmi io fortunata di vivere con una persona sì amabile e sì gentile. (con ironia)

Tognina. Questo è un effetto della di lei bontà, che accresce il merito alla sua virtù.

Lucrezia. S’inganna, signora mia, io non merito niente.

Tognina. Ma che maniera che incanta!

Lucrezia. Quanto mi piace questa signora. (forte al Conte)

Lasca. (Queste troppe finezze son certo che non vengon dal cuore).

Lucrezia. Se anderemo alle Smirne, ce la goderemo, saremo amiche, e vivremo insieme.

Tognina. E in nave? Nella nave voglio che passiamo bene il nostro tempo; porterò la mia spinetta, le passerò io la parte. Compagno qualche cosetta. E ella? [p. 252 modifica]

Lucrezia. Qualche poco.

Tognina. Oh, ella sarà perfetta. È ella soprana?

Lucrezia. Per servirla.

Tognina. Brava: arriverà, m’immagino, fino al gesoreul.

Lucrezia. Oh, anche un poco di più in là.

Tognina. Capperi! me ne consolo infinitamente. Tanto più mi pregio di avere una compagna di tanto merito. Io non sono delle più brave, ma sentirà. Ho tre ottave nettissime.

Lucrezia. Oh, quanto mi consolo della di lei bravura!

Lasca. (Io le ascolto e le godo col maggior piacere del mondo).

Tognina. Dica, ha ella osservato questa mattina dal Turco quella virtuosa?

Lucrezia. E chi è? Come si chiama?

Tognina. La Mistocchina.

Lucrezia. Che vuol dir Mistocchina?

Tognina. Come quella giovane è bolognese, e che a Bologna chiamano mistocchine certe schiacciate fatte di farina di castagne, le hanno dato un soprannome, che conviene alla sua patria ed alla sua abilità. Non sa, poverina, quel che si dica. Sono più di dodici anni che impara la musica, e non sa nemmen solfeggiare; non unisce la voce, non intuona una nota, va fuori di tempo, strilla, mangia le parole, ed ha cent’altri difetti.

Lasca. (Ora principia il buono della conversazione).

Lucrezia. E voleva mettersi a recitare con lei? Questa è una specie di temerità. Ella, signora mia, oltre il merito del canto e del sapere, si vede che ha dell’azione, del movimento. Credo che per recitare non ci sia un’eguale. Se si scalda qui nella conversazione, che non farà ella in teatro? Ammiro sopratutto in lei quel gesto sì naturale, quel muovere delle braccia, quell’accompagnare le sue parole coi movimenti del capo, delle mani e fin delle spalle. È una cosa che mi piace e m’incanta.

Lasca. (Che tu sia maladetta, può corbellarla di più?)

Tognina. Qualche volta mi movo un poco troppo, per dirla, ma è l’effetto della vivezza e dell’età. [p. 253 modifica]

Lucrezia. Certo. Ella è giovinissima.

Tognina. Oh, sono ormai vecchia. (sorridendo con vezzo)

Lucrezia. Quanto avrà? Diciott’anni?

Tognina. Oh, sono ormai venti.

Lucrezia. (Con dieci appresso).

Tognina. E ella non li averà ancora venti.

Lucrezia. Eppure sono suonati.

Tognina. (Lo credo anch’io).

Lucrezia. E la Bolognese?

Tognina. Chi sente lei, non ne ha diciassette.

Lucrezia. Oh, io gliene do ventiquattro.

Tognina. E colla coda.

Lucrezia. E il signor Conte non dice niente?

Tognina. Sta lì come una statua.

Lasca. Io ascolto ed ammiro.

Tognina. Noi parliamo degli anni. I suoi quanti saranno?

Lasca. I miei?... ventitrè non finiti.

Tognina. Oh carino! ventitrè?

Lucrezia. Mettetegli il dito in bocca; vedete se ha fatto i denti.

Lasca. Ma! giustizia per tutti. Se calano per voi, hanno da calare ancora per me.

Tognina. (Che galeotto!)

Lucrezia. Mi pare di sentir gente.

Lasca. Ecco la Bolognese.

Lucrezia. Voglio andarle incontro.

Tognina. Eh, resti qui. Non si prenda soggezione di questa sorta di gente.

Lucrezia. Scusi. Vuò fare il mio dovere. E vero che questa mattina tutte due lor signore sono state sedute, mentre io stava in piedi parlando. Può essere, se lo fanno, che qui sia ben fatto, ma al mio paese si usa la civiltà. (va ad incontrare Annina)

Lasca. Ve l’ha appoggiata a tempo. (a Tognina)

Tognina. È una superba, un’impertinente, ch’io non posso soffrire. [p. 254 modifica]

SCENA III.

Annina, accompagnata da Lucrezia, e detti.

Tognina. Brava, signora Annina, eravamo impazieriti di vedervi.

Annina. Davvero?

Tognina. Finora abbiamo parlato di voi.

Annina. Che cosa ponno1 aver detto di me?

Tognina. Quello che meritate. (ad Annina)

Lucrezia. Quello che le conviene. (ad Annina)

Lasca. Ed io ne son testimonio. (ad Annina)

Annina. Io non merito queste finezze. Elleno son virtuose, ed io non sono che un’ignorante.

Tognina. Via, via, troppa modestia.

Annina. Dica, signor Conte, l’amico non si è ancora veduto?

Lasca. Non è ancora comparso.

Tognina. Il Turco? Parla del Turco? L’aspettiamo anche noi.

Lucrezia. Mi fa l’onor di venire da me.

Tognina. Signora Annina, ha ella deciso? Va ella sicuramente alle Smirne?

Annina. Se piace al cielo.

Tognina. (Signor Conte, che cosa vuol far di tre donne?) (piano al Conte)

Lasca. (Io non voglio far niente di nessuna). (piano a Tognina)

Tognina. Ma come...

Lasca. Zitto. Ecco il signor Alì. Ei viene per causa mia, e ve lo protesto, signore, se fra di voi nascono dei nuovi puntigli, lo faccio andar via, e non se ne parla più. Chi di voi ha bisogno, s’accheti a quel ch’io dico, e se la condizion non vi comoda, sappiate che per me poco o nulla m’importa. Vi sono cento donne che pregano, e la massima è già fissata: la prima di voi che parla, e si lamenta, e fa strepito, sarà esclusa da quest’impresa. [p. 255 modifica]

Lucrezia. (Se egli non è bugiardo, io deggio essere la prima donna).

Annina. (Converrà tacere, e rassegnarsi).

Tognina. (Mi preme in ogni modo di andare alle Smirne).

SCENA IV.

Alì e detti.

Lasca. Venite, signor Alì.

Alì. Star fatto? (al Conte)

Lasca. Fatto niente. Ho piacer che siate anche voi presente al contratto. Ecco qui, queste tre signore desiderano tutte tre venir con voi, e ciascheduna ha il suo merito.

Alì. Star tre donne?...

Lasca. Star zitto. Vi dirò il perchè. Senza accrescer la spesa, vi può esser luogo per tutte tre.

Alì. Se far tanto diavolo per prima e per seconda, cosa far per terza?

Lasca. Non ci pensate. La terza può impiegarsi per una terza donna, se il libretto lo chiede; e quando non ne abbisognin che due, l’altra in abito da uomo farà l’ultima parte.

Annina. Io no certo.

Tognina. Nè men io sicuro.

Lasca. Zitto. (alle tre donne)

Lucrezia. Per me, io non parlo.

Alì. Conte, star tu patron.

Lasca. Ed io terminerò quest’affare. Signore, noi vogliamo per prima donna quella che ci pare e piace. Chi non si contenta, può andarsene, e chi si rassegna, non avrà da pentirsene.

Alì. Bravo, Conte. Star bravo. Per me, non parlar.

Lasca. Che la signora Tognina e la signora Annina abbiano dunque per questa volta pazienza. Noi abbiamo destinato il posto di prima donna alla signora Lucrezia.

Tognina. Ed io ho da soffrir questo torto? (mortificata)

Annina. Ed io ho da tacer, senza lamentarmi? [p. 256 modifica]

Lasca. O tacere, o partire.

Tognina. Parli ella, signor Alì.

Annina. Mi renda ella giustizia. (ad Alì)

Alì. Non parlar con me. Conte star impresario, Conte star padron. Benedetto star Conte.

Lasca. Io sono uno che accomoda le cose facilmente. Via, signora Lucrezia, faccia al signor Alì il suo complimento.

Lucrezia. Ringrazio il signor impresario ed il signor mediatore. Ma favorisca, in grazia, qual sarà il mio onorario? (ad Alì)

Alì. Conte, Conte parlar. (a Lucrezia)

Lasca. Quanto pretenderebbe la signora Lucrezia?

Lucrezia. Vede bene...

Lasca. No, parlate liberamente.

Lucrezia. A una prima donna, a una donna della mia sorte, trattandosi di andare alle Smirne...

Lasca. Alle corte.

Lucrezia. Vuol darmi meno di seicento zecchini?

Lasca. Il signor impresario non ne vuol dare che quattrocento.

Lucrezia. Scusi, signore, questa paga....

Lasca. Basta così. La signora Tognina quanto domanderebbe, se dovesse fare da prima donna?

Tognina. Per me, non sono interessata, e mi contenterei...

Lucrezia. Oh, se si tratta di usar generosità, son capace anch’io, ed accetto i quattrocento zecchini. (al Conte)

Lasca. Questa è fatta.

Alì. Bravo, Conte, star bravo.

Lasca. E la signora Tognina quanto domanda per il posto di seconda donna?

Annina. Ed io, signore?

Lasca. Ora non parlo con voi. Verrà la vostra volta.

Annina. Mi destina dunque...

Lasca. O tacere, o partire. Quanto domanda la signora Tognina?

Tognina. Direi... almeno, almeno...

Lasca. Vi comodano duecento e cinquanta zecchini?

Tognina. Non posso. Non è possibile. [p. 257 modifica]

Lasca. E voi, signora Annina?

Tognina. Aspetti, aspetti... Viaggi pagati, e quartiere?

Lasca. Ci si intende. Questo è per tutti. Li accettate?

Tognina. Li accetto. (mortificata)

Alì. Bravo, Conte; star bravo.

Lasca. A voi, signora Annina.

Annina. Per terza donna?

Lasca. E per ultima parte, se occorre.

Annina. Una virtuosa della mia sorte?

Lasca. Ne ho dieci, che mi pregano.

Annina. E quanto mi vuol dare? (mortificata)

Lasca. Cento zecchini.

Annina. A una donna del mio merito?

Lasca. O dentro, o fuori.

Annina. Pazienza! li accetterò.

Lasca. Tutto è fatto. Tutto è finito. (ad Alì)

Alì. Bravo, Conte, tu meritar far bassà, far visir.

Lasca. Ehi, della locanda. (viene un servitore) Portate subito penna, carta e calamaio. (servitor parte) Faremo subito le scritture.

Lucrezia. E quando sarà la nostra partenza? (al Conte)

Lasca. Dite voi, signor Alì, quando credete di dover partire?

Alì. Nave star alla vela. Domattina voler partir. Tutta compagnia venir casa mia, domattina buon’ora. Portar tutta roba per imbarcar peota, e andar bordo aspettar buon vento.

Lasca. Voi avete capito. (alle donne) Egli vi aspetta domani di buon mattino. Oh, ecco il servitore. Favorisca, signora prima donna, venga ella a sottoscriver la prima. (Il Conte e Lucrezia vanno ad un tavolino, che è in fondo alla scena, ed il servitore porta l’occorrente per iscrivere, poi parte.)

Tognina. Povero signor Alì! mi dispiace infinitamente per lei. Parlo sinceramente, senz’invidia e senz’interesse, ma parlo per la verità. Ella ha una prima donna, che vuol far la rovina della sua impresa. Che cosa ne dite, signora Annina? sentirà che canchero. Se quella donna incontra, voglio perdere un occhio. (ad Alì) [p. 258 modifica]

Alì. Non star brava?

Tognina. Che brava? È un’ignorantaccia, che non sa nè la musica, nè l’azione.

Annina. Sentirà, sentirà; scommetto che sarà obbligato a mandarla via dopo quattro giorni.

Alì. Ma Conte no saver?

Tognina. Eh, il signor Conte la protegge, la mette in grazia, e corbella il signor impresario, perchè è di lei innamorato.

Annina. Si vede apertamente; e per causa di questa passione ha fatto a noi un’ingiustizia.

Alì. (Star possibile, che voler Conte tradir?)

Lasca. Questa è fatta. Venite, signore, se volete, a sottoscrivere anche voi. (forte alle donne, stando al tavolino)

Tognina. io, se facessi da prima donna, io potrei fare la sua fortuna. (ad Alì, e va al tavolino)

Annina. Ella farebbe de’ gran quattrini, se si fidasse di me. (ad Alì, e va al tavolino)

Alì. (Pensa, passeggia, smania, si liscia i mostacchi, batte i piedi e mostra la sua inquietudine.)

Lucrezia. Che cosa ha, signor Alì, che mi pare turbato?

Alì. Non saper, aver dubbio; non conoscer ben malizia italiana, ma dubitar, e quasi pentir d’aver fatto quel che aver fatto.

Lucrezia. Perchè?

Alì. Perchè pagar per aver gente bona, e dubitar che musica Smirne deventar cattiva.

Lucrezia. Se parla per quelle due cantarine, lo compatisco. In materia di musica non sanno quello che si facciano, mancano di fondamenti; sono così cattive, che non trovano recite neè meno in tempo di carnovale.

Alì. Star compagne di te.

Lucrezia. Le domando perdono, sentirà alle Smirne il mio sapere e la mia bravura.

Alì. Mi non aver più testa.

Lasca. Ecco qui le scritture formate e sottoscritte. (vuol dare le scritture ad Alì.) [p. 259 modifica]

Alì. Non saper cosa far, non voler scritture.

Lasca. Bene; le terrò, le unirò colle altre, e ve le porterò domattina.

Tognina. Serva del signor Alì. Domattina per Tempo sarò da lei col mio equipaggio. Stia bene, dorma bene, e per domattina, si ricordi di farci preparare la cioccolata. (parte)

Annina. Cioccolata io non ne prendo. Ella avrà del buon vino di Cipro; me ne prepari una bottiglietta con de’ biscotti, (parte)

Lucrezia. Con loro permissione, Io vado nel mio camerino a spogliarmi, perchè l’ora vien tarda. Se vogliono restare, sono padroni, li lascio in libertà. Serva, signor Alì. Domani di buon mattino sarò da lei. Signor Conte, serva umilissima. (parte)

SCENA V.

Il Conte Lasca, Alì, poi Nibio.

Lasca. Signor Alì, sia detto a gloria mia, la vostra compagnia non istà male in donne, e le avete ad un prezzo...

Alì. Conte, io aver paura, che tu per bella donna me voler trappolar.

Lasca. Mi maraviglio di voi. Che maniera è la vostra? E questo il ringraziamento di quel che ho fatto per voi?

Alì. Conte mio, compatir. Non saper... Non aver più testa.

Nibio. Signori, una buona nuova. Ho fermato il primo musico per seicento zecchini, ed un secondo per duecento.

Lasca. Chi avete fermato per secondo?

Nibio. Un certo Sganarello...

Lasca. Quello sguaiato? Signore, non lo prendete, che è una caricatura capace di metter l’opera in ridicolo. (ad Alì)

Nibio. Scusi, è forse migliore di Carluccio, ch’ella protegge. (al Conte)

Alì. Musici non voler. (al Nibio)

Nibio. La scrittura è firmata. Non vi è più rimedio, ed ho fermato e scritturato due tenori.

Alì. Senza ch’io saper? [p. 260 modifica]

Nibio. Ma se domani si parte, non si potea differire.

Lasca. In questo non ha tutto il torto.

Nibio. Ed ho fermato tutti quegli operai ch’ella ha veduto nella sua camera.

Alì. In tutti quanti star?

Nibio. Ho fatto il conto, che saremo in tutti settanta persone.

Alì. Scialamanacabala! (esclamazione alla Turca)

Nibio. E tutti, pria di partire, domandano quattrini a conto.

Alì. Quanto voler?

Nibio. Almeno, in tutti, cinquecento zecchini.

Alì. Dar cinquecento diavoli, che portar tua malora. (parte)

Nibio. (Dica quello che vuole, il danaro è necessario. Cento zecchini per me, e gli altri spartiti fra questa povera gente). (parte)

Lasca. Che imbroglio, che impiccio, che malorato impegno è quello di un impresario! Io pratico i teatri, conosco e frequento i virtuosi e le virtuose, ma non mi è mai venuto voglia di mettermi alla testa di una impresa. Poveri impresari! fanno fatiche immense, e poi cosa succede? L’opera in terra, e l’impresario fallito.

Fine dell’Atto Quarto.


Note

  1. Ed. Zatta: possono.