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L'IMPRESARIO DELLE SMIRNE 253

Lucrezia. Certo. Ella è giovinissima.

Tognina. Oh, sono ormai vecchia. (sorridendo con vezzo)

Lucrezia. Quanto avrà? Diciott’anni?

Tognina. Oh, sono ormai venti.

Lucrezia. (Con dieci appresso).

Tognina. E ella non li averà ancora venti.

Lucrezia. Eppure sono suonati.

Tognina. (Lo credo anch’io).

Lucrezia. E la Bolognese?

Tognina. Chi sente lei, non ne ha diciassette.

Lucrezia. Oh, io gliene do ventiquattro.

Tognina. E colla coda.

Lucrezia. E il signor Conte non dice niente?

Tognina. Sta lì come una statua.

Lasca. Io ascolto ed ammiro.

Tognina. Noi parliamo degli anni. I suoi quanti saranno?

Lasca. I miei?... ventitrè non finiti.

Tognina. Oh carino! ventitrè?

Lucrezia. Mettetegli il dito in bocca; vedete se ha fatto i denti.

Lasca. Ma! giustizia per tutti. Se calano per voi, hanno da calare ancora per me.

Tognina. (Che galeotto!)

Lucrezia. Mi pare di sentir gente.

Lasca. Ecco la Bolognese.

Lucrezia. Voglio andarle incontro.

Tognina. Eh, resti qui. Non si prenda soggezione di questa sorta di gente.

Lucrezia. Scusi. Vuò fare il mio dovere. E vero che questa mattina tutte due lor signore sono state sedute, mentre io stava in piedi parlando. Può essere, se lo fanno, che qui sia ben fatto, ma al mio paese si usa la civiltà. (va ad incontrare Annina)

Lasca. Ve l’ha appoggiata a tempo. (a Tognina)

Tognina. È una superba, un’impertinente, ch’io non posso soffrire.