L'erede fortunata/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di Pancrazio, con varie sedie.
Pancrazio. Signor Dottore, adesso si leggerà il testamento del quondam signor Petronio vostro fratello, e se voi sarete l’erede, o se voi sarete il tutore di Rosaura sua figlia, son pronto a darvi tutto, fino a un picciolo. Egli è morto in casa mia, ma è morto in casa di un galantuomo. Siamo stati compagni di negozio, e ci siamo amati come due fratelli. Gli sono stato fedele
in vita, gli sarò fedele anche dopo morte; e mi scoppia il cuore nel pensare che il cielo mi ha tolta la cosa più cara che aveva in questo mondo. Signor notaro, apra il testamento e lo legga.
Dottore. Non vi era bisogno che mio fratello gettasse via de’ quattrini per far testamento. L’erede è sua figlia; ed io, come più prossimo parente, son quello che l’ha da custodire.
Florindo. Io son figlio d’una sorella del signor Petronio, ed ho delle pretensioni contro la sua eredità; s’egli mi ha destinata sua figlia per moglie, come mi aveva lusingato di fare, tutto sarà accomodato.
Ottavio. Bisogna vedere se la signora Rosaura vi vuole. (a Florindo)
Florindo. Se il padre lo comandasse, la figlia dovrebbe obbedire.
Pancrazio. Animo, signor notaro, ci cavi tutti di pena.
Dottore. Potete tralasciare di legger per ora le cose superflue; ci preme solamente l’instituzion dell’erede e la nomina dei tutori.
Notaro. Vi servo, come volete. (legge) In tutti i suoi beni, presenti e futuri, mobili, stabili e semoventi, azioni, ragioni, nomi di debitori ecc. instituì ed instituisce erede sua universale la signora Rosaura, di lui figliuola legittima e naturale.
Dottore. Fin qui va bene.
Florindo. Questo è un atto di giustizia.
Notaro. Con patto però che ella prenda per suo legittimo consorte il signor Pancrazio Aretusi.
Florindo. Oh, questa è una bestialità!
Ottavio. (Oh me infelice! Ecco perduta Rosaura). (da sè)
Pancrazio. (Povero signor Petronio, mi fa piangere dall’allegrezza). (da sè)
Dottore. (Questo vecchio pazzo ha fatto fare il testamento a suo modo). (da sè)
Notaro. E se detta signora Rosaura non isposasse il signor Pancrazio e si volesse maritar con altri, o non prendesse marito, instituisce eredi universali per egual porzione il signor dottor Balanzoni, suo fratello, ed il signor Florindo Ardenti, figlio della signora Ortensia sua sorella, con patto ai medesimi di dare alla suddetta signora Rosaura quattro mila ducati di dote.
Florindo. (Crepasse almeno codesto vecchio!) (da sè)
Dottore. (Bisognerà procurare che non s’adempia la condizione). (da sè)
Ottavio. (In tutte le maniere io l’ho perduta). (da sè)
Pancrazio. (La signora Rosaura non vorrà perdere la sua fortuna). (da sè)
Notaro. Tutore ed esecutore testamentario nominò e nomina e prega voler essere il signor Pancrazio Aretusi, fino che la detta sua erede si congiunga in matrimonio, senz’obbligo di render conto della sua amministrazione.
Dottore. (Mio fratello è stato sempre pazzo, ed è morto da pazzo). (da sè)
Pancrazio. Signor Dottore, avete sentito. Per ora non v’è niente per voi.
Dottore. Se non ci è niente per ora, ve ne sarà col tempo.
Pancrazio. Può essere di sì, e può essere di no.
Dottore. Son dottore, son legale, e tanto basta.
Pancrazio. Le vostre cabale non mi fanno paura.
Florindo. Se Rosaura non prende me per marito, se ne pentirà assolutamente.
Pancrazio. La difenderò a costo del mio sangue.
Florindo. Consumerete inutilmente tutte le sue facoltà.
Dottore. Gli faremo dare un economo.
Pancrazio. A Pancrazio un economo? Per la Piazza son conosciuto. Se vi sarà sospetto della mia amministrazione, vi darò tutto Rialto per sicurtà.
Dottore. La discorremo, ci toccheremo le mani, signor tutore, signore sposo, signor erede. Bell’azione! Far fare al povero sciocco un testamento di questa sorta! E voi, signor notaro garbatissimo, chi v’ha insegnato a fare di simili testamenti?
Notaro. Io sono obbligato a scrivere quello che il testatore mi ordina.
Dottore. Quando il testatore vuol fare delle disposizioni ingiuste e scandalose, il notaro è obbligato a suggerirgli la giustizia e l’onestà. Ma siete d’accordo con Pancrazio, e non sareste il primo che avesse fatto parlare un morto. Auri sacra fames; auri sacra fames. (parte)
Florindo. Correggerò io le pazzie d’un padre sedotto e le vostre fattucchierie. (parte)
Pancrazio. Trastullo, voi che siete servitore ed avete più giudizio dei vostri padroni, illuminateli, e fateli conoscere l’inganno in cui sono. Ricordatevi che siete stato allevato in casa mia, e che il bene che avete, lo dovete riconoscere da me.
Trastullo. So il mio debito. Non son di quei servitori che hanno per vanagloria di sputare in quella scodella dove hanno bevuto. Sono stato allevato in casa sua, ed ella mi ha fatto del bene. È vero che sono in obbligo di obbedir quelli che mi danno il salario. Ma a luogo e tempo mi ricorderò del mio primo padrone, e invece di alimentar questo fuoco, procurerò di buttarvi dell’acqua. (parte)
Pancrazio. La ragione mi difende, la legge mi assiste, la giustizia non mi potrà abbandonare. Grazie al cielo, siamo a Venezia. Qua le cabale non fanno colpo; le bugie non si ascoltano; le prepotenze non vagliono niente. Signor notaro, venga oggi al mio banco, che sarà soddisfatto.
Notaro. Sì signore, sarò a incomodarvi. (Quel caro signor Dottore si lamenta del testamento. Se non fossero i testamenti, gli avvocati farebbero poche faccende). (parte)
SCENA II.
Pancrazio3 ed Ottavio.
Pancrazio. Figlio mio, che dici tu di questa fortuna di casa nostra? Il signor Petronio, obbligando Rosaura a sposarmi, mi lascia erede di tutto il suo. Se avessi dovuto separar la sua parte dalla mia, e dar a Rosaura la porzione di suo padre, per noi sarebbe stato un gran tracollo. Non è tutt’oro quel che luce. Abbiamo un gran credito, abbiamo dei gran capitali, ma abbiamo ancora dei debiti. Così nessuno sa i fatti nostri, si tira avanti il negozio, continua l’istesso nome e si fa l’istessa figura. Ma che hai tu che non parli? Tu guardi il cielo e sospiri? Ti dispiace che tuo padre abbia avuta questa fortuna? Hai forse paura che maritandomi non pensi più a maritare anche te? No, Ottavio, non dubitare; tu sai quanto ti amo; penso a te più che a me medesimo; e se passo alle seconde nozze, lo fo piuttosto per migliorar la tua condizione, che per soddisfar il mio genio. Cercati una ragazza savia, e da par tuo; te la darò volentieri. Se vuoi esser padrone, ti farò padrone. Manderò fuori di casa quel ganimede di Lelio mio genero, e quella matta di mia figlia, gelosa di quel bel fusto. Se anche Rosaura tua matrigna ti darà soggezione, mi ritirerò con essa in campagna e ti lascierò in libertà; che vuoi di più? Tuo padre può far di più per te? Via, figlio mio, via, Ottavio, consolami, fatti vedere allegro, corrispondi con amore al tuo povero padre, che per te spargerebbe il sangue delle sue vene.
Ottavio. Signor padre, voi mi amate più che non merito. Mi offerite più di quello che a me si conviene. Mi colmate di benefizi, lo conosco, l’intendo, vi son grato, disponete di me a vostro piacere; ma un’interna melanconia mi tiene oppresso talmente che non posso mostrare quell’ilarità che da me pretendete.
Pancrazio. Ma da qual cosa procede mai questa malinconia? Qualche causa vi sarà. So che non sei di temperamento malinconico. Ti ho visto pel passato allegro e gioviale. Sai che tu eri l’unica mia conversazione, e che tanto mi compiaceva delle tue lepidezze; perchè da un momento all’altro ti sei così cambiato?
Ottavio. (Convien trovare un pretesto per acquietarlo). (da sè) Vi dirò, signor padre, la morte del signor Petronio mi ha turbato talmente che non trovo riposo. Considero la brevità della vita, la necessità di morire, l’incertezza del nostro fine, e in un tal pensiere occupo tutto me stesso.
Pancrazio. Ah! Ottavio, ricordati che tutti gli estremi diventano viziosi. Pensare alla morte è bene; ma pensarvi in tal maniera è male. Chi ha sì gran timore della morte, fa conoscere che ama troppo la vita. Pensa a viver bene, se vuoi morir bene: lascia la malinconia, applica ai tuoi interessi, prenditi qualche onesto piacere; ma obbedisci tuo padre, e non ti lasciar vincere dalla passione. Io sono molto più vecchio di te. Ho da morire avanti di te, anzi poco più posso vivere, e pure non mi voglio travagliare, e vivo da uomo onesto, per morire da uomo contento. Figlio mio, sta allegro, dammi questa consolazione; e poi disponi di me, della casa, del negozio, di tutto, che ti fo padrone. (parte)
SCENA 111.
Ottavio solo.
Povero padre! Tu ami un tuo nemico, tu stringi al seno un rivale. Ma che? Sarò scellerato a tal segno di amar Rosaura più del mio genitore? Ah no, si scacci dal seno un amore, che se pria fu innocente, ora può divenire colpevole. Il destino mi priva dell’idolo mio, non posso oppormi al voler del cielo. Oh Dio! Avrò cuore di abbandonare il mio bene? Mah! Avrei cuore di privar lei della paterna eredità, e mio padre di una sì ricca dote? No, no, sarei troppo vile, se il permettessi. Se non sarà mia sposa, sarà mia madre. Ah, miserabil cambio di condizione! Come potrei imprimere baci rispettosi su quella mano, che sospirai baciar come amante? Quale agitazione mi turba? Qual dolore mi opprime? Qual confusione mi sorprende?
SCENA IV.
Arlecchino e detto.
Arlecchino. Sior padron...
Ottavio. Son l’uomo più infelice di questa terra.
Arlecchino. Sior padron...
Ottavio. Non me l’avrei mai creduto.
Arlecchino. Ah, sior padron...
Ottavio. Va al diavolo.
Arlecchino. Che vada? Anderò. (in atto di partire)
Ottavio. Cosa volevi da me?
Arlecchino. Aveva da dirghe un no so che, per part de siora Rosaura; ma vado via.
Ottavio. No, fermati. Cosa mi dovevi tu dire?
Arlecchino. Vado al diavolo.
Ottavio. Parla, dico, o ti bastono. (alza il bastone)
Arlecchino. La se ferma, parlerò. Siora Rosaura dis4 cussì, che ghe premeria de parlarghe.
Ottavio. Rosaura? Dove?
Arlecchino. L’è in te la so camera.
Ottavio. Vado subito. Ma no... Dille che ora non posso.
Arlecchino. Gnor sì. (in atto di partire)
Ottavio. Aspetta... Sarà meglio che io vada. (s’incammina)
Arlecchino. Gnor sì, sarà mei.
Ottavio. Ma che mai potrò dirle? No, Arlecchino, dille che non mi hai trovato.
Arlecchino. Ghe lo dirò. (in atto di partire)
Ottavio. Fermati. Se scopre non esser vero, si lagnerà di me. Anderò dunque5.
Arlecchino. Da bravo.
Ottavio. Mah! nella confusione, in cui sono... Vanne, dille che anderò poi.
Arlecchino. Non occorr’altro. (in atto di partire)
Ottavio. No, arrestati, il mio dovere è ch’io vada. (parte)
SCENA V.
Arlecchino, poi Fiammetta.
Arlecchino. Oh, che bel matto!
Fiammetta. Arlecchino...
Arlecchino. L’è veramente ridicolo6.
Fiammetta. Arlecchino, dico.
Arlecchino. Cossa gh’è?
Fiammetta. La signora Beatrice ti domanda.
Arlecchino. Vado... ma no. Famme un servizio, vaghe ti in vece mia.
Fiammetta. E che cosa vuoi ch’io le dica?
Arlecchino. Sarà meio che vada mi.
Fiammetta. Oh sì, sarà meglio.
Arlecchino. Va, dighe che non mi hai trovato.
Fiammetta. Ma perchè ho da dire questa bugia?
Arlecchino. Se scoverze che no xe vero... Anderò mi.
Fiammetta. Via, presto.
Arlecchino. Va ti.
Fiammetta. Ha domandato di te, non di me.
Arlecchino. Se vuol me, non vuol te... Vado... non vado... Oh Dio... resta tu... resta tu... che vado io. (parte)
SCENA VI.
Fiammetta sola.
SCENA VII.
Lelio e detta.
Lelio. Ma, cara Fiammetta, tu mi hai abbandonato.
Fiammetta. Perchè, signor padrone? Che posso far per servirla?
Lelio. Senza di te mi par d’essere senza mani, senza capo, e dirò ancor senza cuore.
Fiammetta. (Poteva dire senza cervello). (da sè)
Lelio. Per carità, non mi privar della tua assistenza. Osserva come stamattina, perchè tu non mi hai assistito, osserva come sono male assettato. (tira fuori uno specchio) Guarda questo tuppè; sta male che non può star peggio. Vedi com’è disuguale la polvere sulla mia parrucca. Questo nastro del collo mi pare un poco torto. Ah, senza la mia Fiammettina non so far niente.
Fiammetta. Ma la signora Beatrice, vostra consorte, non può ella in mancanza mia supplire al vostro bisogno?
Lelio. Ella non sa far altro che tormentarmi colla maledetta sua gelosia. A me piace il viver di buon gusto. Sono avezzo a trattare il gran mondo, ed ella prendendo in mala parte tutte le mie operazioni, crede che la mia galanteria proceda da poca onestà. Sa il cielo quanto io son casto nelle mie intenzioni.
Fiammetta. E tale vi credo, e tale vi convien essere.
Lelio. Ma non mi può esser vietato adorare il merito di qualche bella.
Fiammetta. Sì, quando vi sia chi meriti le vostre adorazioni.
Lelio. Ah Fiammetta, il tuo spirito, il tuo contegno m’incanta.
Fiammetta. Signore, voi mi mortificate.
Lelio. Se non avessi moglie, felice te!
Fiammetta. Ma l’avete, e non occorre pensarvi.
SCENA VIII.
Beatrice, che ascolta, e detti.
Lelio. Potrebbe morire.
Fiammetta. E se morisse la vostra signora consorte, che sarebbe perciò?
Lelio. Sposar vorrei la mia adoratissima Fiammetta.
Beatrice. Può essere che voi crepiate prima di me; e che io abbia la consolazione di vedermi libera da un così cattivo marito.
Lelio. (Il diavolo ce l’ha portata). (da sè)
Fiammetta. (Ora sto fresca). (da sè)
Beatrice. E tu, impertinente, sfacciata, levati dalla mia presenza, e preparati andar fuori di questa casa.
Fiammetta. Signora padrona, compatisco la vostra collera, ma io non la merito. Che il vostro marito mi perseguiti colle sue leggerezze, non è colpa mia. Correggete lui, e non rimproverate me; e se volete ch’egli vi ami più e vi tratti meglio, tormentatelo meno. (parte)
SCENA IX.
Beatrice e Lelio.
Beatrice. Che temerità! Signor consorte garbatissimo, vi pare una cosa ben fatta? Divertirvi colla cameriera7?
Lelio. Fiammetta è una giovine onesta, e non potete rimproverarmi, se ho per lei della stima.
Beatrice. Che stima! Che cos’è questa stima? Per me dovete aver della stima, e non per la serva.
Lelio. Cara Beatrice, io vi amo, io vi adoro, ma più vi amerei, se foste meno gelosa.
Beatrice. Che forse8 non ho ragione d’esser gelosa? Voi con tutte le donne fate il cascamorto. Padrone e serve, dame e pedine, tutte vi piacciono. Alla moglie non ci pensate. Tutto il vostro studio consiste nel farvi un bel tuppè, per correggere i difetti della natura. Vi rendete sino ridicolo per queste vostre affettazioni, e ho da star cheta, e ho da soffrire, e non ho da esser gelosa?
Lelio. (Sentite la femminile9 malizia!) (da sè) Se procuro comparire con pulizia, fo il mio dovere; se qualche bella mi distingue, è un effetto del merito mio, che mi rende amabile senza mia colpa, e se qualcheduno parla di me con poco rispetto, è l’invidia che lo accende di sdegno.
Beatrice. Orsù, venghiamo alla conclusione10. O cambiate costumi, o saprò rimediarvi.
Lelio. Bel bello con queste minaccie. Signora mia, non mi avete trovato nel fango.
Beatrice. Nè io sono qualche villana.
Lelio. Rispettatemi, se volete esser rispettata.
Beatrice. Il vostro modo di vivere non esige rispetto.
Lelio. Ma io poi troverò il segreto di farvi stare a dovere.
Beatrice. In grazia, signore sposo, qual è questo bel segreto?
Lelio. Avete curiosità di saperlo?
Beatrice. Sì, mi farà piacere.
Lelio. Quando si tratta di compiacerla, glielo dirò in confidenza: il segreto per farle aver giudizio, è un bastone. (parte)
Beatrice. A me un bastone! Pretende voler vivere a suo modo, e ch’io non abbia ad esser gelosa? Bel servizio mi ha fatto mio padre a darmi questo canchero per marito! Ma giuro al cielo, o finirà di burlarsi di me, o troverò la maniera di vendicarmi. (parte)
SCENA X.
Altra camera di Pancrazio.
Ottavio e Rosaura.
Rosaura. Crudele! E voi avete cuore d’abbandonarmi?
Ottavio. Ah, Rosaura, non accrescete colle vostre lacrime il mio dolore. Pur troppo sento spezzarmi il cuore nel distaccarmi da voi; ma convien farlo, non vi è rimedio.
Rosaura. Come non vi è rimedio? E chi può violentare gli affetti nostri?
Ottavio. L’autorità di vostro padre.
Rosaura. Ei più non vive.
Ottavio. Sì, ma estinto ancora sa farsi obbedire col rigoroso suo testamento.
Rosaura. Il suo testamento non può dispor del mio cuore.
Ottavio. Ma dispone della vostra fortuna.
Rosaura. La mia fortuna consiste nell’amor vostro11.
Ottavio. Rosaura, vi pentirete d’aver sagrificato per me un’eredità sì preziosa.
Rosaura. V’ingannate; non conoscete il mio cuore. Fate torto alla tenerezza dell’amor mio. Rinunzierei, o caro, per voi, anco un regno.
Ottavio. Sarei indegno del vostro affetto, se non sapessi consigliarvi ad amar meglio voi stessa.
Rosaura. Ah, dite piuttosto che disprezzate il mio cuore, che non vi curate della mia mano.
Ottavio. No, cara, v’amo quanto amar si può mai: son certo di sopravvivere poco alla vostra perdita; ma pure dura necessità mi costringe a rinunziarvi al genitore. Che direbbe il mondo di me, se per mia cagione perdeste voi, perdesse mio padre una sì bella fortuna? Il nostro amore fu sempre a tutti nascosto. Continuiamo12 a tacere; e quella virtù, che c’insegnò finora a dissimulare le nostre fiamme, c’insegni ancora a celarle per l’avvenire.
Rosaura. Voi mi volete veder morta.
Ottavio. Bramo anzi vedervi contenta.
Rosaura. Non è possibile che ad altri porga la mano.
Ottavio. Deh, se mi amate, datemi questa prova dell’amor vostro. Fingete almeno di aggradire le nozze del mio genitore. Non le ricusate sì apertamente; non date campo ai nostri nemici di armarsi contro di noi. Il Dottor vostro zio, Florindo vostro cugino sospirano in voi una tale ripulsa, per impossessarsi delle vostre sostanze. Fate che non isperino di poterle mai conseguire; mostratevi rassegnata ai voleri del padre. Prendete tempo, e (l) (2) intanto il cielo ci aprirà forse qualche strada per migliorare la nostra sorte.
Rosaura. Oh Dio! A che mai mi obbligate? Quando mi credeva dovervi stringere al seno, mi veggo m pericolo di dovervi perdere. Oh dolor, che mi uccide! Oh pena, che mi tormenta! (piange)
SCENA XI13.
Pancrazio e detti.
Pancrazio. Che c’è, figlio mio, che fai tu qua?
Ottavio. Stava consolando la signora Rosaura, che piange amaramente la morte del suo genitore.
Pancrazio. Ma tu la puoi consolar poco, poichè sei più malinconico di lei.
Ottavio. È più facile consolare altrui, che se stesso.
Pancrazio. (Dimmi, sa ella niente del testamento?) (in disparte)
Ottavio. (Sa tutto, lo l’ho avvisata).
Pancrazio. (Sa che io ho da esser suo marito?)
Ottavio. (Anco questo gliel’ho detto).
Pancrazio. (Come l’intend’ella?)
Ottavio. (Si è mostrata rassegnatissima).
Pancrazio. (Dic’ella forse ch’io sia troppo vecchio?)
Ottavio. (Non l’ho sentita dolersi di ciò).
Pancrazio. (Sai tu che abbia nessuno amoretto?)
Ottavio. (Io non so i fatti suoi; signor padre, vi riverisco), (parte)
Pancrazio. (Oh poveretto! La luna è veramente nel suo pieno. Oh, adesso bisogna che studi ogni arte per persuadere questa ragazza a non dire di no). (da sè)
Rosaura. (Oh Dio! in qual cimento mi trovo!) (piange)
Pancrazio. Figlia mia, basta così: non piangete più. Il vostro signor padre, buona memoria, una volta o l’altra aveva da morire. Compatisco il vostro dolore, ma finalmente potete consolarvi che vi ha lasciato tutto, che sarete una donna piuttosto ricca, e che se avete perso un padre che vi voleva bene, avrete un marito che vi adorerà.
Rosaura. (Sospira.)
Pancrazio. Che vuol significare questo sospiro? Piangete il padre che avete perduto? O il marito che avete acquistato? Cara la mia ragazza, ditemi la verità, sarete voi contenta di prendermi? Vi degnerete di questo povero vecchio? Sentite, figliuola mia, chi sposa un vecchio, può pentirsi per un capo solo; ma chi sposa un giovine, può pentirsi per cento capi.
Rosaura. Signor Pancrazio, per carità, lasciatemi in quiete; nel giorno in cui è morto il mio genitore, non ho animo per sentirmi parlar di nozze.
Pancrazio. Dite bene, avete ragione; ma non voglio che vi lasciate sorprendere tanto dalla malinconia. Voglio che stiamo allegramente, e voglio che il nome di sposa vi faccia passare il travaglio di figlia. Vedrete chi sono, vedrete se saprò contentarvi. Non crediate che vi voglia far andare all’antica: sebben son vecchio, sono anche di buon gusto. Vi farò tutto ciò che vorrete. Sentite, cara, non abbiate timore che voglia tenervi in casa serrata. Non sono già nemico delle conversazioni...
Rosaura. Signore, voi credete di consolarmi e mi tormentate.
Pancrazio. Vi son forse odioso? Vi do fastidio? Non mi volete? Parlatemi con libertà.
Rosaura. Per ora il mio cordoglio non mi lascia in libertà di spiegare i miei sentimenti.
Pancrazio. Via, vi lascierò piangere, vi lascierò sfogare la vostra passione. Tornerò da voi avanti sera, ma ricordatevi che in tutt’oggi avete da darmi qualche buona risposta. Pensate ai casi vostri, ricordatevi che sposando me siete padrona di tutto, e non togliendomi avete perduto ogni cosa. Consigliatevi colla vostra prudenza; pensateci bene, e considerate che chi vi parla vi ama, vi stima, desidera il vostro bene, vi offerisce assistenza e vi dona il cuore.SCENA XII.
Rosaura sola.
Ah, ch’io non ascolto altri consigli che quelli del mio cuore, acceso dell’amore di Ottavio! Perderò anche la vita, non che la roba, pria di perdere il caro bene. So ch’egli mi ama, so che la sua virtù lo stimola a rinunziarmi, per timore di non vedermi pregiudicata. Ma s’inganna, se crede piacermi con questa sua crudel pietà. Saprò amarlo ad ogni costo, e farò conoscere al mondo che più della mia fortuna amo la fede, la costanza e l’amore. (parte)
SCENA XIII.
Strada.
Florindo e Trastullo14.
Florindo. Che ne dici, Trastullo, dell’enorme ingiustizia fattami dal fu Petronio mio zio?
Trastullo. Dico che ha fatto male, perchè finalmente ella è figlio di una sua sorella, e non l’aveva da privare dell’eredità.
Florindo. In quanto all’eredità mi spiace, è vero, ma non è il massimo de’ miei dispiaceri. Quel che mi sta sul cuore, è il dover perder Rosaura.
Trastullo. Ma la signora Rosaura corrisponde all’amore di vossignoria?
Florindo. Io veramente non ho avuto mai campo di dichiararmi con mia cugina, vivente mio zio, perchè egli mi vedea di mal occhio; ma da qualche incontro accaduto fra lei e me, spero non esserle indifferente.
Trastullo. È una cattiva cosa il far all’amore da sè solo, quando uno non è sicuro della corrispondenza.
Florindo. Quel vecchio di Pancrazio ci ha assassinati: ha sedotto mio zio, e gli ha rapito15 la figlia e l’eredità; ma il signor Dottore lo metterà in rovina con i rigiri16 forensi; ed io, quand’altro non riesca, con un colpo gli leverò l’eredità, la sposa e la vita.
Trastullo. Mi perdoni, questi rimedi son troppo violenti; potrebbero17 precipitare non solo il signor Pancrazio, ma nell’istesso tempo vossignoria ancora. Finalmente il povero galantuomo ha procurato il suo interesse...
Florindo. Come? Tu difendi Pancrazio? Ancora hai della passione per questo tuo antico padrone? Se così è, vattene dal mio servizio.
Trastullo. Io non ho veruna passione per il signor Pancrazio, parlo per vossignoria, che non vorrei vederla precipitare e senza frutto. Che cosa le gioverebbe il far di tutto per conseguire la signora Rosaura, quando poi ella non acconsentisse ad esser sua consorte?
Florindo. Perchè ha da ricusarmi? Ho io difetti tali che meritino una ripulsa?
Trastullo. Non dico questo, ma ella sa che cosa sono le donne capricciose e bizzarre. Vedendo che per averla vossignoria usa delle violenze, si potrebbe ostinare e dire non lo voglio.
Florindo. Dunque che mi consigli di fare?
Trastullo. Io direi che ella procurasse di parlare con la signora Rosaura, assicurarsi del suo affetto, e poi penseremo al rimanente.
Florindo. Non mi dispiace; se le parlo, son sicuro di persuaderla. Le porrò in vista il ridicoloso matrimonio che ella è per fare con quel vecchio di Pancrazio; le proporrò un più felice imeneo, e spero tirarla dal mio partito.
Trastullo. Così va bene. Questo si chiama operare con giudizio.
Florindo. Ora pensar conviene al modo di poterle parlare.
Trastullo. Bisognerà aspettare qualche congiuntura.
Florindo. Non vi è tempo da perdere. Se non le parlo stanotte, è inutile che più ci pensi.
Trastullo. Stanotte? Come vuole ella fare?
Florindo. Tu sei pratico della casa, tu sei amico d’Arlecchino. Fiammetta è tua sorella: o in un modo, o nell’altro, mi puoi introdurre.
Trastullo. Ma non vorrei che nascesse per causa mia...
Florindo. Ho inteso; tu sei un uomo finto; tu tieni da Pancrazio. Tu m’inganni. Ma io non avrò bisogno di te. Opererò diverscimente. Ucciderò quel vecchio, e mi libererò da un rivale.
Trastullo. No, non lo faccia, per amor del cielo.
Florindo. O fammi parlar con Rosaura, o io farò delle pazze risoluzioni.
Trastullo. Via, la voglio contentare. Arlecchino ha da essere mio cognato. Spero che mi farà questo servizio. Vedo aprir la porta. Si ritiri e lasci operare a me.
Florindo. Opera a dovere, se ti preme la tua e la mia vita. (parte)
SCENA XIV.
Trastullo18, poi Arlecchino.
Trastullo. Ho piacere d’aver riparato al pericolo del signor Pancrazio. Egli è stato il mio padrone, e mi ha fatto de’ benefizi, e non me ne posso dimenticare. Son obbligato a servir chi mi paga, ma sino a un certo segno; bisogna procurar di contentarlo, contribuire alle sue soddisfazioni, ma dentro i limiti, senza precipizi e senza arrischiare la vita di nessuno. Così deve fare un servitore fedele, un uomo onorato, e così... Ma viene Arlecchino fuori di casa; la sorte lo manda a proposito, mi prevalerò di lui.
Arlecchino. Cossa diavolo fa sta femmena, che non la vien?
Trastullo. Cognato, ti saluto.
Arlecchino. Co ti me dis cugnà, ti me consoli, ma gh’ho paura...
Trastullo. Niente, te l’ho promesso; mia sorella sarà tua moglie. Vieni con me, che ti ho da parlare.
Arlecchino. Caro cugnà, no posso vegnir.
Trastullo. Perchè non puoi tu venire?
Arlecchino. Perchè aspetto Fiammetta, to sorella, che l’è fora de cà, e me preme de vederla e ghe vôi parlar.
Trastullo. Le parlerai un’altra volta, andiamo.
Arlecchino. M’è vegnù in mente una cossa; se no ghe la digo subito, me la scordo.
Trastullo. Cos’è questa gran cosa?
Arlecchino. L’è che voi dirghe quando la se destriga de torme per mari.
Trastullo. Eh, glielo dirai un’altra volta.
Arlecchino. Bisogna che ghel diga adesso.
Trastullo. Ma perchè adesso?
Arlecchino. Perchè me sento inasinido per el matrimonio.
Trastullo. Via, andiamo, gli parlerò io.
Arlecchino. Mo sior no; vôi far mi.
Trastullo. Vieni, che ti ho da parlare.
Arlecchino. Làsseme concluder con to sorella e po ti me parlerà.
Trastullo. Ti prometto che in questo giorno mia sorella sarà tua moglie.
Arlecchino. Varda come che ti te impegni!
Trastullo. Te lo prometto.
Arlecchino. Varda che ti ghe penserà ti.
Trastullo. Son galantuomo: quando prometto, non manco. Ma ancora tu hai da fare una cosa per me.
Arlecchino. Marideme, e farò tutto quel che ti vol.
Trastullo. Andiamo; qua in pubblico non ti voglio parlare.
Arlecchino. Son con ti, ma... Arrecordete... Non posso più.
SCENA XV19.
Fiammetta in zendale, e detti.
Arlecchino. Cugnà, non vegno altro.
Trastullo. Perchè?
Arlecchino. La calamita me tira de qua. (accennando Fiammetta)
Trastullo. Andiamo; le parlerò.
Arlecchino. Parleghe, e pò vegnirò.
Trastullo. (È meglio che la finisca). (da sè) Sorella, vi riverisco.
Fiammetta. Buon giorno, fratello.
Arlecchino. (Via, da bravo, aspetto la risposta). (piano a Trastullo)
Trastullo. (Quando facciamo questo matrimonio con Arlecchino?) (piano a Fiammetta)
Fiammetta. (Mai).
Trastullo. (Come?...)
Arlecchino. (Cossa hala dito?) (piano a Trastullo)
Trastullo. (Che non la vede l’ora). (piano ad Arlecchino) (Gli avete pure promesso). (piano a Fiammetta)
Fiammetta. (Non lo posso vedere). (piano a Trastullo)
Arlecchino. (Me vorla ben?) (piano a Trastullo)
Trastullo. (Vi adora). (piano ad Arlecchino) (Dunque non lo volete sposare?) (piano a Fiammetta)
Fiammetta. (No assolutamente). (piano a Trastullo)
Trastullo. (Son vostro fratello, e dovete obbedirmi). (piano a Fiammetta)
Fiammetta. (Caro signor fratello, non vi stimo un corno). (piano a Trastullo)
Arlecchino. (Cossa disela?) (piano a Trastullo)
Trastullo. (Discorriamo della dote). (piano ad Arlecchino)
Arlecchino. Via, concludemo.
Trastullo. Animo, sbrighiamoci.
Fiammetta. M’avete inteso?
Trastullo. Avete stabilito così?
Fiammetta. Così senz’altro.
Arlecchino. Via, quand l’ha stabilido cussì, sarà cussì.
Trastullo. Sarai contento? (ad Arlecchino)
Arlecchino. Contentissimo.
Trastullo. E voi? (a Fiammetta)
Fiammetta. Arcicontenta.
Trastullo. Me ne rallegro.
Arlecchino. Me ne consolo.
Fiammetta. La riverisco. (entra in casa)
Arlecchino. Cugnà, andemo; te son obbligado. Va là, che ti è un omo de garbo. (parte)
Trastullo. Adesso che sei maritato, tu stai bene. (parte)
SCENA XVI.
Camera di Rosaura.
Rosaura a sedere.
Ah, che per me non vi è più rimedio. Il giorno si va avanzando, ed io deggio determinarmi ad un qualche partito. Ottavio è risoluto d’abbandonarmi, e sia la sua o incostanza, o virtù, persiste nel ricusar le mie nozze. Se mi sposo a Pancrazio, perdo per sempre la speranza di conseguirlo; se mi dichiaro di volerlo, rimango miserabile, e Ottavio non vorrà precipitare la sua casa. Dunque, che deggio fare? Ah padre incauto e crudele! Mi lasciasti ricca, con una condizione che mi rende la più miserabile della terra. Ohimè, il dolore, l’affanno... la disperazione... mi sento morire... (sviene e quasi precipita dalla sedia)
SCENA XVII.
Lelio e detta.
Lelio. Saldi, signora Rosaura. (la trattiene che non cada)
Rosaura. Ohimè!
Lelio. Rimettetevi; che cos’è stato?
Rosaura. Signor Lelio, lasciatemi, per pietà.
SCENA XVIII.
Beatrice che osserva, e detti.
Lelio. Tolga il cielo che io vi lasci in braccio alla disperazione.
Rosaura. Almeno non palesate a veruno questa mia debolezza.
Lelio. Non temete, sarò segreto.
Rosaura. Mi tradirete.
Lelio. Ve lo giuro sull’onor mio.
Beatrice. Non temete, signora Rosaura. Il signor Lelio vi sarà fedele, io pure ve ne assicuro.
Rosaura. (Mancava quest’importuna, per accrescere la mia confusione!) (da sè)
Lelio. (Eccomi in un altro imbarazzo!), (da sè)
Beatrice. Non vi smarrite. Non abbiate soggezione di me. Impiegherò, se volete, anco i miei uffizi presso del signor Lelio a vostro favore. (con ironia)
Rosaura. (Quanto m’annoia con questo sciocco discorso). (da sè) Signora, male mi conoscete; potrei disingannarvi, ma non mi curo di farlo. L’onor mio non ha bisogno di altre giustificazioni. Vi dirò solo che chi mal opra, mal pensa. (parte)
SCENA XIX.
Beatrice e Lelio.
Beatrice. Sentite l’impertinente? Ma con voi, signor consorte carissimo, siamo sempre alle medesime.
Lelio. Questa volta, credetemi, v’ingannate.
Beatrice. Oh, sempre m’inganno, a sentir voi. Grazie al cielo, non son cieca, ho veduto io stessa; non son sorda, ho sentito colle mie proprie orecchie.
Lelio. Che avete visto? Che avete inteso?
Beatrice. Abbracciamenti e parole amorose.
Lelio. Vi torno a dire che v’ingannate.
Beatrice. Saprò trovarvi rimedio.
Lelio. Vi giuro, signora Beatrice...
Beatrice. Non più giuramenti. Avete giurato abbastanza.
Lelio. Rosaura è giovane troppo onesta.
Beatrice. Le vostre bellezze l’hanno incantata.
Lelio. Non le ho mai parlato d’amore.
Beatrice. Siete un bugiardo.
Lelio. Son sincero.
Beatrice. Il diavolo che vi porti.
Lelio. Partirò, per non perdervi il rispetto.
Beatrice. Andate alla malora.
Lelio. Fastidiosissima20 donna! Il ciel me l’ha data per mio tormento. (parte)
SCENA XX.
Beatrice, poi Pancrazio.
Beatrice. In questa casa non si sta bene. Non posso comandare, non posso impedire che vi sieno21 dell’altre donne. Le serve non le posso scegliere a modo mio. Mio marito è una bestia, non si può contenere. Per aver la mia pace, è necessario ch’io me ne vada. Ecco mio padre, giunge appunto opportuno. Signor padre, con vostra buona grazia, io me ne voglio andare di casa vostra.
Pancrazio22. Perchè, figliuola mia, mi volete voi abbandonare? Vi manca il vostro bisogno? Non siete ben trattata? Di che cosa vi lamentate?
Beatrice. Di voi non mi lamento, ma di quel pazzo di mio marito.
Pancrazio23. Che cosa vi ha egli fatto?
Beatrice. Fa l’innamorato con tutte, ed anco con la signora Rosaura.
Pancrazio24. La signora Rosaura è una ragazza di giudizio, e non vi è pericolo che ella gli dia retta.
Beatrice. Non vi è pericolo, eh? Oh, quanto l’apparenza inganna! Ho veduto ed ho sentito io stessa. Basta, non voglio dir nulla, ma credetemi che Rosaura non ha quel giudizio che vi supponete.
Pancrazio25. Come? Che cosa dite? Voi mi fate restare incantato! Rosaura con vostro marito...
Beatrice. Signor sì, con mio marito fa la fraschetta. Io non sono di quelle che mettono male nelle famiglie. Non mi piace mormorare; per altro vi direi quanti abbracciamenti ha ella dati... Quasi, quasi l’ho detta non volendo. Trovateci rimedio, che sarà meglio per tutti. (parte)
SCENA XXI26.
Pancrazio solo.
Il ciel ne guardi che fosse una di quelle che parlano. Che cosa mai avrebbe potuto dir di vantaggio? Rosaura è innamorata del mio genero? Spera corrispondenza, benchè egli sia ammogliato? Adesso intendo perchè con tanta freddezza ella parla meco, e perchè ha difficoltà di accettarmi per suo marito. Bisogna che ella sia acciecata affatto per colui. Non sarebbe la prima ragazza che avesse dato in una debolezza di questa sorta. Ma io ci rimedierò. Beatrice dice bene. Lelio fuor di casa. Ma stimo quella cara signora Rosaura! Credeva che piangesse pel morto, ed ella sospirava pel vivo. Non so che dire. Non si sa più a chi credere. Il mondo è pieno di bugie, pieno d’inganni. Mah! Ho io a creder tutto? Signor no. Bisogna venire in chiaro della verità. L’uomo che ha giudizio, non precipita nelle risoluzioni. Vi pensa, si soddisfa e poi risolve. Così farò ancor io. Penserò, osserverò e, a tempo e luogo, con prudenza e con maturità risolverò. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Nell’ed. Bettinelli è Pantalone e parla in dialetto veneziano: vedasi Appendice.
- ↑ Nell’ed. Bettinelli è Brighella e parla in dialetto: vedasi Appendice.
- ↑ Vedasi Appendice.
- ↑ Bettin.: la dis.
- ↑ Bett.: anderò io.
- ↑ Bettin. e Paper.: redicolo.
- ↑ Bett.: colla cameriera, eh?
- ↑ Pasq.: Che? Forse ecc.
- ↑ Bett.: femminina.
- ↑ Bett: alle corte.
- ↑ Pasq.: La mia fortuna non consiste nell’amor vostro?
- ↑ Bett., Pap., ecc.: continoviamo.
- ↑ Vedasi Appendice.
- ↑ Vedasi Appendice.
- ↑ Bett.: carpito.
- ↑ Bett.: raggiri.
- ↑ Paper.: potrebbono.
- ↑ Vedasi Appendice.
- ↑ Vedasi Appendice.
- ↑ Bett.: Gran.
- ↑ Bett: che non vi siano.
- ↑ Bett.: «Pant. Perchè fia mia, me voleu abbandonar? Ve manca el vostro bisogno? No se ben trattada? De cossa ve lamenteu?»
- ↑ Bett.: «Pant. Cossa v’ha fatto»
- ↑ Bett.: «Pant. Siora Rosaura xe una putta de giudizio, no gh’è pericolo che la ghe daga bagolo»
- ↑ Bett.: «Pant. Come! Cassa diseu? Vu me fè restar incantà. Rosaura con vostro mario...»
- ↑ Vedasi Appendice.