Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1908, III.djvu/543


L'EREDE FORTUNATA 527

Arlecchino. Ah, sior padron...

Ottavio. Va al diavolo.

Arlecchino. Che vada? Anderò. (in atto di partire)

Ottavio. Cosa volevi da me?

Arlecchino. Aveva da dirghe un no so che, per part de siora Rosaura; ma vado via.

Ottavio. No, fermati. Cosa mi dovevi tu dire?

Arlecchino. Vado al diavolo.

Ottavio. Parla, dico, o ti bastono. (alza il bastone)

Arlecchino. La se ferma, parlerò. Siora Rosaura dis1 cussì, che ghe premeria de parlarghe.

Ottavio. Rosaura? Dove?

Arlecchino. L’è in te la so camera.

Ottavio. Vado subito. Ma no... Dille che ora non posso.

Arlecchino. Gnor sì. (in atto di partire)

Ottavio. Aspetta... Sarà meglio che io vada. (s’incammina)

Arlecchino. Gnor sì, sarà mei.

Ottavio. Ma che mai potrò dirle? No, Arlecchino, dille che non mi hai trovato.

Arlecchino. Ghe lo dirò. (in atto di partire)

Ottavio. Fermati. Se scopre non esser vero, si lagnerà di me. Anderò dunque2.

Arlecchino. Da bravo.

Ottavio. Mah! nella confusione, in cui sono... Vanne, dille che anderò poi.

Arlecchino. Non occorr’altro. (in atto di partire)

Ottavio. No, arrestati, il mio dovere è ch’io vada. (parte)

SCENA V.

Arlecchino, poi Fiammetta.

Arlecchino. Oh, che bel matto!

Fiammetta. Arlecchino...

Arlecchino. L’è veramente ridicolo3.

  1. Bettin.: la dis.
  2. Bett.: anderò io.
  3. Bettin. e Paper.: redicolo.