L'astronomo Giuseppe Piazzi/Capitolo IV
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IV.
Palermo fu città in ogni tempo illustre per uomini di scienze e lettere; lo era massimamente all’arrivo di Piazzi.
Ivi, le riforme promosse ed iniziate nella pubblica istruzione di Sicilia dal ministro di Stato, marchese della Sambuca, furono tali e tante, che le più alte e severe discipline scientifiche servirono ben presto a splendore inusato. Non è già che di valentuomini fosse difetto in quell’Ateneo, perchè pochi soli di essi bastavano a dargli lustro e decoro; ma l’avere quell’intelligente ministro fondato nuove Accademie e nuovi Seminari, proposto premî a migliori studiosi, istituito una commissione di uomini, ragguardevoli in dignità e sapere, per l’ordinamento degli studî, aggiunto nuove facoltà a quelle sino allora insegnate, e chiamato ad occuparle professori per fama chiarissimi, non pur di Sicilia tutta, ma anche del continente italiano e di fuori, accrebbe a quell’Università l’antica riputazione, e diede forte eccitamento alle scienze e alle lettere. Mentre per la nuova cattedra di Pandette chiamavasi il valoroso Rosario Bisso, per la botanica Giuseppe Tineo, per l’agricoltura Paolo Balsamo, e pel diritto pubblico siciliano quella mente altissima di Rosario Gregorio, il cui solo nome è un elogio; mentre alcuni di essi, ed altri che qui non accade ricordare, viaggiavano per l’Italia, Francia ed Inghilterra, apprendendovi metodi e sistemi nuovi, e progressi recenti; veniva anche lui, il modesto prete regolare, invitato a Palermo, professore di matematiche da prima, e poco appresso di astronomia. E sì che fu grande ventura per la scienza lo aver egli, Giuseppe Piazzi, trovato miglior ordine di cose e colà un avanzamento di studi tutt’altro che sperabile prima della mancanza de’ Gesuiti; e scienziati degni di lui, com’egli lo era di loro. Chè, oltre a’ suddetti, erano vanto all’insulare metropoli Gabriello Lancillotto Castelli, principe di Torremuzza, continuator del Paruta, detto a’ suoi di sole dell’archeologia; e un Vincenzo Miceli e un Tommaso Natale, precursori, l’uno del moderno panteismo alemanno, l’altro di Cesare Beccaria. E Vincenzo Sergio, che primo introdusse in Sicilia lo studio dell’economia pubblica; e, per tacere di altri, un Domenico Schiavo, compilatore delle Memorie per servire alla storia letteraria di Sicilia, duce a quei tempi, anzi anima della sicula letteratura. E, morti monsignor Testa, il canonico Schiavo e Vito d’Amico, vi fiorivano ancora, loro allievi e seguaci, i Cari, i Fleres, i De Cosmi, i Serina, i Zerilli, i Di Blasi. Il marchese di Villabianca, assai meglio che della nobiltà siciliana, scriveva dei sette grandi uffizi dell’antica corona; e il Salvagnini insegnava le belle lettere alla gioventù, e formavala, nella sua scuola, sopra i classici, vere fonti dell’eloquenza e del buon gusto; in attesa che un Michelangelo Monti con precetti migliori e, più ancora, col proprio esempio la guidasse a maggiore altezza. — E vi eri, infine, tu, o Giovanni Meli, amore e gloria di tua isola illustre, che, dopo tanti secoli, coi canti del nativo dialetto, ti elevasti emulo incontrastato ed immortale di Teocrito e di Anacreonte; tu, dalle cui labbra scorse miele sì dolce, da formare non solo la delizia de’ tuoi, ma l’ammirazione e il diletto dei letterati d’Europa, e persin dei potenti e delle corti. — Gran parte di sì nobile e lodata gente riunivasi in letterari congressi presso due prelati, venerabili per dignità e per costumi, monsignor Ventimiglia, già vescovo di Catania, e monsignore Alfonso Airoldi, giudice della regia Monarchia, ambo cultori di scienze e lettere, ambo mecenati ed amici di coloro che le professavano.
Ma se il movimento riformatore era cominciato, importava soprattutto continuarlo; onde il Piazzi dièssi tutt’anima al cómpito suo, che gli pareva doversi forse più d’ogni altro coltivare. Lo aiutarono pertanto le amiche disposizioni d’uomini savi ed onesti, essi pure capaci dei tempi: e’ quindi a rifar metodi, a mutar libri di testo, specie quelli del p. Macone; e al Wolfio sostituisce il Marie, e rompe le strette in cui la tradizionale dommatica dell’apriorismo avvinceva l’intiera filosofia. Delle quali innovazioni però non a lui solo, ma pur a’ deputati dell’Accademia hassi a dar lode: e la mediocrità, come sempre, a darsi briga, a strepitarne, a malignare indegnamente.
Pertanto, può dirsi che il suo arrivo colà segnasse una fase di progresso e di attività negli studi; nature buone ed elette gli si accostarono, ed egli ad esse; e nel divulgamento del bene nasceva l’emulazione e si assodava il sapere: chè niente vi ha di più proficuo e gentile dello associarsi degl’ingegni negli uffici della pubblica istruzione, o del mutuo scambio d’idee fra cultori e maestri delle molteplici discipline dell’umano scibile.
E tuttavia questi conati speciali non avrebbero potuto conseguire l’intento sperato. Vuol onestà diasi a ciascun la sua parte e, soprattutto nella storia, giova sceverare il vero dal falso, e attribuire imparzialmente a ciascuno la virtù che gli spetta.
Ferdinando di Borbone, che sedeva, sul trono di Napoli, fu principe esclusivamente inteso agli esercizi della persona, valevoli alla gagliardia del corpo, solo curante de’ materiali interessi. Sdegnoso di coltivar la mente a’ forti studi, e di ingentilire l’animo, mostrossi vero tipo di ignavia e d’abjettezza; e, a dare una giusta idea di lui, citeremo del ritratto orribile, che ne fa il Colletta, queste parole: «Fanciullo, non soffriva conversare coi sapienti, e, fatto adulto, ne vergognava.»1 Non ostante, torna onesto il dire che (forse perch’e’ credesse dalla facilitata applicazione degli studi meglio conseguire cieca obbedienza ne’ sudditi, anzi che quel lume di civiltà e di progresso, che muove inseparabile con la libertà, cui certamente non poteva amare) aveva ordinato pubbliche biblioteche, orti botanici, nuove accademie con nuove cattedre e professori. Allora, scelti i migliori tra’ più giovani ingegni, vennero essi spediti all’estero; e chi in Germania a studiare la mineralogia, chi in Francia, Spagna e Svezia a istruirsi nell’architettura militare e navale e ad impararvi la nautica. Intanto a Napoli, illustrata dai Galiani, Filangieri e da altri egregi, fondavasi una scuola militare, una scuola per gli ufficiali ingegneri ed artiglieri, una terza per la marina. Era necessario mettersi a paro, o almeno proficuamente imitare le altre nazioni; e perciò si oprava già secondo chiedevano i tempi. Ma, e che poteva mai valere la scuola di nautica senza quella d’astronomia? che cosa la scuola di astronomia senza una specola, per la quale sola vengono dalla pratica confermati i calcoli della scienza? — Si prescrisse quindi nel 1786 a spese dello Stato l’erezione di due Osservatori, uno in Napoli, l’altro in Palermo, e vennero assegnati professori adatti e valenti al nuovo ufficio.
Morto il marchese Caracciolo, vicerè per la Sicilia, uomo dotto, protettore largo e sollecito di scienziati ed artisti, eragli succeduto Tomaso d’Aquino, principe di Caramanico; il quale, sebbene per queste doti inferiore al primo, non ostante aveva egli pure animo incline al lustro e decoro della patria, mercè la protezione delle scienze. Onde non solo non ascoltò la gelosia e l’invidia che sorgevano bassamente a mordere il Piazzi, ma, giusto estimatore de’ meriti suoi, lo scelse a professore d’astronomia per la futura specola. L’erezione della quale, precipuo intento del Valtellinese (in esso pure largamente favoreggiato dallo stesso Segretario generale del governo dell’isola, cavalier Francesco Cavelli), non avrebbe soddisfatto l’uomo della scienza, se non si fosse eziandio pensato a provvederlo di tutti i migliori strumenti d’astronomia. Nè questo solo; ma gli bisognava visitare i più illustri astronomi d’Europa per esercitarsi largamente nella pratica della sua dottrina. Se ne fece domanda al re, che acconsentì: ma se la fortuna gli mostrò buon viso, e’ fu uomo da rispondere degnamente a tali larghezze. Provollo il fatto. Ciò avvenne nel 1786, quello stesso anno in cui la Sicilia pianse la perdita dell’illustre suo Leonardo Ximenes: a un astro splendido che tramontava, altro ne succedeva ancora più splendido.
Il Piazzi lasciò Palermo nel settembre del 1787, e si volse a Parigi.
In quei tempi l’Europa intiera sembrava assumere nuova lena per migliorare le condizioni de’ suoi studi: perciò, un’attività singolare, in grandissimo onore le scienze in ogni Stato, e soprattutto coltivate le sublimi. «La fisica, la chimica, l’idraulica, la meccanica, l’anatomia, la storia naturale — così scrive lo Scrofani — e in particolare la mineralogia, la botanica, la metallurgia, toccavano il punto di loro perfezione: le università travagliavansi con migliori regole a dirigere la gioventù; le accademie possedevano insigni professori e davano periodicamente alla luce il risultamento delle loro dotte fatiche: aprivansi dappertutto licei, scuole, sì pubbliche che private; e mentre da un lato si scioglievano e si ricomponevano gli elementi e quasi la natura delle cose; mentre con l’invenzione dei nuovi strumenti cambiavasi, per così dire, lo stato del cielo, — i musei, gli orti botanici, le biblioteche, i giornali scientifici toglievano ogni distanza tra le quattro parti del mondo, e ne riunivano non che le produzioni della natura e dell’industria, ma quelle ancora della mente.»2
D’altra parte, questo l’aspetto politico d’Europa.
Già da qualche tempo andavano manifestandosi in tutti i popoli nuovi bisogni, desideri di cose nuove; e i regnanti — sebbene cercassero frenarli per tema di vederli cadere in intemperanze, conseguenze immancabili al troppo rioperare e al tutto niegare — non pertanto vedevano la necessità di farli, almeno in parte, soddisfatti nelle loro domande, ed essere indispensabili alcune riforme nelle leggi con le quali reggevano i sudditi. Giuseppe II, reggitore dei dominj austriaci, dopo aver percorso gli Stati suoi, all’intento di meglio conoscerne i bisogni, dava mano a importanti mutamenti: combattè vittoriosamente gli ordini feudali; promosse i buoni studi; soccorse largamente ai giovani poveri promettevoli per ingegno; incoraggiò l’agricoltura; onde l’imperio sotto il saggio suo reggimento prosperò, fiorì; i popoli l’amarono, ed ei ricambiolli di pari affetto. I principi d’Italia imitarono il bell’esempio dato dal monarca austriaco. Leopoldo di Toscana alle leggi impopolari, intricate, alcune eziandio crudeli, sostituì leggi dolci e pacifiche; e quel paese ricorda tuttavia con animo grato il paterno governo del buono e tranquillo sovrano.
Modena, sotto Ercole d’Este, Parma e Piacenza sotto la signoria dell’infante don Filippo, andavano ogni giorno avvantaggiandosi d’istituzioni sapienti; le quali, sebbene non rispondessero intieramente alle aspirazioni dei popoli, bastavano però a farli contenti; avvegnaché i loro prìncipi si mostrassero disposti a continuare le novità incominciate con sommo lor beneficio.
Napoli, più di ogni altro Stato italiano, abbisognava di riforme: re Ferdinando soppresse molti privilegi baronali; tolse i pedaggi, gravezza odiosissima; fondò a San Leucio una colonia agricola; diede maggior libertà politica, più sicura libertà civile; e, ciò che assai importava in quel paese, la tolleranza in cose di religione.
Vittorio Amedeo III, che allora reggeva il Piemonte, reputando dover la milizia soprastare ad ogni ordine civile, aveva volto ogni sua cura all’esercito; e, allargandolo fuor di misura, rovinò l’erario dello Stato, lasciatogli floridissimo dal padre, Carlo Emanuele. Accordava grande favore e potenza alla nobiltà, alla quale concesse tutti i carichi della milizia; onde le armi, per le quali caricava il Piemonte di enormi debiti in ragion de’ tempi, prevalsero sopra gli ordini civili con grave danno dell’universale.
Venezia e Genova avevano perduto tutta la loro vigoria; gli animi venuti infiacchiti; sussistevano però le antiche buone leggi e istituzioni, che avevano loro valso secoli di prosperità e di potenza; il loro edifizio politico doveva crollare al primo urto.
Siedeva allora su la sedia apostolica Pio VI, cui da prima la fortuna sorrise felicissima, e si volse da poi grandemente avversa. Uomo d’ingegno non comune, d’animo generoso, d’alto sentire, costumato. Tra il molto che oprò a benefìcio de’ sudditi, notiamo principalissimo l’asciugamento delle paludi Pontine; lavoro che, se non potè condurre a fine, menò non pertanto a buon punto.
Di sua magnificenza ricordiamo la sacristia del tempio di San Pietro e il museo. Se Roma viveva tranquilla sotto il governo del buon Pio, il collegio de’ Cardinali veniva agitato dall’Orsini, il quale, disegnando una Lega Italica, capo il Pontefice, tendeva ad allargare le prerogative papali sopra scala assai più vasta di quella ideata dal famoso Gregorio VII.
Adunque, allorchè Piazzi giunse a Parigi, colà cominciavano a svolgersi i primi semi della grande rivoluzione. Presentossi a Lalande. L’insigne astronomo, che professava al Collegio di Francia, e dal quale dipendeva l’Osservatorio di quell’antico e riputato Istituto, contava allora cinquantacinque anni; Piazzi aveva varcato l’ottavo suo lustro. Apostolo dell’ateismo (onde più tardi, non saprei con quanta verità, il Buonaparte, imperatore, da Schönbrunn — 18 gennajo 1805 — dirigendosi all’Istituto, il diceva caduto in uno stato d’infanzia), anima disdegnosa e piena di sè, pare accogliesse quasi freddamente in sua casa il professore palermitano. La diffidenza mutossi al divinar dell’ingegno: il nuovo scolaro ascoltava le lezioni di tanto maestro, giornalmente assistendo alle osservazioni di lui.3 Provetto nelle matematiche, già profondo teoretico in astronomia, cercava la corrispondenza dei princìpi nella pratica, e intendeva all’uso delle macchine, di cui solo abbisognava: la scienza acquisita confermava nei metodi. Allora cominciarono ad aprirsi pel Valtellinese nuovi orizzonti, e provò in sè stesso impressioni nuovissime; e la verità grado a grado ad apparirgli all’intelletto, quasi timida di sopraffarlo con sua luce improvvisa. Era come «un immenso oceano — sono sue parole — dove quanto più internavasi, tanto meno scuopriva della terra, alla quale agognava.» Turbossi; dubitò di sue forze, sconsolato dell’avvenire: si sentiva mancare, ed ebbe istanti di fosco presentimento. Ce lo dice lui stesso. «Un giorno, condottomi al giardino del Lucemburgo, solo, pensieroso, passeggiando sotto quegli olmi antichi, che il circondavano, passai meco stesso a rivista i miei timori, le mie speranze: abbandonerò l’impresa? e che diranno gli amici, i protettori, e quel re, padre insieme e mecenate, che tanto ha fatto per la scienza e per me? e le spese perdute, e la fiducia riposta nelle mie promesse, tradita? e il maligno sorriso degli emuli, che non mi credean capace di tanta mole? — dove andrò, a che altro converrà ch’io m’appigli? Ma, all’opposto, non rimane più a me che l’abbattimento? non potrò io raddoppiare l’attività e l’impegno, sudare, e, se occorre, morire anche nell’opera? In fine, io ho a
cuore a rendermi benevolo quest’uomo ritroso, da cui può dipendere la mia perdità, o il mio trionfo?» Parole di grande ammaestramento per tutti, perchè rivelano precipuamente questi due fatti: 1°, che anco i sommi restano talvolta impauriti e disfatti nelle ardue ricerche del vero scientifico; 2°, che, pur di perdurare e volere, si riesce d’ordinario all’ambito trionfo. Volle, e vinse. Da quest’epoca infatti cominciano i trionfi dei pertinaci studi.La irta ritrosia di Lalande svanì dinanzi l’amorevole docilità del discepolo, dinanzi la proficua assistenza, e il suo vasto sapere; cosicchè se ’l tenne in casa propria più che maestro, padre, e non molto passò che il Teatino sentì acquietarsi l’animo, vide serenarsi l’orizzonte, si racconsolò con l’avvenire. Cosicchè Lalande volle in quel tempo, come nota Maurizio Monti4, fosse consegnato alle stampe quest’elogio di lui: Il travailla avec nous de manière que nous édifie...5.— Aveva dimorato non più di un anno e mezzo a Parigi: e, non ostante la brevità del tempo, aveva compiuto uno stragrande cammino! Convinto che il sapere non viene solo da’ libri, ma si comunica non poco per le relazioni e il conversare dei dotti, accostossi a’ più notevoli uomini che allora illustravano quella metropoli e la Francia. Onde, oltre il Lalande, il La Place, il La Grange, il de Lambre, Bailly e Teaural, ecc., e’ si compagna al Le Gendre, al nostro Cassini e al Méchain, che aveva a quei giorni scoperto due nuove comete, calcolandone l’orbita, nella spedizione astronomica fatta per fermare la differenza dei meridiani tra Greenwich e Parigi; e lor presta non piccolo aiuto. Per lo che, quando partì per l’Inghilterra, dopo di essere stato colmo di non comuni lodi dal celebre maestro, si scarso con tutti, ebbe ancora la consolazione di sentirsi dire da esso: «Correte, o Piazzi, dove il vostro destino vi attende; e allora non dimenticate il vostro precettore ed amico.»
Note
- ↑ Storia del reame di Napoli.
- ↑ Elogio di Giuseppe Piazzi.
- ↑ La seguente lettera, rinvenuta di questi giorni negli archivi della città di Palermox 1 da quell’egregio uomo e illustre scrittore ch’è il cav. Giuseppe Pitrè, prova in quali buoni rapporti di stima ed amicizia il Piazzi stesse col dotto francese; e noi siamo lietissimi pubblicarla in questa circostanza come documento e come novità, dichiarando la nostra viva riconoscenza a quel degnissimo amico nostro, il Pitrè, lustro e decoro degli studi nella benemerita metropoli di Sicilia.
La lettera tocca la questione del Codice Arabo, scoperto dal padre Vella, e nella sopraccarta è indiritta monsieur le chanoine Rosario Gregorio, e vien da Parigi senza datax 2; nel titolo comincia con le iniziali A. C., cioè Amico Carissimo, e invero accenna due fatti egualmente importanti. Il primo riguarda la commissione data dal Gregorio al Piazzi di far trascrivere da una Biblioteca di Parigi il Novairo, che poi il Gregorio stampava nella sua Biblioteca Araba; e a questo proposito l’illustre Valtellinese lo avvisava che sin d’allora già dubitavasi da Mr Caussin dei codici arabi che il Vella andava pubblicando. L’altro fatto riguarda gli studi del Piazzi, la relazione de’ quali veniva alla luce nel Notiziario o Almanacco di Corte compilato dal Gregorio.
E qui giova ricordare che dalle dichiarazioni del P. Vella, le quali fanno tanta parte del processo di lui, esistente ms. nella Biblioteca Comunale di Palermo si rileva come il Piazzi avesse avuta confessata dal detto Vella, l'anno 1795, la falsificazione dei codici Martiniano e Normanno; e ciò perchè egli, il Piazzi, rispettatissimo ed onestissimo, avesse interceduto a favore dello sciagurato falsificatore presso l’Arcivescovo di Palermo e presso il viceré. Noi la stampiamo nella genuina sua forma e ortografia, per verità non abbastanza accurata. Eccola:
A.C.
Non è colpa mia, se ho lasciati trascorrere due mesi avanti di ragguagliarvi su quanto vi piacque comandarmi avanti la mia partenza. Nei primi giorni del mio arrivo in questa feci delle diligenze per servirvi. Mi fu proposto un certo M.r Ruffin che mi fece fare più giri, e tutti infruttuosamente. Infine mi recai da M.r Caussin. Egli mi disse, che già da qualche tempo era stata rimessa in Napoli al Marchese Caraccioli una copia del libro arabo della Storia di Sicilia d’Alnovairo: mi soggiunse che rispetto a quella parte di Storia d’Africa, che riguarda la dinastia degli Aglabiti, e Fatamiti giudicava inutile farne copia, avendo egli trascritto tutto ciò che può interessar la Sicilia, e postolo in forma di nota alla traduzione che costì mandò due anni sono. E facendo io nuove istanze mi suggerì, che volendone assolutamente una copia, era miglior consiglio farne ricerche in Marocco, ou (sic) in Madrid, ove trovansi degli esemplari delle opere di Alnovairo migliori assai di quelli che conservansi in questa stessa Biblioteca, i quali, al dire di lui, sono scorrettissimi e pieni di lacune. Non contento di ciò, feci nuove ricerche, e fui in fine condotto da un Nazareno, che è l’unico in Parigi, capace a fedelmente e correttamente trascrivere li M.S. arabi. E questi un monaco Basiliano, e chiamasi il P. Dionisio. Trovasi occupatissimo, essendo continuamente impiegato per commissione della Biblioteca; nientedimeno, si è arreso alle mie preghiere, e mi ha detto, che la copia, che già avrete avuta è opera sua, e farà la seconda ancora ove sia necessario, e finalmente trascriverà quella parte della Storia d’Africa che voi desiderate. E poiché è a ciò necessario il permesso di M.r Lettoire, sono stato dal medesimo, che mi ha promesso di rimettere il M.S. nelle mani del P. Dionisio ad ogni mia ricerca. La spesa per la sola copia della parte d’Istoria d’Africa, che voi volete, monterà a 8 luigi. E per tal modo ho adempito ai comandi vostri. Voi dunque avisatemi (sic), se debba ordinare la suddetta copia, e quanto volete ch’io faccia. M.r Caussin ha letto la vostra dissertazione, ed una vostra lettera, ed ha di voi vantaggiosa opinione. Ride del nostro tesoro Velliano, e dice, egualmente che il P. Dionisio, che gli arabi del secolo X perlavano e scrivevano la lingua araba, e non la maltese. Dice ancora, che presentemente in Mgoco (?), Toger (?), Ietse, ecc., si parla e scrive, come si è parlato e scritto nei tempi passati. Io mi sono sforzato per persuaderli dell’autenticità del nostro codice, ma inutilmente. Io sto bene quanto sii (sic) stato mai, in vita mia. Dimoro in casa di M.r La Lande, ove ho il vantaggio del suo osservatorio, della sua libreria e della sua persona, che ha per me singolare amicizia. Col medesimo erasi stabilito di partire per Londra verso la fine di luglio, ma non essendo riuscito il gran Telescopio di Herschel, sarà differita questa gita sino a primavera; tempo in cui Herschel si lusinga, che i suoi nuovi tentativi renderanno perfetta la sua macchina. Avrà essa 4 ½ piedi di diametro, e 48 piedi di foco. Un Telescopio di questa grandezza supera quanto si è fatto, e quanto speravasi di poter fare. Voi siete vicino al Marchese Bajada. Mi farete dunque la finezza di salutarmelo pel numero ternario e settenario, e dirgli ch’io non mi sono scordato la sua commissione, ma ho persa la carta, in cui stava scritta. In conseguenza, per non isbagliare, voi potrete farvi dire in qual cosa vuole precisamente ch’io lo serva. Venerdì scorso, 13 del corrente, ho avuto il piacere per la prima volta di osservare un eclisse solare, ed osservarlo con tutte quelle cautele e mezzi, che possono render vantaggiosa l’osservazione. Il luogo però non era molto favorevole, e le osservazioni non abbracciarono che il principio, e mezz’ora di durata, il rimanente essendomi stato impedito dalle nuvole. Ora lo sto calcolando per correggere le tavole, a cui sto travagliando da qualche tempo.
Pel Notiziario dell’anno venturo, non ci pensate, che a suo tempo vi manderò quanto sarà necessario. Salutatemi il Bar. Perrone. Ditegli, che ho consegnato io stesso la sua lettera a Busson. Il suo progetto per la fabbrica di sapone è stato giudicato incapace di esistenza. Le lettere mie fatele colla direzione S. Anna Reale. Io sono e sarò sempre tutto vostro. I miei rispetti con ogni distinzione a M.r D’Eraclea.x 3
- ↑ V. Raccolta di Dispacci diretti al Canonico di Gregorio. Raccolta di lettere d’uomini illustri dirette allo stesso. Alcune particolarità sul Codice Arabo dello abbate Vella. Ms. Qq. F. 60 della Biblioteca Com. di Palermo, pag 161 e retro.
- ↑ V. V. Di Giovanni, Rosario Gregorio, e le sue Opere, discorso con documenti inediti; Palermo, L. Pedone — Lauriel, 1871.
- ↑ Monsignor Alfonso Airoldi.
- ↑ Mss.
- ↑ Hist. abrégée de l’Astronomie, p. 848.