L'astronomo Giuseppe Piazzi/Capitolo V
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V.
A Londra trovò il dottore Maskelyne, direttore dell’Osservatorio di Greenwich, riguardato dagli astronomi come loro legislatore; e per esso non tardò ad amicarsi ad Herschel, l’immortale scuopritore di Urano; sulle cui scoperte da poi molto studiò e scrisse, riportando eziandio le osservazioni del signor Schröter sull’atmosfera di Venere, come si vede in appresso.1 E vincolossi al da Vince, al Le Roy, al Wollaston, al conte di Broul e ad altri uomini sommi nelle scienze sublimi e nelle matematiche.
In quell’anno — 1788 — dalla specola di Greenwich, da lui frequentata, osservava un eclisse solare; il che gli pôrse occasione di cimentarsi col Maskelyne: stese le sue osservazioni, raffrontandole con quelle d’altri luoghi, e presentò la memoria al vecchio professore. Lo scritto venne accolto con gran diffidenza e freddezza, e giudicato poca cosa. Del che grave dolore al Piazzi, che, non ismarrito, sicuro nell’animo, si rimette a lavoro ostinato, ripassa le tavole, le compie e, pregando, le ripresenta al difficile vecchio. Avea vinto; eran giuste, e così ben eseguite, che il Maskelyne, ad ammenda, le presenta alla Società Reale di Londra, che le fa pubblicare ne’ suoi volumi sotto il titolo di Transazioni filosofiche. Questo primo successo gliene facilitava altri. Difatti, fornì a’ giornali di Londra vari scrittarelli di pregio, tra quali ci piace notare un sunto del libro del Lavater, nell’intento generoso di dimostrare che il sistema fisionomico attribuito al celebre mistico svizzero, era invece opera del napolitano Giovan Battista Della Porta; fatto che, ormai, non è più messo in contestazione da veruno.
Vivissimo il desiderio di conoscere Jessé Ramsden, di Halifax, inventore famosissimo di strumenti astronomici; onde fu sua prima cura accostarsi a lui, non sì tosto giungeva Londra. Non tardarono ad essere uniti. Ma, intanto che frequentava il celebre ottico, recavasi pure nell’officina di Giosia Eméry, valente Svizzero, per apprendervi il meccanismo degli orologi, importantissimo a sapersi in astronomia, specie quello dei pendoli di compensazione e dei cronometri a longitudine. Pensava, e pensava bene, che tutto quanto potesse concorrere a rendergli più sicuro e men arduo l’esercizio della scienza, e dovesse imprenderlo direttamente: nè mal si apponeva. E mentre ricercava strumenti per la specola palermitana, pensò provvedersi di un intiero cerchio verticale, sostituito al quadrante, arnese la cui difficilissima esecuzione aveva siffattamente spaventato i più abili artefici, ch’era ormai giudicato impossibile ottenersi.
Ramsden, uomo di acutissimo ingegno, inteso a facilitare i passi della scienza per via di sperienze, dappoi ch’e’ vide come l’imperfezione del quadrante non appagasse le nuove ragioni degli studi, le quali domandavano severa esattezza di calcolo nelle osservazioni celesti, aveva tentato di sostituirvi l’intiero cerchio verticale accompagnato da un azimutale. Anzi, ci pose mano due volte; ma, due volte spaventato dalle difficoltà, ebbe smesso. Valse il Piazzi a dargli lena e a raffermargli le idee: ma con ciò le difficoltà non eran certo svanite.
Vinto da’ seri consigli del Teatino, e più dalla promessa d’aiuto, che’ei n’ebbe conseguito, s’accinge ancora all’opra; ed ecco poco dopo smette ancora un’altra volta. Che ha mai desso? è egli tocco l'artista da qualche periodico influsso di bizzarri momenti, non nuovo a’ più grandi, o è assoluta sfiducia di riuscita? Tacerò su queste cagioni: il fatto è, che non dirette preghiere, non intercessioni d’amici, non profferte, nulla valse più a smuoverlo. Qual ripiego a prendersi? Lo trova il Piazzi in questa maniera. D’accordo segretamente col suo maestro a Parigi, fa inserire nel Journal des Savans, novembre 1788, la nota sua Lettre à monsieur de la Lande sur les ouvrages de M. Ramsden: gli elogi toccano l’amor proprio dell’Inglese; Piazzi ha vinto, e l’anno seguente non solo è terminato il gran cerchio, ma sono finiti con la maggior perfezione molti altri strumenti destinati a partire con quello. Però la straordinaria allegrezza del Teatino doveva essere ancora turbata. L’Uffizio delle longitudini di Londra, geloso che opera tanto perfetta uscisse dall’isola, cerca impedirlo con l’offerta di vistosa somma: «Non sono negoziante!» risponde il Piazzi; e sta fermo. Il duca di Marlborough, allora, gli pone sott’occhio la direzione del suo Osservatorio a condizioni larghissime: invano. La cosa prese tali proporzioni, che si stimò far intervenire il governo. «Non si dee lasciar partire, dicevasi, il gran cerchio, per interesse scientifico vera proprietà nazionale.» Il Piazzi a tanti ostacoli s’irritava: rifiutò ogni personale vantaggio, non badando che all’utile della scienza, che in questo caso era pur quello del suo paese. Ma, accendendosi la controversia, e appassionandosi, Ramsden, amico leale, gli rilascia ampie dichiarazioni sull'assistenza avuta dall’astronomo valtellinese, e fa intendere che, senza di esso, il gran cerchio non sarebbesi compito; il merito virtualmente doversi riferire all’Italiano; né poterglisi con onestà opporre. Anche il Ministro napolitano usò suoi uffici; si mantenne in fermezza, e lo strumento importantissimo, per la morte poco dopo avvenuta dell’artista, unico in Europa, fu mandato a Palermo.
Era tempo di lasciar l’Inghilterra, e, ritornando in Sicilia, dar mano all’edifizio degli studi suoi: intanto nella prossima Francia cominciavano a rimescolarsi acerbamente le cose.... Di passaggio a Parigi stringe la mano al Lalande e a’ vecchi amici, tra cui a Bailly, famoso presidente dell’assemblea della Pallacorda, iniziatrice della grande rivoluzione, da poi sindaco di Parigi, il quale, com’è noto, allora che imperversò la bufera del Terrore, dovette infelicemente lasciare il capo sul palco ferale.
Toccata l’Italia, ripensò con affetto alla sua Valtellina, e, disioso di riabbracciare congiunti e amici, si recava al nativo Ponte, al quale non molto dopo diè lo addio per restituirsi in Palermo, da questo momento, in ispecie, vera sua patria adottiva e teatro di sue scientifiche gesta. In Milano aveva abbracciato Barnaba Oriani, degno emulo suo2; il Cagnoli a Verona: il Toaldo in Padova; a Pisa il Niccolai: dovunque, attestazioni di stima e di simpatia, auguri e felicitazioni pe’ suoi generosi disegni.
- ↑ Riportiamo volenterosi tali lettere su l’atmosfera di Venere, chè, non avendo ottenuto la meritata pubblicità, possono tornare di non lieve interesse ai severi cultori delle scienze astronomiche medesime.
lettera i.
Non avendo il signor Herschel pubblicato sinora osservazioni particolari su di Venere, noi riporteremo quelle del signor Schröter, le quali, per altro, anche senza questa circostanza, sembra che avrebbero dovuto aver qui luogo, per essere state fatte principalmente con telescopj Herscelliani. Esse riguardano l’atmosfera di questo pianeta, argomento intorno a cui niente ancora si è fatto di positivo, e niente pur sembrava che noi saremmo mai stati per sapere. Poiché le osservazioni dei suoi passaggi, già accaduti sul disco del sole (circostanza, in cui credeasi che l’atmosfera, se esso ne aveva, doveva immancabilmente mostrarsi), non erano intorno a ciò tra di loro conformi; e quelle dei passaggi, che verranno poi, non saremo noi tanti felici di poterle fare. Il signor Schröter pertanto, per ben altra via è giunto felicemente a dimostrare l'esistenza non solo di un’atmosfera intorno a Venere, ma di varie ancora e singolari proprietà della medesima; ed egli deve queste scoperte alle sue prime osservazioni. Ecco la serie delle medesime, e dei suoi raziocini ed idee.
Sì tosto, anzi la prima volta che, armato di buon telescopio, egli fu in grado di esaminare il crescente di Venere, all’istante riconobbe, che non era egualmente illuminato in tutte le sue parti, ma che dal bordo esteriore verso l'interiore andava la luce sensibilmente scemando di forza. Al che avendo fatta attenta riflessione, non andò guari che gli venne in animo, che ciò cagionato fosse da un’atmosfera di una densità non inferiore alla nostra, in cui fosse involto il pianeta. E poiché lo stesso fenomeno ei sempre osservava, quando di eccellenti telescopj a forti ingrandimenti potea valersi, si propose di continuare queste sue osservazioni per lungo tratto di tempo, a fine di essere in grado di più sicuramente su di esse ragionare. In fatti, le ha quindi proseguite per lo spazio di dodici anni, nel qual tempo, comechè ne abbia fatto senza numero, pure, essendo tutte formi e simili nella loro natura e conseguenze, si possono ridurre alle seguenti:
1.° Tra le massime distanze, orientale cioè ed occidentale, di Venere dal Sole, allorchè essa ritrovasi tra il Sole e la Terra, il di lei crescente illuminato presenta una maggior luce verso il lembo esteriore, la quale non solo nel mezzo, ma vicino all’estremità ancora, gradatamente e con regolar progressione va decrescendo verso l’interiore, ove finisce e si perde in un fosco debolissimo azzurro, i di cui termini formano un margine irregolare indefinito, mal terminato, il quale appena coi migliori telescopi si giunge a distinguere, e che in alcune fasi molto rassomiglia a quello della Luna, osservata ad occhio nudo, o con telescopi, il di cui ingrandimento non sia che di tre o quattro volte.
2.° La diminuzione della luce non è la medesima in tutte le fasi, ma in alcune maggiore, in altre minore. La qual cosa dipende principalmente dalla purità e tranquillità dell’atmosfera, dalla bontà del telescopio, le cui immagini debbono essere placide, chiare, distinte, e dall’occhio disposto e preparato per tali osservazioni.
3.° Questo fenomeno suole osservarsi tra le massime distanze, orientale cioè ed occidentale, di Venere dal Sole, allorchè essa ritrovasi tra la Terra ed il Sole: e quindi si presenta sotto la forma di un crescente.
4.° Quando il crescente è assai tenue, ossia Venere assai vicina alla congiunzione inferiore, in questo caso egli è d’avvertirsi, che verso le estreme punte talora non si osserva la stessa diminuzione di luce che nel mezzo, anzi che la parte concava è quasi egualmente risplendente che la convessa. Questa differenza potrebbe per avventura porre in dubbio la generalità delle osservazioni, poichè, qualunque sia la cagione della diminuzione della luce, essa deve agire egualmente in tutta l’estensione del crescente. Se però si riflette ad un altro fenomeno, che si osserva nelle massime elongazioni, facilmente si renderà ragione del presente. Nella massima elongazione pertanto alle volte una delle punte del crescente pare ottusa, e l’altra acuta; locchè è cagionato dalle ombre dei monti di Venere, i quali sono altissimi. Ora, sebbene nel caso nostro le ombre non possano in verun modo farci comparire ottuse le estremità del crescente, per non essere ivi la sua larghezza maggiore di un quarto di secondo, possono però toglierci la vista del lembo interiore, in cui la diminuzione della luce più sensibilmente si manifesta. In oltre, dee confessarsi, che quando il crescente è sì tenue e sottile, sebbene le sue estremità non sieno coperte da qualsiasi ombra, nondimeno non si potrà in essa sì agevolmente distinguere la diminuzione della luce, a meno che l’aere non sia sommamente chiaro, e di una non ordinaria perfezione i telescopi e l’occhio molto esercitato in questo genere di osservazioni. Nel qual caso egli è veramente una scena interessante il vedere come il lembo inferiore, sino all’estremità, gradatamente svanisca e divenga pur così debole, come in tempo di giorno; e dove incontransi delle ineguaglianze, si confonde col colore del cielo.
Questo fenomeno pare che dimostri assai chiaramente l’esistenza di un’atmosfera in Venere. Poichè, sebbene egli sia un principio incontrastabile, che sulla superficie illuminata di un pianeta, la luce verso i suoi confini dee sempre comparire tanto più debole, quanto più piccolo è l’angolo che fa il raggio incidente colla detta superficie; nondimeno la diminuzione di luce, di cui sinora si è ragionato, è tale e tanta, che non si può in verun modo spiegare con questo solo principio. E veramente, toltane la nostra terra, non si osserva simile diminuzione e in sì alto grado in nessuno degli altri corpi del nostro sistema. Il quale argomento però se per Marte, Giove e Saturno non può essere di alcun peso, essendo questi pianeti talmente distanti da noi, che non possiamo in essi distinguere alcuna fase, o diminuzione di luce; per quello si appartiene alla Luna, pare non ammetta replica. Poichè questo corpo ed è più vicino a noi che non sia Venere, ed al pari di essa è illuminato dal Sole, e nondimeno non è in essa la diminuzione di luce sì forte, siccome in Venere, mentre anzi dovrebbe essere massima, se non si dovesse tener conto che dell’obbliquità dei raggi incidenti.
Per ispiegare questo fenomeno altro quindi sembra che non ci rimanga, che di ricorrere allo stesso principio per cui sulla nostra terra sogliamo vedere debolmente illuminato quel tratto di terra, su cui al nascere e prima del tramonto del Sole dall’orizzonte, si diffondono i suoi raggi, la sua atmosfera. Essa si è che, rifrangendo tanto maggiormente i raggi quanto più da lontano essi procedono, ci presenta una gradazione di luce, che infine si confonde con le tenebre. Non altrimenti possiamo dunque noi congetturare, che accada in Venere rispetto alla luce che essa riceve dal Sole.lettera ii.
Sebbene quanto si è detto nella lettera precedente sulla diminuzione della luce del lembo esteriore verso l’interiore del disco illuminato di Venere, e delle somiglianze sue colla luce terrestre allorchè il Sole è all’orizzonte, presenti un argomento di non lieve peso in favore di un’atmosfera intorno a questo pianeta; pur non di meno, non potendo noi insieme paragonare le rispettive intensità della luce che esso e la nostra Terra ricevono dal Sole nelle direzioni tangenziale e perpendicolare alla loro superficie senza maggiori pruove, molto vi sarebbe ancora di che dubitare su questo punto. Ma il sig. Schröter è stato sì costante e sì attento nelle sue osservazioni, e per sì lungo tempo le ha continuate, che finalmente gli è riuscito di farne alcune, che si possono riguardare come le più felici, le più decisive e le più singolari, che su questa materia si potessero mai fare.
In marzo del 1790 accadde la congiunzione inferiore di Venere col Sole, essendo il pianeta nella sua massima latitudine boreale: condizione sommamente interessante, e per la sua rarità, e per l’utilità delle osservazioni, che quindi si possono fare nel tempo della congiunzione medesima. Colse questa felice circostanza il nostro astronomo, e tanto maggiormente fu in grado di profittarne, che il cielo dal 9 sino al 16 fu sempre di una non ordinaria purità e chiarezza. Il 9 pertanto, immediatamente dopo il tramonto del Sole, essendosi egli posto con un riflettore Herschelliano di sette piedi di foco, armato prima con una forza di 75, indi con una di 161, ad esaminare il crescente di Venere, trovò che la punta meridionale non appariva esattamente della solita sua circolar forma, ma piuttosto piegata in forma di un uncino, stendendosi al di là del semicerchio illuminato entro l’emisfero oscuro.
Questo fenomeno, a dir vero, sebbene gli recasse qualche meraviglia, era da lui già stato altra volta osservato; ma un altro più singolare, e non mai veduto prima, grandemente lo colpì, ed impegnò tutta la sua attenzione. La punta settentrionale finiva in una sottile linea, nella stessa guisa della meridionale, ma non si avanzava entro l’emisfero oscuro. Dalla sua estremità però, la cui luce, sebbene gradatamente più fiacca, conservava nondimeno una sufficiente vivezza, stendeasi entro di esso emisfero oscurò nella direzione del lembo una striscia di luce azzurra e sbiadata; la quale sebbene non avesse sempre la medesima intensità, non si spegneva però mai e, quantunque sommamente languida, si poteva pienamente distinguere e coll’ingrandimento di 75, e coll’altro di 161, di cui a vicenda egli si serviva. Appariva dappertutto non solamente di una estrema languidezza, ma, paragonata colla luce della estremità delle punte, questa languidezza medesima sembrava di un particolar genere tendente ad un grigio pallido, e simile in alcuni punti alla nostra più debole luce crepuscolare.
La seguente notte, quella cioè del 10, nella quale conservò l’aere la stessa serenità e tranquillità, non fu in grado lo Schröter di valersi del telescopio di 7 piedi; non di meno con uno di soli 4 giunse a distinguere, sebbene con non molta nettezza, singolarmente uncinata la punta meridionale; però, ciò ch’è più da notarsi, ciascuna delle punte, la meridionale cioè e la settentrionale, e quest’ultima principalmente, presentavano con la maggior precisione e chiarezza una debole decrescente grigio-azzurra continuazione di luce, la quale gradatamente diminuendo, si estendeva entro l’emisfero oscuro in maniera, che il lembo illuminato appariva assai più grande di un semicerchio.
Nella stessa guisa continuò egli queste sue osservazioni sino al 16: nei giorni 17 e 18, che precedettero le congiunzioni, e così in quelli che vennero dopo sino al 22, nè il tempo permise che si osservasse, nè, se pure fosse stato favorevole, se ne avrebbe avuto alcun vantaggio, attesa la troppa vicinanza di Venere al Sole. Al 23, 25 e 30 osservò a un dipresso gli stessi fenomeni prima veduti; di modo che, prima e dopo la congiunzione, ci vide che le due punte, settentrionale cioè e meridionale, sempre apparivano prolungate entro l’emisfero oscuro, ora però sotto forma di acutissimo uncino, ora di una striscia, ora con una tinta suboscura, ora con maggiore, ora con minor vivezza, ora col colore azzurro-pallido, ora più incurvate, ora meno, ora più da un lato, e meno dall’altro.
Una circostanza però merita sopra le altre di essere qui particolarmente notata, e si è che, quando la punta meridionale si stendeva entro l’emisfero oscuro con tutta la sua luce, non si vedeva affatto quel barlume grigio suboscuro, che in forma di striscia accompagnava la punta settentrionale. Ma quando la punta rimaneva circoscritta entro i suoi termini, allora la descritta striscia appariva all’una e all’altra punta. Ciò fu in particolar modo osservato il 10 e il 30 marzo. Dopo questo tempo la declinazione di Venere talmente diminuì, che non fu più possibile di osservarla con profitto.
Ora, se non ci può egli rimanere alcun dubbio del reale prolungamento del crescente di Venere entro il suo emisfero oscuro, possiamo noi pensare che a somiglianza della Luna essa riceva la luce dal nostro o da altro corpo celeste; e in conseguenza questa luce o viene immediatamente dal Sole, i cui raggi direttamente colpiscono le cime dei più alti monti di Venere, o è una luce, che in parte illumina l’atmosfera di questo pianeta, e in parte ne è della medesima riflessa, e così forma una specie di barlume sulla di lui superficie, che ci fa distinguere il suo lembo; in quella guisa appunto che col soccorso dei nostri mattutini e vespertini crepuscoli noi veggiamo, sebbene imperfettamente, gli oggetti terrestri.
Questa seconda supposizione invero è più conforme ai fenomeni, che noi riferito abbiamo. Poichè, se una tal luce venisse direttamente dal Sole, essa si vedrebbe, siccome nella Luna, in altrettanti punti, staccati, distinti e lontani; e non già a guisa di una striscia la quale, partendo dall’estrema punta del crescente, si avanza a non piccola distanza entro l’emisfero oscuro. Di più, se fosse una catena di monti sulla quale cadessero i raggi del Sole, non sarebbe di figura sì regolare, unita e sferica, nè la luce sarebbe sì debole e di un colore sì suboscuro, siccome si osserva. Ma, ciò che toglie ogni dubbio, si è il deciso contrasto tra questa debole suboscura luce e la più bianca e viva delle punte, e quello interamente simile, che ci presentano le due punte del disco lunare, quella, cioè, su cui direttamente cadono i raggi del Sole, e l’altra solo illuminata dalla luce riflessa dalla nostra Terra.
Tutte le circostanze sembra quindi che dimostrino, che questo fenomeno è cagionato dalla luce che l’atmosfera di Venere riflette sul suo disco oscuro, luce che è quella medesima ond’essa atmosfera è illuminata dal Sole, e che suole chiamarsi crepuscolo. Ma ciò si renderà anche più chiaro, se noi porremo in confronto le diverse relative apparenze delle due punte del crescente.
Il 9 marzo, quando la punta meridionale si avanza entro l’emisfero oscuro sotto forma di uncino, non si scorgeva alcuna traccia della luce pallida suboscura, che appariva alla punta boreale. Pel contrario il 10, in cui il prolungamento uncinato della punta meridionale era assai diminuito, vedeasi non solo alla punta settentrionale, ma ancora alla meridionale la descritta pallido-suboscura luce, sebbene più debole così a questa che a quella. E lo stesso confermavano le osservazioni fatte dopo la congiunzione. Ora, per mezzo dei crepuscoli sopra annunziati, assai facilmente si rende ragione di questo fenomeno. Il prolungamento della punta meridionale, siccome fu osservato il 9, dee attribuirsi alla luce del Sole, che direttamente colpiva la vetta dei monti in quella parte collocati, e perciò non aveva essa una figura circolare; e siccome la sua luce era vivissima, ne rimaneva vinta e sopraffatta la crepuscolare: non altrimenti che sulla nostra Terra, ove i monti posti in faccia al Sole, che nasce, o tramonta, non lasciano ravvisare alcun segno di luce crepuscolare in quei luoghi, che giacciono innanzi ad essi. Senza di ciò all’una e all’altra punta si sarebbe certamente veduta una parte del lembo oscuro debolmente illuminata, siccome si può chiaramente raccogliere dalle osservazioni del 10, in cui il prolungamento delle punte non essendo stato sì grande come al 9, si giunse a riconoscere in parte l’effetto dei crepuscoli.lettera iii.
Il signor Schröter, dopo di avere sì chiaramente dimostrata l’esistenza di un’atmosfera intorno a Venere per mezzo della scoperta dei suoi crepuscoli, si fa ad investigare l’estensione dei medesimi sopra la superficie del pianeta, e quindi la densità, l’altezza dell’atmosfera e le altre sue proprietà, che con quella della nostra Terra hanno qualche rapporto. Parte in questa seconda ricerca dalle misure accuratamente e più volte replicate così del diametro apparente di Venere, come del prolungamento delle punte boreale e settentrionale del suo crescente entro l’emisfero oscuro. Avendo pertanto ritrovato che il diametro era prossimamente di 60" di un gran cerchio della sfera, e di 8" la lunghezza di ciascuno dei due prolungamenti delle punte sì ne viene che, considerati questi 8" come la corda di un arco che appartiene ad un cerchio, il di cui diametro è di 60", ossia ridotti in gradi di un cerchio di Venere, essi sottenderanno un arco di 15° e 19': è però facile a riconoscere, che questo arco non misura la vera estensione del crepuscolo, ma l’apparente. La vera è sempre nella direzione dei raggi, che dal Sole cadono sul pianeta, e la presente, che chiamò apparente, è nella direzione del piano, che separa l’emisfero rivolto a noi dall’altro opposto.
Ora, nelle sole quadrature a poca distanza delle medesime, il piano, che separa l’emisfero rivolto verso la Terra, giace nella direzione dei raggi solari; nelle congiunzioni, o assai vicino alle medesime, questo piano è perpendicolare ai raggi solari. Nel caso nostro pertanto la misura dell’estensione del crepuscolo essendo stata presa nella direzione del piano di separazione dei due emisferi, e Venere essendo allora assai vicina alla congiunzione, fu essa misura perpendicolare ai raggi del Sole, e perciò diversa della vera. Però, si può assi facilmente rintracciare la vera quantità del crepuscolo. Poichè, prese dalle tavole pel momento delle osservazioni le vere distanze di Venere dalla Terra e dal Sole, e la differenza della longitudine, con un calcolo assai facile e breve si troverà, siccome di fatto ha trovato il signor Schröter, che l’arco della vera estensione del crepuscolo non è che di 4° di un gran cerchio di Venere. Quindi se il semidiametro di Venere si faccia di 184 miglia geografiche, sarà la zona in cui si diffonde il crepuscolo di 67 miglia di larghezza; e poichè sulla nostra Terra si chiama crepuscolo comune quello, il di cui ultimo termine passa per lo zenit (il che si verifica essendo il Sole 6° e 23' sotto l’orizzonte), per analogia potremo similmente chiamare crepuscolo comune di Venere quello, che abbiamo presentemente determinato.
Se ora l’estensione del crepuscolo vero, che su di un gran cerchio di Venere si è trovata di 4°, 38' e 30", si riduca in parte del cerchio, su cui da principio fu misurato il diametro di Venere, e l’estensione del crepuscolo apparente, e fu trovato quello di 60’’ e questo di 8’’; se si riduce, io dico, in parte di questo gran cerchio della sfera, non risulterà, che di soli 2’’ 45. Essendo quindi sì piccola la sua estensione, non dee recar meraviglia come esso non si sia veduto che all’estremità della punta del crescente, e non alle altre parti del cerchio inferiore; e ciò tanto maggiormente, che la sua debole luce dovea essere sopraffatta dalla maggiore e molto più viva dell’emisfero illuminato. Di un altro fenomeno si rende poi ancora facilmente ragione, cioè come solo pochi giorni prima e pochi giorni dopo della congiunzione si sia chiaramente giunto a distinguere il crepuscolo. Poiché, in primo luogo, vicino alla congiunzione inferiore dobbiamo noi vedere tanto più esteso il crepuscolo nella direzione del piano, che separa l’emisfero rivolto verso la Terra dall’opposto, quanto il pianeta è alla congiunzione più vicino. Il giorno 12, sei giorni prima della congiunzione, l’estensione del crepuscolo fu ritrovata di 8’’; se si fosse misurato nei giorni seguenti, si sarebbe sempre trovata maggiore, ed il giorno stesso della congiunzione sarebbe stata eguale al diametro stesso del pianeta. In secondo luogo verso la congiunzione il crescente è tenuissimo, e solo obbliquamente percosso dai raggi del Sole: per lo che, di tutte le sue fasi si è in quella che Venere riflette sulla terra una minore e più debol luce. Malgrado però che verso la congiunzione inferiore rispetto a noi il crepuscolo di Venere sia il massimo, così nella estensione come nell’intensità, se non vi sarà il concorso di altre e più favorevoli circostanze, potrà benissimo accadere, che non si veda. Infatti, nella congiunzione del marzo 1790, di cui si tratta, se Venere non fosse stata nel segno di Ariete, con una declinazione assai grande, di maniera che prima della congiunzione il Sole non fosse tramontato molto prima di Venere, e dopo la congiunzione non fosse spuntato molto dopo, e insieme il nostro crepuscolo non fosse stato assai grande: o in più brevi parole, se mentre il Sole era di più gradi sotto l’orizzonte, Venere non fosse stata molto alta sull’orizzonte medesimo, o non si sarebbe veduto affatto il fenomeno in questione, o solo verso l’orizzonte in mezzo al nostro crepuscolo. A queste ragioni, e non ad altre attribuisce il signor Schröter il non aver egli prima osservato questo fenomeno, sebbene fossero già dieci anni, che osserva costantemente Venere in tutte le più favorevoli occasioni. Se così fosse, parrebbe che dovesse trascorrere non picciol tempo avanti che gli astronomi potessero essere in grado di confermare colle loro osservazioni questa scoperta del signor Schröter.
Vero si è però, che un fenomeno, il quale sia stato una volta osservato, più facilmente si riconosce e distingue di un altro, che per la prima volta si osserva: infatti il dottor Maskelyne mi scriveva da Cronicle verso il principio del 1794, che il dottor Herschel col suo gran telescopio di quaranta piedi aveva qualche cosa di simile al sin qui esposto riconosciuto in Venere.
Ma ritorniamo all’estensione del crepuscolo vero, o sua vera quantità, la quale, secondo il calcolo, non si è da noi trovata che di 4° 38’ 30’’, ma che dovrebbe essere assai più grande. Poiché egli è certo, che una porzione della luce crepuscolare dovea essere abbagliata dalla luce vivissima del pianeta, un’altra porzione impedita dai nostri crepuscoli; e che in fine da noi non si potrà mai distinguere l’ultimo suo termine, qualunque sia la forza e bontà dei telescopj, ma solo quello in cui essa luce è più forte e sensibile. Se noi dunque diremo, che il crepuscolo di Venere è non molto minore del nostro, che si fa giungere sino al 18°, non andremo forse molto lontani dal vero. E similmente è molto verosimile, che l’altezza e densità della sua atmosfera sia molto analoga alla densità ed altezza della nostra. Certamente gli strati, che riflettono la luce più forte, debbono essere almeno tre miglia distanti dalla superficie di Venere, ed insieme molto densi; locchè così essendo, potrebbe per avventura da ciò nascere, che in questo pianeta noi non possiamo distinguere alcuna di quelle tante ombre o varie tinte che pur vediamo nella Luna, e che col soccorso di buoni telescopj si dovrebbero similmente in esso vedere a cagione della sua vicinanza a noi. In Venere similmente non si osservano nè fascie nè striscie, siccome si vedono in Giove e Saturno; questo però il signor Schröter lo ripete non dalla densità dell’atmosfera, ma bensì dal lento moto di questo pianeta sul proprio asse rispetto al celerissimo di Giove e Saturno, che in essi vi cagiona quelle apparenze; e conferma questa sua opinione col periodo di 23h, 21' da lui dedotto dalle ineguaglianze delle punte del crescente, da lui osservato in varj tempi.
Il Cassini ed il Bianchini tentarono di determinare il tempo che impiega Venere a compire una rivoluzione intorno al proprio asse: ciascuno partì dalle osservazioni di alcune macchie, le quali ad essi sembrò che non conservassero sempre lo stesso luogo. I loro risultati però furono ben diversi: il primo avendo ritrovato, che la rotazione si faceva in 23h e 40’; ed il secondo in 24g e 8h. Il signor Schröter ha tenuto ben altra via. Avendo egli osservato, che le estreme punte del crescente del pianeta non conservano le stesse apparenze in tutti i tempi, tra le molte sue osservazioni scelse quelle, che erano interamente simili; e cercato in varie ipotesi il periodo in cui tutte convenissero, trovò 23h, 20’ 59’’ 4. - ↑ La corrispondenza epistolare, tra il Piazzi e l'Oriani, sarà pubblicata l'anno 1874 dai sigg. proff. Luigi Schiapparelli e Gaetano Cacciatore. Essa conterrà lettere di alta importanza scientifica.