L'armata d'Italia/L'armata/III
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III
Abbiamo detto che dal sistema di reclutamento dei giovani destinati alla carriera navale e dal sistema di avanzamento, a punto, vengono alla nostra Marina i danni piú gravi. Vediamo ora in che consistano questi due male intesi e mal praticati sistemi.
I giovani entrano tutti, indistintamente, nel collegio all’età di tredici anni, ossia ad una età in cui non può ancora la vocazione essere sincera e non possono essere fermi i propositi. Dopo una disciplina di cinque anni, questi giovani, molto penosamente carichi ma non penetrati di scienza, vengon fuori col grado di Guardia Marina. Quindi sono promossi al grado di Sotto Tenente, e in seguito a quello di Tenente di Vascello. Floridi ancora della prima giovinezza, navigano in compagnia d’officiali di pari grado, ai quali bene spesso jam cycnæas imitantur tempora plumas.
Qui, inesorabilmente, qualunque loro ardore di corsa è abbattuto e soffocato. Essi devono aspettare, prima d’essere promossi a un superior grado, al meno quindici o venti anni, senza speranza!
Abbiamo dunque nello Stato Maggiore Generale tre distinte classi: —∞officiali giovanissimi, inesperti, ancora ondeggianti tra la dolcezza de’ primi sogni e la durezza della nuova vita su la nave, ancora repugnanti alle nuove fatiche, ai nuovi sacrifici, ai nuovi dolori; —officiali esperti, rotti alla ventura delle lunghe navigazioni, forti di studii, energici, degni in tutto di comandare, ma incatenati al loro grado, disperati omai di raggiungere la mèta, sfiduciati, piena di amarezza e di disgusto; — officiali, in fine, che, avendo raggiunto il grado di Comandante in tempi di fortuna ed essendo ancora giovani, chiudono a quelli altri la via dell’avanzamento, se bene sieno, per la massima parte, di molto inferiori.
Ora, io domando: — Perché ai giovani che vogliono intraprendere la carriera navale viene stabilita per l’ammissione l’età dei tredici anni? Perché non si dà il modo di entrare nell’Academia ai giovani che, essendo in una età meno tenera ed avendo piú maturo il giudizio, son chiamati alla vita del mare da una sincera e consciente vocazione, non dalla volontà paterna o da una tradizion familiare?
I corsi suppletivi del 1864 e del 1865, frequentati a punto da giovani diciottenni, diedero frutti mirabili. Quei discepoli, già preparati a tutte le discipline, atti per la maturità della mente a vincere ogni piú ardua difficoltà della scienza, atti per la robustezza del corpo a sostenere la forte e rude educazione navale, sicuri d’avere eletta la via a cui indubbiamente eran chiamati dalla natura dell’ingegno e dell’animo, riuscirono quasi tutti eccellenti officiali e superarono di gran lunga l’aspettazione.
È inutile dare all’armata una Guardia Marina di diciotto anni, quando il giovine medesimo deve poi rimanere immobile per tanto e tanto tempo nel grado di Tenente e a volte non riuscir né anche a raggiungere il grado di Capitano di Corvetta. Ed è poi un danno; perché accade che degli allievi reclutati in età così puerile alcuni si rivelano poi assolutamente disadatti alla carriera e diventano pessimi officiali non per cattiva volontà ma per mancanza di qualità nautiche e di attitudini alla vita del mare.
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Il nuovo ordinamento dell’Academia reca, in verità, qualche buona cosa. L’istruzione degli officiali è resa più vasta e più solida per mezzo di un Corso Superiore di studii, diviso in due periodi; di cui l’uno è obbligatorio per i Sotto Tenenti di Vascello, l’altro è facoltativo e può esser frequentato anche da officiali di superior grado.
Il primo corso dà la idoneità al grado di Tenente; il secondo serve di base per i successivi avanzamenti e per le destinazioni in servizio.
Ma questo Corso Superiore ha un difetto grave. È aperto a tutti gli officiali sbarcati, indistintamente, e serve quindi soltanto a ottenere il diploma. Non è come la Scuola Superiore di Guerra dell’esercito terrestre, una preparazione a conseguire più alti gra-´ di ed a raggiungere in minor tempo il supremo; non è il meritato premio dei pochi, delli eletti, di quei giovani in cui le attitudini, l’ingegno, la volontà sono maggiori; non è, insomma, un vivaio di futuri ammiragli come la Scuola di Guerra è un vivaio di futuri generali. Dà quindi resultati deboli e malsicuri, nel senso della scelta. Aumenta, è vero, l’istruzione degli officiali; ma non apre agli eletti la via per raggiungere, nella età virile, l’altezza ambita.
Ora, perché il Ministro, pur lasciando nell’attual condizione il Corso Superiore, non instituisce una Scuola Superiore di Marina a simiglianza di quella dell’esercito terrestre, aperta soltanto agli officiali che dànno prove indiscutibili di ingegno raro, di bene ordinati studii, di volontà nel proseguire?
Con questa instituzione il sistema d’avanzamento, così illogico e crudele, verrebbe a trasformarsi. I buoni e i forti passerebbero innanzi, per diritto di giustizia, a quegli officiali che si trovano in alto per favore di fortuna.
Quando incominciò l’incremento dell’armata, costoro salirono per necessità, senza fatica alcuna; poiché non era possibile adoperare a quelli offici i giovani nuovi, li academici ancor freschi. Oggi in vece i giovani studiosi, divenuti Tenenti di Vascello, corron pericolo di invecchiare nella immobilità, per l’ingombro a punto dei fortunati; e corrono pericolo anche d’esser colpiti dalla legge sulla posizione ausiliaria, senza aver fatto un solo passo innanzi!
Perché il Ministro non pensa ai rimedi? qualcuno ha già suggerito due provvedimenti: 1º, la creazione d’un grado intermedio fra il Capitano di Corvetta e il Tenente di Vascello; 2º, una legge che metta nella Riserva tutti quelli officiali, anche in età ancora vegeta, non atti a sostener degnamente il loro grado, sia per mancanza di scienza, sia per mancanza di energia, sia per mancanza di disciplina.
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Ma non basta curare soltanto i mali accennati. Altri mali, e gravissimi, sono nella cosiddetta “bassa forza.”
In verità, l’onorevole Brin non si volle mai curare degli equipaggi finché vide che, a furia di restringere il servizio anche oltre i limiti del possibile, le cose alla peggio andavano innanzi. Furono imposti alli equipaggi i più duri, i più atroci sacrifici; ciascun uomo fu sbattuto da una nave all’altra, per anni, senza riposo mai; non furon concesse mai licenze che ritemprassero il vigore e il coraggio e inducessero l’uomo a prender la riferma, dopo compiuto il servizio obbligatorio.
Le conseguenze di tale atrocità sono incalcolabili. Tutti quegli uomini, che il Governo con immenso dispendio muta in cannonieri, in torpedinieri, in fuochisti, in macchinisti, a punto se ne vanno quando incomincerebbe giovevole l’opera loro; e se ne vanno perché stanchi, e prostrati e disgustati, e perché li spaventa il pensiero che quella misera vita potrebbe continuare.
Così, naturalmente, non si vien mai a capo di nulla. C’è, di continuo, gente nuova da istruire; manca l’esempio e l’appoggio de’ vecchi; e il sacrifizio sta su tutti, senza profitto per nessuno. Li animi si accasciano o si ribellano, poiché non vedono alcun lume d’ideale in cima alle fatiche. Quella frenesia di attività morali e fisiche diventa una specie di castigo, nella conscienza dei lavoratori; somiglia alla pena che in alcuni ergastoli si infligge ai prigionieri, consistente nel far trasportare di continuo, da un’estremità all’altra d’un cortile, certe pesantissime palle da cannone. La fatica per la fatica: ecco la regola imposta alli equipaggi delle nostre navi.
Quando la disparità fra il servizio occorrente ed il personale, causata dai non ampliati quadri e dalla legittima fuga, giunse a un punto insostenibile, il Ministro dové finalmente cedere alle lamentazioni che a lui salivano da ogni parte. E allora si intrapresero corsi accelerati e corsi straordinari per tutte le categorie.
Questi corsi continuano. S’incalzano, come le onde; e per la gran furia, come le onde, si frangono e e si dissolvono presso alla meta. Da per tutto, ove si può stendere la mano, si strappa un uomo per mutarlo d’un tratto in fuochista, in macchinista, in cannoniere.
I macchinisti, specialmente, difettavano per numero e per istruzione; poiché i valenti trovano più facile vita e più remunerativa fatica nelle industrie private, e lasciano quindi il servizio. E di macchinisti ecco una categoria nuova: quella dei macchinisti-torpedinieri. Ohimé, quale strazio!
Col tempo, a furia di rovinare macchine e caldaie, costoro diventeranno macchinisti eccellenti; ma quanto tempo, quante macchine, quante caldaie occorreranno? Uomini vi sono, che pur ieri vestivano la divisa d’operaio d’arsenale, di marinaio torpediniere o cannoniere e perfino d’infermiere, e che oggi vestono quella di Sotto Ufficiale macchinista torpediniere, non distinguendo un condensatore da una caldaia, ignorando assolutamente che cosa sia la pressione, non avendo in somma conoscenza e pratica alcuna delle delicatissime macchine moderne.
A bordo, vien completato il personale delle macchine con codesta gente; e, siccome è gente inetta, il peso del servizio cade tutto su le braccia del personale esperimentato che, a sua volta, in quanto a istruzione, è molto vacillante. Imagini ora il lettore, quel che succede in quei profondi e cupi abissi della nave! Quanto materiale costoso, nuovissimo, vien portato a rovina senza utilità, senza frutto, senza ragione!
Ogni giorno gran fasci di proteste e di rapporti giungono al Ministero; e dal Ministero partono encicliche fiammeggianti di nobilissima eloquenza, nelle quali s’invoca lo spirito di sacrifizio, il dovere che ne incombe, e una quantità d’altre cose belle e sante ma un poco invecchiate. Ei danni e i pericoli e le perdite crescono, ogni giorno.
Era assolutamente inevitabile giungere a un tale estremo, per la necessità delle cose. Ma la colpa ricade tutta quanta sul Ministro che è stato sempre sordo ad ogni voce di saggezza e non ha mai voluto d’aumenti pure sentir parlare.
Lo stato del disordine durerà per molti anni ancora; perché cresce il numero delle navi ed anche questo assorbimento largo di persone è sempre impari al bisogno. Figuratevi che si passa sopra anche alle constituzioni fisiche. In quella povera Academia navale sono accolti certi piccoletti mostri, sempre malati sofferenti e pericolanti, che fanno pietà; e codesti piccoletti mostri vi sono accolti per esser poi dannati alla più terribile delle vite!
O Taigeto, dove se’ tu mai?