L'amore delle tre melarance/Atto terzo
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ATTO TERZO
SI apriva la scena al luogo, dov’era il lago di abitazione della Fata Morgana. Si vedeva un albero grande; sotto a quello un sasso grande, in forma di sedile. Erano pure sparsi per quella campagna vari macigni.
Smeraldina, il di cui linguaggio era di Turca Italianizzata, stava sulla riva del lago per attendere gli ordini della Fata. S’impazientava, chiamava.
Usciva la Fata dal lago. Narrava d’essere stata all’Inferno, e di aver saputo, che Tartaglia, e Truffaldìno, aiutati da Celio, venivano, spinti dal mantice d’un Diavolo, vittoriosi delle tre Melarance. Smeraldina rimproverava la sua ignoranza nella magia; era arrabbiata. Morgana, che non si stancasse. Per un accidente ordinato da lei, Truffaldino sarebbe arrivato in quel luogo disgiunto dal Principe. Una fame e una sete magica lo molesterebbero. Avendo seco le tre Melarance, succederebbero grandi accidenti. Consegnava due spilloni indiavolati a Smeraldina mora. Diceva, che sotto all’albero avrebbe veduta una bella ragazza sedere sopr’al sasso. Questa sarebbe la sposa scelta da Tartaglia. Procurasse con arte di ficcare uno degli spilloni nel capo a quella ragazza. Sarebbe diventata una colomba. Sedesse sul sasso in iscambio di quella ragazza. Tartaglia avrebbe sposata lei; diverrebbe Regina. La notte dormendo col marito piantasse nel capo a quello l’altro spillone; sarebbe diventato un animale; e così restava libero il Trono a Leandro e Clarice. La Mora trovava delle difficoltà in questa impresa, spezialmente quella d’esser conosciuta in Corte. L’arte magica di Morgana spianava tutte le impossibilità, come si deve credere. Conduceva via la Mora per meglio istruirla, e perchè vedeva giungere Truffaldino spinto dal vento infernale.
Usciva Truffaldino correndo col Diavolo, che lo soffiava, e colle tre Melarance in una bisaccia. Il Diavolo spariva. Truffaldino narrava esser caduto il Principe poco discosto per l’impeto del correre: che lo avrebbe aspettato. Sedeva. Una fame e una sete prodigiosa l’assalivano. Destinava di mangiarsi una delle tre Melarance. Aveva de’ rimorsi, faceva una scena tragica. Finalmente molestato, e accecato dalla prodigiosa fame, risolveva di fare il gran sacrifizio. Rifletteva di poter rimettere il danno con due soldi. Tagliava una Melarancia. Qual miracolo! Usciva da quella una giovinetta vestita di bianco, la quale, fedel seguace del testo della Favola, diceva tosto:
Dammi da bere, ahi lassa! Presto moro, idol mio,
Moro di sete, ahi misera! Presto, crudele. Oh Dio!
Cadeva in terra presa da un languor mortale. Truffaldino non si ricordava gli ordini di Celio, di non dover aprire le Melarance, che appresso una fonte. Balordo per istinto, e per il caso mirabile disperato non vedeva il lago vicino; gli veniva in mente solo il ripiego di tagliar un’altra delle Melarance, e di soccorrere la moribonda per la sete col succo di quella. Faceva tosto l’animalesca azione di tagliare un’altra Melarancia, ed ecco un’altra bella ragazza col suo testo in bocca per tal modo:
Oimè, muoio di sete. Deh dammi ber, tiranno.
Crepo dì sete, oh Dio! ch’io svengo per l’affanno.
Cadeva, come l’altra. Truffaldino esprimeva le smanie sue grandissime. Era fuori di sè, disperato. Una delle fanciulle seguiva con voce flebile:
Crudel destin! Di sete morrò; muoio, son morta.
Spirava. L’altra aggiungeva:
Moro, barbare stelle: ohimè, chi mi conforta!
Spirava. Truffaldino piangeva, parlava loro con tenerezza. Stabiliva di tagliar la terza Melarancia per aiutarle. Era per tagliarla, quando usciva Tartaglia furioso, che lo minacciava. Truffaldino spaventato fuggiva abbandonando la Melarancia.
Gli stupori, i riflessi, che faceva questo grottesco Principe sui gusci delle due Melarance tagliate, e sopra a’ due cadaveri delle giovinette, non sono dicibili.
Le maschere facete della Commedia all’improvviso in una circostanza simile a questa fanno delle scene di spropositi tanto graziosi, di scorci, e di lazzi tanto piacevoli, che nè sono esprimibili dall’inchiostro, nè superabili da’ Poeti.
Dopo un lungo, e ridicolo soliloquio, Tartaglia vedeva passar due villani, ordinava l’onorata sepoltura di quelle due giovinette. I villani le portavano via.
Il Principe si volgeva alla terza Melarancia. Ella era con sua sorpresa portentosamente cresciuta, quanto una grandissima zucca.
Vedeva il lago vicino, dunque per i ricordi di Celio, il luogo era opportuno per aprirla; l’apriva col suo spadone, ed usciva da quella una grande, e bella fanciulla, vestita di teletta bianca, la quale adempiendo al testo del grave argomento esclamava:
Chi mi trae dal mio centro! Oh Dio! muoio di sete.
Presto datemi bere, o invan mi piangerete.
(cadeva in terra.)
Il Principe intendeva la ragione dell’ordine di Celio. Era imbrogliato per non aver nulla da raccoglier dell’acqua. Il caso non ammetteva riguardi di politezza. Si traeva una delle scarpe di ferro, correva al lago; la empieva d’acqua, e chiedendo perdono dell’improprietà del bicchiere, dava ristoro alla giovinetta, che robusta si rizzava ringraziandolo del soccorso.
Ella narrava d’esser figliuola di Concul, Re degli Antipodi, e d’essere stata condannata con due sorelle dalla crudel Creonta, per incantesimo, nel guscio d’una Melarancia, per ragioni tanto verisimili, quant’era verisimile il caso. Seguiva una scena facetamente amorosa. Il Principe giurava di sposarla. La città era vicina. La Principessa non avea decenti vestiti. Il Principe l’obbligava ad aspettarlo assisa sopr’al sasso all’ombra dell’albero. Sarebbe venuto con ricco vestiario, e con tutta la Corte a levarla. Ciò concluso, si staccavano con de’ sospiri.
Smeraldina Mora, attonita per quanto aveva veduto, usciva. Vedeva l’ombra della bella giovine nell’acqua del Lago. Non era pericolo, ch’ella non eseguisse diligentemente quanto si narra nella Favola di cotesta Mora. Non parlava più Turco italianizzato. Morgana le aveva fatto entrar nella lingua un Diavolo toscano. Sfidava tutti i Poeti nel ragionare correttamente. Scopriva la giovine Principessa, il di cui nome era Ninetta. La lusingava, si esibiva ad acconciarle il capo, se le avvicinava, la tradiva. Le piantava nel capo uno dei due spilloni portentosi. Ninetta diventava una colomba, volava per l’aere. Smeraldina sedeva nel suo posto attendendo la Corte; si preparava a tradire Tartaglia coll’altro spillone, quella notte.
A tutto il mirabile misto col ridicolo, e le puerilità di queste scene, gli uditori informati sino dai loro primi anni dalle balie, e dalle nonne loro degli accidenti di questa fola, erano immersi profondamente nella materia, e impegnati strettamente cogli animi nell’ardita novità di vederli esattamente rappresentati sopra un teatro.
Al suono d’una marcia giungeva il Re di Coppe, il Principe, Leandro, Clarice, Pantalone, Brighella, e tutta la Corte, per levare solennemente la Principessa sposa. La nuova figura della Mora trovata, e non conosciuta per le stregherie di Morgana, faceva arrabbiare il Principe. La Mora giurava, esser lei la Principessa ivi lasciata. Il Principe non mancava di far ridere colle sue disperazioni. Leandro, Clarice, e Brighella erano allegri. Vedevano, da dove veniva l’arcano. Il Re di Coppe entrava in gravità; obbligava il figliuolo a mantenere la principesca parola, e a sposare la Mora. Minacciava. Il Principe con buffoneschi scorci acconsentiva, tutto mestizia. Si suonavano gli strumenti. Il drappello passava alla Corte per celebrare le nozze.
Truffaldino non era venuto colla Corte. Aveva ottenuto il perdono dal Principe dei suoi errori. Aveva avuta la carica di cuoco regio. Era rimasto nella cucina per apparecchiare il banchetto nuziale.
La scena, che seguiva dopo la partenza della Corte, è la più ardita di questa scherzevole parodia. I due partiti delli Sigg. Chiari e Goldoni, ch’erano nel Teatro, e che s’avvidero del tratto mordace, fecero ogni prova per porre in un tumulto di sdegno l’uditorio, ma tutti gli sforzi furono vani. Ho detto, che, nella persona di Celio mago, io aveva figurato il Sig. Goldoni, in quella di Morgana il Sig. Chiari. Il primo aveva fatto un tempo l’avvocato nel foro Veneto. La sua maniera di scrivere sentiva dello stile delle scritture, che si accostumano dagli avvocati in quel rispettabile foro. Il Sig. Chiari si vantava d’uno stile pindarico e sublime; ma, sia detto con sopportazione, non ci fu nessun gonfio e irragionevole scrittore seicentista, che superasse i suoi smoderati trascorsi.
Celio e Morgana avversi, e furiosi incontrandosi formavano la scena, ch’io trascriverò interamente col dialogo medesimo, e come seguì.
Si rifletta, che, se le parodìe non danno nella caricatura, non hanno giammai l’intento, che si desidera, e s’usi indulgenza ad un capriccio, che nacque da un animo puramente allegro, e scherzevole, ma amicissimo nell’essenziale de’ Sigg. Chiari e Goldoni.
Celio (uscendo impetuoso, a Morgana) Scelleratissima maga, ho già saputo ogni tuo inganno; ma Plutone m’assisterà. Strega infame, strega maledetta.
Morgana. Che parlare è il tuo, mago ciarlatano? Non mi pungere; perch’io ti darò una rabbuffata in versi martelliani, che ti farò morire sbavigliando.
Celio. A me, strega temeraria? Ti renderò pane per focaccia. Ti sfido in versi martelliani. A te:
Sarà sempre tenuto un vano tentativo,
Subdolo, insussistente, d’ogni giustizia privo,
Le tali quali incaute, maligne, rovinose
Stregherie di Morgana coll’altre annesse cose;
E sarà ad evidenza ogni mal operato
Tagliato, carcerato, cassato, evacuato.
Morgana. Oh cattivi! A me, mago dappoco.
Prima i bei raggi d’oro di Febo risplendente
Diverran piombo vile, e il Levante Ponente;
Prima l’opaca luna le argentee corna belle,
E l’eterico impero cambierà colle stelle.
I mormoranti fìumi col lor natio cristallo
Poggeran nelle nuvole sul Pegaseo cavallo;
Ma sprezzar non potrai, vil servo di Plutone,
Del mio spalmato legno le vele, ed il timone.
Celio. Oh Fata, gonfia, come una vescica! aspettami.
Seguirà assoluzione in capo di converso,
Come fìa dichiarato nel primo capoverso.
Ninetta Principessa in colomba cambiata
Sia, per quanto in me consta, presto ripristinata;
Ed in secondo capo, capo di conseguenza,
Clarice e il tuo Leandro cadranno in indigenza,
E Smeraldina Mora, indebita figura,
Per il ben giusto effetto a tergo avrà l’arsura.
Morgana. Oh goffo, goffo verseggiatore! Ascoltami; voglio atterrirti.
Con le volanti penne Icaro insuperbito
Poggia al Ciel, scende ai flutti garrulo, incauto, ardito.
Sopra Pelio Ossa posero, Olimpo sopra ad Ossa
Temerari gli Enceladi per dare al Ciel la scossa.
Precipitano gl’Icari nel salso umor spumante,
E gli Enceladi in cenere manda il folgor tonante.
Salga Clarice al Trono per tuo dolor protervo,
Si tramuti Tartaglia, qual Atteone, in cervo.
Celio a parte. (Costei mi vuol sopraffare con poetiche superchierie. Se crede di cacciarmi nel sacco, s’inganna ).
Nulla lascierò correre senza risposta, e presto
Applico a tue mendacie un valido protesto.
Morgana.
Dei Monarchi di Coppe fia libero il paese.
(partiva).
Celio (le gridava dietro).
Ed io ti riprotesto, salvis, e nelle spese.
(entrava).
Aprivasi la scena alla cucina regia. Non si vide mai una regia cucina più miserabile di questa.
Il resto della Rappresentazione non era, che il resto della fola minutamente rappresentata, in cui erano già interessatissimi gli animi degli spettatori.
La parodia non girava, che sulle bassezze, e trivialità d’alcune opere, e sull’avvilimento di alcuni caratteri dei due Poeti.
Un’eccessiva mendicità, improprietà e bassezza formavano la parodìa.
Si vedeva Truffaldino affaccendato a infilzare un arrosto. Narrava disperato, che, non essendovi in quella cucina girarrosto, girando egli lo spiedo, era comparsa una colomba sopra un finestrino; ch’era corso tra lui e la colomba questo dialogo. Le parole sono del testo. La colomba gli aveva detto: Bon dì, cogo de cusina. Egli le avea risposto: Bon dì, bianca colombina. La colomba aveva soggiunto: Prego el Cielo, che ti te possi indormenzar: che el rosto se possa brusar: perchè la Mora, brutto muso, no ghe ne possa magnar. Un prodigioso sonno lo aveva assalito; s’era addormentato; l’arrosto si era incenerito. Questo accidente era nato due volte. Due arrosti si erano abbruciati. Frettoloso metteva il terzo arrosto al fuoco. Si vedeva comparire la colomba, il dialogo si replicava. Il sonno portentoso assaliva Truffaldino. Questo grazioso personaggio faceva tutti gli sforzi per non dormire; i suoi lazzi erano facetissimi. S’addormentava. Le fiamme incenerivano il terzo arrosto.
Si chieda all’uditorio, il perchè questa scena piacesse estremamente.
Giungeva Pantalone gridando. Destava Truffaldino. Diceva che il Re era in collera, perchè si erano mangiati la minestra, l’alesso, e il fegato, e l’arrosto non compariva. Viva il coraggio d’un Poeta. Questo era un sorpassar nella bassezza le baruffe per le zucche baruche delle Chiozzotte del Sig. Goldoni. Truffaldino narrava il caso della colomba. Pantalone non credeva tal maraviglia. Compariva la colomba, replicava le parole portentose. Truffaldino era per cadere dal sonno. Questi due personaggi davano la faccia alla colomba, che svolazzava per la cucina.
Tal caccia interessava molto l’uditorio. Si prendeva la colomba, si metteva sopra una tavola, si accarezzava. Si le sentiva un picciolo gruppetto nel capo; era lo spillone magico. Truffaldino lo strappava. Ecco la colomba trasformata nella Principessa Ninetta.
Gli stupori erano grandissimi. Compariva la Maestà del Re di Coppe, il quale con monarchesca gravità, e collo scettro alla mano minacciava Truffaldino per la tardanza dell’arrosto, e per la vergogna, che sofferiva un suo pari coi convitati. Gran superiorità d’un autore! Giugneva il Principe Tartaglia, riconosceva la sua Ninetta. Era folle per l’allegrezza. Ninetta con brevità narrava i suoi casi; il Re rimaneva attonito. Vedeva comparire la Mora e il resto della Corte in traccia della Maestà sua nella cucina. Il Re con sussiego sommo ordinava a’ due Principi di ritirarsi nella spazzacucina. Destinava il focolare per suo trono, siedeva sul focolare con sostegno reale. Giugneva la Mora, e la Corte tutta. Il Re, fedel custode della favola, metteva il caso nei termini, chiedeva qual castigo meritassero i delinquenti a quel caso. Ognuno sbalordito diceva il suo parere. Il Re nelle furie condannava Smeraldina Mora alle fiamme. Compariva Celio. Dichiarava le colpe occulte di Clarice, Leandro e Brighella. Erano condannati in una relegazione crudele. Si chiamavano i due Principi sposi dalla spazzacucina. Tutto era allegrezza.
Celio esortava Truffaldino a tener lunge i versi martelliani diabolici dalle regie pignatte, e far ridere i suoi Sovrani. Non lasciava di terminare la favola col consueto finale, che sa a memoria ogni ragazzo; di nozze, di rape in composta, di sorci pelati e di gatti scorticati, ecc. e siccome i Sigg. Gazzettieri di quel tempo facevano elogi sterminati sui loro fogli ad ogni opera nuova, che veniva rappresentata del Sig. Goldoni, non si ommetteva una calda raccomandazione all’uditorio, perch’egli volesse farsi intercessore coi Sigg. Gazzettieri in vantaggio della buona fama di questa fanfaluca misteriosa.
Non fu mia colpa. Il cortese pubblico volle replicata molte sere alla fila questa parodìa fantastica. Il concorso fu grande. La truppa del Sacchi cominciò a respirare dall’oppressione. Si troveranno in seguito le conseguenze grandi derivate da sì frivolo principio, nella parodìa del quale chi conosce l’Italia, e non sarà entusiasta geniale della delicatezza francese, non formerà giudizio col confronto delle parodìe di quella nazione.