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L’aldèe dei Tupy. 283

Al di fuori i selvaggi continuavano ad urlare spaventosamente.

Turbe di uomini, muniti di rami accesi, correvano in tutte le direzioni agitando le mazze e cacciandosi nelle stradicciuole che separavano i carbet.

Parevano furiosi di non trovare i nemici che li avevano così audacemente sorpresi.

Anche in lontananza si udivano a echeggiare delle urla che diventavano rapidamente fioche.

— Che Diaz e Rospo Enfiato siano riusciti a fuggire? — si chiede Alvaro che ascoltava con angoscia quelle grida.

Aveva caricato il fucile e si era collocato dietro la porta, risoluto a vendere cara la vita ed a fucilare quanti Tupy avessero osato inoltrarsi.

Garcia che non era legato, non avendo i brasiliani l’abitudine di tenere i loro prigionieri immobilizzati nei carbet a loro destinati, si era messo dietro di lui armato d’un bastone che aveva trovato in un angolo della prigione, pronto per aiutarlo.

I Tupy si erano forse accorti che il terribile Uomo di fuoco si era riparato nel carbet del prigioniero, ma non osavano avanzarsi per impadronirsene.

Certo, la fama di quel Caramurà che era possessore del fuoco celeste, era giunta fino ai loro orecchi e si sentivano venir meno il coraggio di affrontarlo.

Si vedevano ronzare per la vasta piazza, a gruppi, chiacchierando sommessamente fra di loro e facendo gesti minacciosi colle loro mazze, senza osare fare un passo innanzi.

— Si sono accorti che io sono qui, — disse Alvaro.

— E hanno paura, signore, — disse Garcia. — Il ragazzo indiano deve aver raccontato a quei Tupy che voi avete rapito il fuoco celeste e che uccidete meglio delle loro frecce.

— Durerà a lungo la loro paura?

— Avete molte munizioni?

— Almeno cinquecento colpi.

— Tanto da poter sostenere un lungo assedio.

— È solida la capanna?

— È formata di grossi tronchi d’albero, signore.

— Si può salire sul tetto?

— Ho veduto delle pertiche in un angolo e vi è lassù un buco che serve a dar luce alla prigione.

— Se potessimo barricare la porta?