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276 | Capitolo Ventottesimo. |
L’odi gran pyaie bianco?
— E aggiungerei che io ho ancora udita questa voce, — disse il marinaio il cui stupore non era meno profondo di quello dell’indiano. — Sì è la voce di Japy, non posso ingannarmi.
— Il fanciullo che noi ti avevamo affidato perchè lo istruissi nei misteri dei pyaie, è vero? — chiese Rospo Enfiato.
— E che gli Eimuri m’avevano rapito. —
Alvaro non comprendeva ciò che il marinaio e l’indiano si dicevano, ma anch’egli era convinto di aver udito altre volte quella voce ed il suo pensiero correva al fanciullo che gli aveva servito d’interprete quand’era pyaie degli Eimuri.
Il canto era cessato, ma si udivano a breve distanza le foglie secche a scrosciare e le larghe foglie delle piante basse a sussurrare.
Colui che veniva pel primo a far la provvista d’acqua doveva essere ormai vicinissimo.
Rospo Enfiato si era raccolto su se stesso come una tigre, pronto a slanciarsi.
Un ragazzo era comparso portando sul capo uno di quei vasi di terra porosa di cui si servivano gl’indiani per filtrare l’acqua.
Rospo Enfiato stava per percuoterlo colla gravatana onde stordirlo, quando Alvaro e Diaz si gettarono fra lui ed il ragazzo.
— L’interprete del capo degli Eimuri! — aveva esclamato il primo.
— Japy! — aveva gridato il secondo.
Il giovane indiano era rimasto muto, guardando ora l’uno ed ora l’altro, poi si era precipitato verso Diaz, esclamando:
— Il padrone! Il pyaie degli Eimuri! Ah! Come sono felice di rivedervi ancora vivi!
— Sei solo? — chiese Diaz.
— Precedo le donne che vengono a fare la provvista d’acqua. Fuggite o verrete scoperti.
— Seguici! —
Il ragazzo gettò il vaso nello stagno e si mise dietro ai tre uomini che fuggivano a tutte gambe attraverso la foresta.
Non si arrestarono che un chilometro più lontano, in mezzo ad un gruppo di bananeire le cui immense foglie erano più che sufficienti per nasconderli.