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L’aldèe dei Tupy. 277

— Parla, Japy, — disse il marinaio quand’ebbe ripreso fiato. — È nell’aldèe dei Tupy il fanciullo bianco?

— Sì, — rispose il giovane. — L’hanno condotto prigioniero due giorni or sono, prima della seconda battaglia data agli Eimuri.

— Temevo che lo avessero divorato.

— No, ma stanno ingrassandolo.

— L’hai avvicinato? — chiese Alvaro che era in preda ad una viva emozione.

— Non è permesso a nessuno di entrare nel carbet che gli fu assegnato.

— L’hai almeno veduto?

— Sì, ieri sera, mi parve rassegnato alla sua triste sorte.

— Noi siamo venuti qui per salvarlo, — disse Diaz. — Credi possibile sottrarlo senza che i Tupy se ne accorgano?

— I Tupy sono numerosi e vegliano, — rispose Japy.

— Tu puoi aiutarci. Perchè ti hanno risparmiato pur sapendoti un Tupinambi?

— Un capo mi ha adottato, avendo saputo che io era ai servigi del gran pyaie bianco.

— Godi dunque d’una certa libertà.

— Sì, padrone.

— Puoi lasciare il tuo carbet di notte?

— È possibile farlo.

— Saresti capace di aprire una porta della palizzata?

— Basta levare le traverse interne, operazione che può compiere anche un bambino, — rispose Japy.

— Quanti indiani vegliano attorno al carbet del prigioniero?

— Una dozzina.

— Dormono alla notte? — chiese Alvaro.

— Sì, attorno al fuoco che brucia dinanzi la porta del carbet, — rispose Japy.

— Avresti il coraggio questa sera, prima che la luna sorga, di aprirci una porta e di guidarci fino al carbet? Non preoccuparti del resto. Sapremo noi entrare nella capanna ed involare il ragazzo.

— Sono un Tupinambi e non già un Tupy, — rispose il ragazzo con fierezza — e tu sei il mio padrone.

Io farò tutto ciò che vorrai gran pyaie, purchè mi riconduci nella mia tribù.

— Qual è la porta più prossima al carbet del prigioniero?