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La scomparsa del mozzo. 253

geva a cinquecento metri dalla riva, distanza sufficiente per evitare una sorpresa, e si addormentarono non ostante i muggiti, i fischi, i martellamenti, i latrati dei rospi, delle parrancia, dei sapo de minas e di tutte le altre varietà di batraci che popolavano le isolette della savana.

L’indomani, dopo d’aver vuotate due o tre noci di cocco, riprendevano la corsa, mantenendosi sempre ad una considerevole distanza dalla riva.

Quella immensa palude non accennava a restringersi, nè a finire. La riva meridionale non si delineava e nemmeno quella occidentale appariva.

Doveva avere una immensa estensione e chissà, fors’anche si prolungava verso il mare essendo le sue acque leggermente salmastre.

Il marinaio ed Alvaro arrancarono fino al mezzodì senza prendere un momento di riposo, poi vedendo che sulla riva non si mostrava nessun essere umano, presero terra per cercarsi la colazione.

Tutta la sponda era coperta da bellissime jabuticabeire, piante alte non più di sei o sette metri, dal fogliame foltissimo ed i tronchi carichi di frutta grosse come i nostri mandarini, d’un giallo lucente, che spuntano sulle cortecce degli alberi e che forniscono una polpa assai delicata e molto apprezzata anche dagli indiani.

Stormi di ani, uccelli bianchi e neri, grossi come merli, dalla coda lunghissima, che vivono di buon accordo con tutti gli animali, anche quelli feroci, perchè hanno la strana abitudine di sbarazzarli delle pulci e di tutti gli altri insetti che si nascondono fra i peli, svolazzavano fra i rami più bassi, mentre su quelli più alti cinguettavano senza posa gli japì, i più noiosi di tutti i volatili, avendo una voce sgradevolissima.

— Un arrosto di uccelli? — chiese Alvaro, vedendo il marinaio introdurre una freccia avvelenata nella gravatana.

— Penso di offrirvi qualcosa di meglio, — rispose Diaz che guardava invece fra le macchie di ortensie che crescevano intorno ai tronchi delle jabuticabeire.

Eccolo che si preparava a sorprendere gli ani. Lo vedete? —

Un animale che rassomigliava un po’ ad un gatto, col corpo esile lungo circa mezzo metro, dal pelame fitto, nero e bruno, la testa piuttosto grossa, con occhi grandi e gli orecchi pendenti, si