L'Uomo di fuoco/25. Un combattimento fra antropofaghi
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CAPITOLO XXV.
Un combattimento fra antropofagi.
Una settimana era trascorsa dal loro approdo in quell’isoletta, senza che nessun avvenimento avesse turbata la loro esistenza.
La ferita del marinaio si cicatrizzava rapidamente, mercè frequenti unzioni di succo resinoso dell’almescegueira, pianta che era stata trovata su un’isoletta poco discosta e dei Caheti non avevano avuto fino allora più alcuna notizia.
Non avevano fatto altro che mangiare e dormire beatamente e bere matè in quantità, avendolo trovato di loro gusto anche i due portoghesi.
Alvaro però cominciava ad affermare che la noia a poco a poco lo prendeva e che ne aveva un po’ troppo di questa vita così calma e che avrebbe desiderato tornarsene nei grandi boschi anche per variare un po’ i loro pasti che ormai si erano ridotti a uccelli acquatici ed a frutta.
Tatù non se ne trovavano altri su quell’isolotto; altri animali non ne avevano veduti; i tuberi erano pure finiti e se delle testuggini si erano mostrate fra le acque melmose della savana, non si erano però lasciate prendere malgrado i pazienti tentativi del mozzo.
— Io non sono nato per vivere eternamente su un isolotto, — ripeteva ogni mattina ed ogni sera. — Mi sembra di essere un topo in trappola. Torniamo nella foresta.
— Aspettate che io sia completamente guarito, — rispondeva il marinaio, — poi ci metteremo in cerca dei Tupinambi.
— Lasciatemi fare una sola corsa per variare la nostra tavola.
— Non commettete imprudenze, signore. I Caheti possono sorprendervi.
— Se non si sono più mostrati vuol dire che se ne sono andati.
— Non fidatevi: conosco quei selvaggi, e so quanto sono pazienti.
Sono certo che ci spiano. —
Il giorno seguente erano le medesime frasi che si scambiavano, ma tutti i buoni argomenti del marinaio non riuscivano a sradicare interamente il desiderio che tormentava Alvaro, cioè di fare una corsa nelle foreste.
L’ottavo giorno il portoghese che si annoiava mortalmente e non ne poteva più di quella monotona esistenza, armò la canoa, risoluto a fare una gita fino alla costa più vicina per provvedersi di viveri.
Gli uccelli già da qualche giorno avevano disertato l’isolotto, spaventati dagli spari dei due archibugi e la cena della sera innanzi era stata magrissima non avendo potuto trovare che un paio di tuberi e poche frutta già quasi guaste.
— Tornerò presto, — disse Alvaro al marinaio, — e se vedrò che i Caheti sono scomparsi, domani andremo tutti nella foresta.
Ormai quest’isolotto non può fornirci altro che delle foglie e della fame in quantità.
— Conducete con voi il mozzo, — disse Diaz. — Io non ho più bisogno di cure e anche stamane ho potuto alzarmi e girare intorno all’albero. Due fucili valgono meglio d’uno.
— Mi rincresce lasciarvi solo.
— Non preoccupatevi, signor Viana. Impiegherò il tempo a intrecciare due cappelli di paglia che vi ripareranno meglio dei vostri berretti già sdrusciti.
Ma siate prudenti e non accostatevi alla riva se prima non siete ben convinti che sia deserta.
— Ve lo prometto. D’altronde torneremo prima che il sole tramonti e con qualche capo di selvaggina, almeno così spero. —
Presero i due archibugi lasciando al marinaio la gravatana di cui sapeva servirsi abilmente, come abbiamo già veduto, e balzarono nella canoa.
— Prudenza! — gridò un’ultima volta Diaz, il quale si era coricato sotto l’ombra di una bananeira che lanciava le sue immense foglie in tutte le direzioni.
Alvaro rispose con un gesto della mano e la canoa si allontanò velocemente, scivolando sulle acque nerastre della savana sommersa.
— Non allentiamo, Garcia, — disse Alvaro. — In un’ora noi saremo nella foresta.
— La rivedrò anch’io volentieri, — disse il mozzo. — L’isola era diventata ormai troppo piccina anche per me e mi annoiavo al pari di voi.
— Fra quattro o cinque giorni ci metteremo in cerca dei Tupinambi, se gli Eimuri ne hanno lasciati ancora di vivi.
Non so ma anche Diaz non è tranquillo sulla sorte che può essere toccata alla tribù.
Prima gli Eimuri e poi i Caheti, e gli uni e gli altri sono grandi consumatori di carne umana.
— E se non ne trovassimo più di vivi?
— Allora mio caro, andremo verso la costa e con qualche scialuppa saliremo al nord fino a trovare gli stabilimenti spagnuoli del Venezuela.
Diaz s’è pure deciso a tentare il lungo viaggio. —
Pur chiacchierando non arrestavano di remare vigorosamente, girando e rigirando intorno agli isolotti ed ai banchi che ingombravano la savana e mettendo in fuga nuvole di volatili i quali s’affrettavano a fuggire avendo ormai provato gli effetti delle armi da fuoco.
Alle otto del mattino la canoa usciva finalmente da quel dedalo di terreni emersi e da quei gruppi enormi di paletuvieri rossi, raggiungendo le acque libere.
La riva appariva a meno d’un miglio colla sua imponente linea di alberi maestosi fra i quali torreggiavano soprattutto gli enormi summameira e le cupole ondeggianti delle iriastree, capricciosamente dentellate.
Alvaro abbandonò per un momento le pagaie e riparatisi gli occhi colle mani esaminò attentamente la spiaggia.
— Non vedo alcun canotto nè alcuna zattera, — disse poi — e nessuna colonna di fumo alzarsi fra le piante.
I Caheti devono essere tornati ai loro villaggi.
— E noi approfitteremo per fare una battuta nella foresta, — disse Garcia.
— E anche una buona raccolta di frutta, — aggiunse Alvaro.
Vedo laggiù e per la prima volta delle piante che mi sembrano cocchi.
Se le frutta non sono troppe mature ti offrirò un buon bicchiere di latte alla crema.
Animo, Garcia. Ancora dieci minuti e sbarcheremo. —
Attraversarono velocemente l’ultimo tratto della savana e giunsero in una cala minuscola che era cinta da bellissime piante chiamate pequià e anche morfim ossia dell’avorio, essendo il legno che se ne ricava d’una trasparenza e chiarezza meravigliosa.
Prima di sbarcare, i due portoghesi armarono i due archibugi e stettero in ascolto qualche minuto, temendo di vedere sorgere dietro le piante i terribili Caheti.
Udendo solamente le grida monotone d’uno stormo di arà rosse, si decisero a lasciare la canoa.
— Siamo soli, — disse Alvaro. — Andiamo innanzi a tutto a fare una visita a quei cocchi.
Mi pare che siano ben carichi di frutta. —
Si erano appena cacciati sotto le pequià quando grida acutissime echeggiarono in mezzo alle palme che formavano la prima linea della grande foresta.
— Eske! Eske! —
— Gl’indiani? — disse Garcia preparandosi a tornare verso la scialuppa.
— Mi pare che queste grida siano mandate da una truppa di scimmie.
— Che battaglino fra di loro?
— Andiamo a vedere, Garcia. Tu sai che la carne delle scimmie non è poi cattiva.
Le grida continuavano sempre più stridenti, coprendo gli schiamazzi dei pappagalli e le note squillanti delle ara.
— Eske! Eske!
— Sì, sono scimmie, — disse Alvaro che aveva già raggiunto il margine della foresta. — Le vedi lassù, su quella pianta che lancia i suoi rami quasi orizzontalmente.
— Sì, le vedo.
— Sarei curioso di sapere perchè urlano tanto. Non ti sembrano spaventate?
— Sì, signor Alvaro. Non vedete come guardano abbasso e come cercano di spingersi verso i rami più alti? Qualcuno deve minacciarle.
— Il dito sul grilletto del fucile, — ragazzo mio. — L’animale che minaccia quelle scimmie potrebbe prendersela anche con noi.
Avanziamoci adagio ed in silenzio. —
Fra i rami d’una massaranduba, cinque scimmie si agitavano freneticamente balzando ora da una parte ed ora dall’altra, urlando a squarciagola e scagliando frutta e foglie contro qualche nemico che non si poteva ancora scorgere, essendo il tronco di quella pianta avvolto fra un caos di liane.
Erano delle barrigudo, scimmie che non raggiungono mai l’altezza d’un metro, che hanno il pelame morbido, quasi lanoso, di tinta quasi nerastra con striature grigie e una specie di criniera che scende fino sulle spalle.
— Alt, Garcia, — mormorò Alvaro che si era nuovamente avanzato, aprendosi il passo fra un folto cespuglio. — Eccolo il loro nemico! Lo vedi arrampicarsi su pel tronco? —
Un bellissimo animale, grande quanto un cane di Terranuova, ma molto più snello, saliva aggrappandosi alle liane ed altre piante parassite che cingevano l’albero, con quelle mosse leggere e prudenti che si osservano nei gatti.
Aveva il pelame folto, corto e morbido, rosso giallastro sul dorso e bianco arricciato sui fianchi e sotto il ventre; la testa rotonda adorna di lunghi baffi con due occhi scintillanti, due veri occhi da carnivoro; la coda lunga più di mezzo metro e le zampe nervose, secche, armate all’estremità di lunghi artigli che laceravano con estrema facilità le liane anche le più dure.
Se Alvaro fosse stato un brasiliano, avrebbe subito riconosciuto in quell’animale un onça parda, chiamato anche puma o coguar e anche leone d’America, una belva meno pericolosa dei giaguari ma tuttavia sempre temibilissima.
Ed infatti i coguari, pur essendo relativamente piccoli, non avendo mai più di un metro e venti centimetri di lunghezza, compresa la coda, nè un’altezza superiore ai settanta, hanno una forza straordinaria e sono dotati d’un coraggio a tutta prova.
Vivono per lo più nei boschi dove inseguono accanitamente le scimmie, perseguitandole fino sui più alti rami essendo estremamente agili e potendo spiccare dei salti di cinque e perfino di sei metri. S’incontrano però sovente anche nelle praterie, specialmente là dove oggidì si allevano i montoni, dei quali fanno strage quando riescono ad entrare nei ranchos ossia nei recinti costruiti dai pastori.
Ordinariamente sfuggono l’uomo, ma se la fame li tormenta piombano anche sugl’indiani con rapidità fulminea, sgozzandoli con un buon colpo d’artiglio alla gola.
Assaliti poi, si difendono con coraggio disperato e tengono lungamente testa ai cacciatori i quali non sempre escono vittoriosi da quelle lotte.
Il puma, che doveva essere affamato e che non si era ancora accorto della presenza dei due naufraghi, continuava ad arrampicarsi senza però dimostrare eccessiva fretta, punto preoccupato delle grida delle scimmie e dei rami che gli venivano scagliati addosso.
Di quando in quando anzi si fermava e guardava sotto di sè mandando un eu-uu... rauco che ripeteva più volte.
— Non vorrei trovarmi al posto delle scimmie, — mormorò Alvaro curvandosi verso il mozzo, il quale seguiva con vivo interesse la manovra della belva.
— Che riesca a raggiungerle?
— S’arrampica meglio d’un gatto. Fra qualche minuto avrà la sua preda.
— E noi lo lasceremo commettere quell’assassinio?
— T’interessi per quelle scimmie?
Farò fuoco sull’animale ma dopo, quando si sarà impadronito della preda.
Così d’un colpo solo prenderemo l’una e l’altra. —
Il coguaro aveva raggiunto la cima del tronco e con un salto immenso si era slanciato fra i rami, cadendo così leggermente da non far nemmeno oscillare le foglie più vicine.
Le scimmie vedendolo così vicino si erano date alla fuga, cercando di raggiungere le cime più elevate, quando il coguaro, che non ci teneva a spingersi più in su, con un secondo salto piombò sulla meno lesta spezzandole di colpo la colonna vertebrale prima e squarciandole poi il collo.
Con una zampa la rovesciò sul ramo per impedirle di cadere, poi applicò le labbra sulla ferita della gola, succhiando avidamente il sangue che sgorgava in abbondanza.
— A me ora, — disse Alvaro.
Aveva puntato l’archibugio e stava mirando, quando udì un leggero sibilo e vide un sottile cannello attraversare l’aria e piantarsi nel fianco sinistro del coguaro.
Questi aveva subito interrotto il suo pasto, guardandosi intorno.
Vedendo il cannello lo spezzò coi denti, poi si rimise a succhiare come se fosse stato punto da qualche mosca importuna.
Alvaro aveva abbassato prontamente il fucile.
— Una freccia, — mormorò agli orecchi del mozzo.
— L’ho veduta signore.
— Chi può averla lanciata? Un indiano di certo.
— Fuggiamo signore.
— No, l’uomo che l’ha gettata potrebbe udirci e noi non sappiamo se è solo od accompagnato.
Restiamo qui e non muoviamoci. Il cespuglio che ci ripara è folto e nessuno può sospettare la nostra presenza.
— Ed io che stavo per far fuoco!
Un fracasso di rami schiantati seguito da un ou-uu rabbioso si fece udire in alto.
Il coguaro che doveva essere stato ferito da una freccia avvelenata, era precipitato giù dall’albero assieme alla sua vittima, sfondando col proprio peso le liane ed i rami.
— Non muoverti, — mormorò Alvaro, trattenendo Garcia che spinto da una imprudente curiosità stava per farsi innanzi. — Accovacciati presso di me e non fiatare. —
Scostò adagio adagio i rami e cercò di scoprire il cadavere del coguaro. Lo vide infatti, dieci metri più innanzi, sdraiato alla base dell’albero, presso la scimmia.
— Vedremo chi andrà a raccoglierlo, — mormorò Alvaro.
Erano trascorsi appena due minuti quando udì un fruscìo di foglie e dei rami a crepitare. Una o più persone s’aprivano il passo fra i fitti cespugli che formavano come una seconda foresta sotto la prima, costituita invece dalle palme e dalle immense summaneire, dalle pekie ecc.
Ad un tratto due persone sbucarono fra le foglie d’una bananeira e si diressero sollecitamente verso il coguaro il quale non dava ormai più segno di vita.
Alvaro aveva fatto uno sforzo supremo per non lasciarsi sfuggire un grido di sorpresa.
In quei due selvaggi aveva riconosciuto il capo degli Eimuri ed il ragazzo indiano che gli aveva servito d’interprete.
Come si trovava là quel maledetto antropofago? Aveva seguite le tracce dei due fuggiaschi smanioso di vendicarsi d’essere stato così destramente giuocato? Oppure era giunto presso la savana sommersa per puro caso, guidando qualche partita di cacciatori?
— Non muoverti, Garcia, — sussurrò Alvaro. — Corriamo il pericolo di venire mangiati. Era uno spettacolo bellissimo. I guerrieri che venivano colpiti.... (Cap. XXV).
— Chi sono?
— Gli Eimuri.
— Ancora?
— Silenzio se ti preme la vita. —
Il capo ed il ragazzo strapparono al coguaro la punta della freccia, poi il primo mandò un fischio stridente.
Un momento dopo quattro altri indiani armati di gravatane che fino allora dovevano essersi tenuti imboscati nelle vicinanze, si fecero innanzi e si caricarono del coguaro e della scimmia.
Il capo fece il giro dell’albero come se cercasse se vi fosse altra selvaggina da abbattere, ma le scimmie che poco prima si trovarono sulla cima erano ormai scomparse, slanciandosi di pianta in pianta.
Un momento dopo il piccolo drappello tornava a scomparire in mezzo ai cespugli.
Per alcuni istanti si udirono le fronde ad agitarsi, poi ogni rumore cessò e le arà, tranquillizzate, ripresero la loro monotona cantilena mentre i pappagalli cicalavano a piena gola.
— Siamo sfuggiti ad un grave pericolo per puro caso, — disse Alvaro che era ancora pallido. — Se io non m’indugiavo un poco a far fuoco a quest’ora noi avremmo addosso chissà quanti Eimuri.
— Era proprio il capo?
— L’ho riconosciuto subito, ragazzo mio.
— Che ci cerchi o che cacci?
— Cacciare così lontano dal villaggio non mi sembra ammissibile.
— Che cosa facciamo signore?
— Rimanere nascosti qui per ora e questa sera ritornare alla nostra isola. Non mi fido imbarcarmi; gli Eimuri ci potrebbero scorgere.
— Il marinaio aveva ragione a sconsigliarvi, — disse il mozzo.
— I selvaggi non ci hanno ancora presi.
— Ma torneremo a mani vuote.
— Attraverseremo la savana e andremo a cacciare su qualche altra riva. Non sarà già un oceano quel bacino paludoso.
Taci! —
Il silenzio era stato improvvisamente rotto da urla formidabili che aumentavano rapidamente d’intensità, accompagnate da suoni stridenti che parevano uscissero da quella specie di flauti formati con tibie umane e che usavano in quell’epoca quei terribili antropofagi.
Quelle urla echeggiavano in due diversi direzioni.
— Che due tribù siano alle prese? — chiese Alvaro.
— Signore, vi ricordate dei Caheti comparsi sulle rive della savana? — chiese Garcia.
— Andiamo a vedere, — disse Alvaro. — Se succede un combattimento nessuno avrà il tempo di occuparsi di noi. —
Uscirono dalla macchia e s’avanzarono verso il luogo dove le urla risuonavano sempre, tenendosi però prudentemente nascosti fra le piante più folte e scivolando di preferenza fra i cespugli.
Non avevano percorsi duecento metri, quando si trovarono sul margine d’una immensa radura, in mezzo alla quale non crescevano che pochissimi gruppetti di palme.
Alvaro non si era ingannato: due tribù, entrambe numerose, stavano per venire alle mani.
— Gli Eimuri alle prese con una tribù nemica! — esclamò il portoghese, gettandosi in mezzo ad un cespuglio.
Sei o settecento indiani, spaventosamente dipinti in nero, in azzurro ed in rosso, coi volti adorni di penne di pappagallo disposte in modo da figurare baffi, barbe e corna e divisi in due colonne, marciavano lentamente agitando furiosamente le mazze, le cerbottane, le lance e le scuri di conchiglia.
La battaglia che doveva diventare ben presto sanguinosissima, essendo tutti i selvaggi brasiliani valorosissimi, non era ancora cominciata.
Prima di assalirsi, i brasiliani usavano provocarsi da lontano per eccitarsi.
S’avanzavano gli uni contro gli altri a passo cadenzato, fermandosi di quando in quando per ascoltare le arringhe infuocate dei capi che li mettevano in un incredibile furore.
Davan fiato poi ai pifferi ed ai flauti, stendevano le braccia mostrando gli archi e le mazze o le gravatane, provocandosi con urla spaventevoli e alzando sulle picche dalla punta di selce o di spine di pesce, le ossa dei prigionieri che avevano divorati.
Gli Eimuri erano assai più superiori di numero, ma i loro avversari parevano meglio armati e poi più alti e più sviluppati dei primi.
— Se si distruggessero almeno reciprocamente, — disse Alvaro che si teneva ben celato a fianco di Garcia. — Questi sono demoni piuttosto che esseri umani.
— Chi vincerà! — chiese Garcia.
— Lo sapremo presto, — rispose Alvaro. — Simili battaglie con attacchi a corpo a corpo non devono durare molto.
Le due tribù che procedevano senza ordine alcuno ma in ranghi serrati, giunti a cento metri l’una dall’altra, posero mano agli archi e alle gravatane saettandosi reciprocamente.
Era uno spettacolo bellissimo il vedere tutte quelle frecce che terminavano in penne variopinte e che percosse dal sole riflettevano tutte le varietà delle loro tinte, volare in tutte le direzioni.
I guerrieri che ne venivano colpiti, se le strappavano dalle carni rabbiosamente, le mordevano e le spezzavano, senza dare indietro un passo nè volgere le spalle e rispondevano fino a che il vulrali, quel veleno che non perdona, produceva il suo mortale effetto.
Esaurite le frecce le due tribù si slanciarono l’una contro l’altra con un clamore assordante e le mazze alzate.