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256 | Capitolo Ventiseesimo. |
— Si sarà recato a cacciare sulla riva.
— Chi può essere?
— Un Tupinambo, ne sono certo.
Solo le indiane di quella tribù sono capaci di filare queste belle e comode amache.
— Uno dei vostri amici?
— Almeno lo suppongo.
— Che si sia rifugiato qui per sfuggire all’invasione degli Eimuri?
— Può darsi, signore. Se l’abitatore di questa bicocca è veramente un Tupinambo possiamo essere ben lieti. Egli ci servirà di guida per giungere al villaggio dei Tupy ed aiutarci validamente.
Ecco là della legna secca ed ecco qui il fornello. Prepariamoci la colazione e uniamo al gatto questi tuberi che sono eccellenti a mangiarsi. —
Accesero il fuoco e misero la pentola a bollire. Il gatto, già scorticato e ben pulito fu fatto a pezzi e gettato dentro.
— Toh! — esclamò il marinaio che frugava le cuie che erano numerose e coperte da foglie. — L’indiano si divertiva.
— Che cosa avete scoperto?
— Una cuia colma di paricà!
— Che cos’è?
— Una polvere assai inebbriante che gl’indiani estraggono dal seme d’una pianta leguminosa, l’inga, e che aspirano attraverso due penne d’avvoltoio.
— Ed a che cosa serve quella polvere?
— Fa diventare allegri come il buon vino. —
Ad un tratto mandò un grido di trionfo:
— Del tabacco! Era un bel pezzo che non ne fumavo!
— Del tabacco! — esclamò Alvaro che non capiva nulla.
— Ah! Già, mi scordavo che in Europa non si sa ancora che cosa sia.
Mandiamo giù la colazione poi faremo una pipata, giacchè vedo che il proprietario di questa tettoia ha una collezione di pipe. —