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250 | Capitolo Ventiseesimo. |
— Dai Caheti?
— Non so... vi erano anche gli Eimuri... combattevano.
— Calmatevi, signor Viana e narratemi tutto. —
Alvaro quantunque fosse in preda ad un vero accesso di disperazione, lo mise subito al corrente di quanto era avvenuto.
— Ditemi, Diaz, riusciremo noi a salvarlo? — chiese Alvaro.
Il marinaio aveva ascoltato il racconto in silenzio, corrugando più volte la fronte.
— Siete certo che non siano stati gli Eimuri a portarlo via? — chiese.
— Quei selvaggi non erano ancora giunti.
— Dunque sono stati gli altri?
— Sì, Diaz.
— Ditemi come erano quegl’indiani.
— Erano di statura più alta degli Eimuri, avevano i capelli lunghi e neri ed il colorito bruno fosco.
— Avete notato se avevano delle incisioni sulle braccia e sulle cosce?
— Sì, dei tagli abbastanza profondi, delle vecchie cicatrici.
— E delle penne appiccicate agli angoli degli occhi? — chiese ancora Diaz.
— Anche quelle.
— Erano indiani Tupy, i nemici più accaniti e più formidabili dei Tupinambi. Sono lieto che le abbiano prese dagli Eimuri, quantunque sì gli uni che gli altri siano del pari crudeli.
— Potremo noi ritrovarli?
— So dove hanno il loro villaggio principale e mi immagino che avranno condotto Garcia dal loro gran capo Piragibe, che vuol dire Braccio di pesce.
— Che lo mangino?
— Forse, se non preferiranno farne uno stregone. Non avranno però fretta essendo Garcia, per sua fortuna, troppo magro per costituire un buon arrosto e prima che lo abbiano ingrassato, passeranno parecchie settimane e fors’anche dei mesi.
— Sicchè voi non disperate di salvarlo.
— La cosa non sarà facile, tuttavia ci proveremo. Se vedremo che l’impresa sarà troppo difficile, chiameremo in nostro aiuto i Tupinambi i quali a quest’ora saranno certo tornati ai loro villaggi.
— Vi sentite di poter camminare?
— Fra un paio di giorni io sarò completamente ristabilito.