L'Olimpia/Atto I
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ATTO I.
SCENA I.
Balia, Anasira comare.
Balia. Sempre ch’io ben considero gli andamenti di questa vita mi par proprio di vedere una comedia, che n’ho viste recitar molte a’ giorni miei. Le cose riescono al contrario di quel che pensiamo: chi piú crede sapere manco sa, tal si crede avere una cosa in mano ch’altri poi gli la toglie, e si sta sempre in continuo travaglio.
Anasira. Buon dí, balia.
Balia. O comare Anasira, mille buon anni, tu sei qui?
Anasira. Mi vedi e mi domandi si ci sono. Che cosa dicevi di comedia? è forse alcuna che si recita questa sera nelle nozze di quella tua bellissima figliana che fa ragionar tutta questa cittá della sua bellezza?
Balia. Dio voglia che non ci sia altro che pianto!
Anasira. Che cosa mi dici? e come sta Olimpia?
Balia. Eh! come sta la sfortunata giovane? non ci è piú segno di quella sua bellezza. Se la vedessi non la conosceresti: par un’altra, tanto è trasfigurata. Sta di sorte che s’avessi pensato vederla in questa sciagura, me l’arei affogata a lato quando era bambina.
Anasira. Balia, narrami alcuna cosa, che ben sai che non hai comare né amica piú cara di me.
Balia. È vero; ma a te non tocca di saperlo.
Anasira. Donde ti è nata tanta secretezza?
Balia. Donde a te tanta curiositá.
Anasira. Se non fussi stata la prima a pregarti che lo dicessi, m’aresti pagata che t’ascoltassi, che poco anzi per aver carestia di chi t’ascoltasse, l’andavi raccontando a questa piazza.
Balia. Chi ha gran voglia di udire ha gran voglia di ridire, e questa è cosa d’importanza piú che non pensi.
Anasira. Teh! ti sei fidata di me delle cose dell’onor tuo — ché ben sai che facesti in casa mia quando eri giovane, — e or tieni tanto secrete le cose altrui.
Balia. E se tu m’hai narrate le tue vergogne, come posso sperare che tacci l’altrui? Noi femine siamo troppo novelliere e larghe di natura al parlare; e fra tante meraviglie che s’odono, mai s’udi che una femina nascesse muta.
Anasira. Or poiché è vizio di natura e siamo pur note a tutti, non ci vituperiamo noi stesse. Però comincia, su.
Balia. A te non posso dir di no: però ti priego che non ne facci parola con persona. Olimpia s’è fidata di me e non ci è altro che lo sappi, e ogni cosuccia che si scoprisse estimarebbe subito che fosse uscita da me. Taci e ascolta.
Anasira. Taccio e ascolto.
Balia. Sai bene come i mesi adietro Olimpia dimorò in Salerno in casa di Beatrice sua zia un certo tempo. Quivi vedendola a caso un gentiluomo chiamato Lampridio, ch’era venuto di Roma per studiare, s’accese dell’amor suo ardentissimamente; e non mancando di servirla e scoprirle il suo fuoco, Olimpia cominciò a vederlo assai volentieri e rendergli il contracambio; e confacendosi i costumi dell’una e dell’altro, si innamoraro sí fattamente che non fu mai inteso al mondo il piú ardente amor di questo: non amor no, ma rabbia. S’han dato la fede di nascosto d’esser marito e moglie; e non altro che la commoditá manca a dar fine agli affanni loro. E di questo amore Mastica, il servitore di casa, era il mezzano, che Lampridio l’avea corrotto con dargli benissimo da masticare. ...
Anasira. Questo deve essere il suo primo amore: però è cosí furioso.
Balia. ...Sennia intanto, la madre d’Olimpia, trattò matrimonio col capitan Trasilogo nostro vicino; e come quello che ne stava innamorato, s’accordò subito: talché s’inviò a chiamare Olimpia, che fusse ritornata a Napoli. Come ella giunse, cominciò Sennia con belle parole a dirle che l’avea maritata, e pregandola ci consentisse e le desse quell’ultima consolazione che tanto tempo avea disiato da lei; percioché sapendo la ricchezza, il parentado e il valore di questo capitano, gli l’avea promessa da sua parte, tenendo per fermo che, come obediente figliuola che l’era stata sempre, non sarebbe stata contraria al voler suo. Olimpia sentendo questo, pensa tu, sorella, il dolore. Ella tramortí subito, restò con la faccia di color di cenere e stette buon spazio a riaver la favella. Pur facendo forza a se stessa, fingendo buon viso, con certe lusinghette rispose che non volea cosí tosto allontanarsi da lei, non avendo conosciuto né altro padre né altro fratello che lei; e che tanto sarebbe lasciarla quanto lasciar la propria vita, massime essendo vecchia, malsana e in etá da esser governata, e che avea bisogno d’una che le fusse stata serva e figlia insieme sollecita alla sua salute. E accompagnò queste ultime parole con certe lagrimette che si pensò la madre che fussero nate dalla pietá di lei. ...
Anasira. Che disse la madre? non si commosse tutta?
Balia. ...Lodò molto la sua amorevolezza, la baciò in fronte affettuosamente con dirle che non era nata per star sempre in casa. Cosí la lasciò per parecchi giorni; pur veggendola star ritrosa, l’ha fatta esortar da parenti, da amici e da vicini ancora; al fin conoscendola ostinata, l’ha fatto intendere che tanto vuol che sia sua figlia quanto l’è ubidiente. ...
Anasira. A che s’è risoluta la poverina?
Balia. ... La poverina non potendo piú con ragione resistere a’ contrasti della madre, ha detto de sí, purché si trattenghi per tre soli giorni, quali son giá finiti; e s’è inviato a dirsi al capitano che s’appresti sposarla per questa sera. ...
Anasira. Perché ha detto de sí? che speranza poteva avere in sí pochi giorni?
Balia. ... Ha inventato il piú bello e colorito inganno che possa imaginarsi, non solo di schivar queste nozze cosí odiate da lei ma di venir al fin di questo suo amore. ...
Anasira. Che inganno è questo?
Balia. Bastiti quanto t’ho detto.
Anasira. Non mi lasciare al meglio con la bocca sciapita, eh! Onde hai tu imparato cominciar una istoria de innamoramento e non venir al compimento fin al dolce?
Balia. ... Giá devi sapere che Sennia, la mia padrona, venti anni sono si maritò con Teodosio e di lui n’ebbe duo figli, Eugenio il maschio, Olimpia la femina. Teodosio togliendosi un giorno Eugenio in braccio per ischerzo, andò a diporto ad una sua villa a Pausilippo; e quivi fur presi di notte da una galeotta di turchi, e da quell’ora non mai piú se ne è potuto saper novella se sian vivi o morti. Ma Sennia tien gran speranza che sien vivi, che una zingara vedendole la mano le indovinò ch’eran vivi e ben presto tornerebbono; ed ella dice che se li sogna ogni notte che vengono. ...
Anasira. Che mi curo di saper questo io?
Balia. Se prima non ti dico questo, non potrai capir l’inganno. — ... Olimpia da che venne a Napoli per provar l’animo della madre come stava saldo alla trama ordita tra lei e Mastica ministro del tutto, ha finto certe lettere come le mandasse Eugenio di Turchia, scrivendole ch’era morto Teodosio e che esso avea rotto la prigionia e la catena ed era in camino per venirsene a casa; e fece portar queste lettere alla madre da un certo turco fatto cristiano lor conoscente. Il che Sennia non solo se l’ha creduto ma n’ha preso un’allegrezza cosí grande che non cape nella pelle e va scalza per le chiese e fa gran voti. Or da questa credenza Olimpia ha pigliato piú fidanza di seguire. ...
Anasira. A che effetto cotesto?
Balia. ... Or vuol che Lampridio si vesta da turco col ferro al collo e con la catena a’ piedi come se fusse scampato di man loro, perché è giá di venti anni, conforme all’etá che potrebbe avere Eugenio; e con dir che sia suo fratello, entrará in casa nostra, disturberá le nozze di questo capitano, e niuno potrá negargli che non stia solo e accompagnato con la sua Olimpia come gli piace. Ecco son arrivata fin al dolce, fin al fine; vuoi piú?
Anasira. Or sí che l’intendo, ed è certo un inganno accortissimo; e sento tanta dolcezza che questa gentil giovane resti contenta, che par sia Olimpia io e ancor io ne senta la mia parte. Ma dimmi: se Lampridio fusse riconosciuto in Napoli, non si scoprirebbe l’inganno?
Balia. Egli non mai fu in Napoli; e Olimpia l’ha fatto intendere per un certo Giulio studente, amico comune, che per quanto ha cara la grazia sua, per una cosa importantissima non venghi a Napoli prima che sia avisato, accioché non fusse riconosciuto da alcuno, come dici.
Anasira. Come Sennia non s’accorgerá che questo non è suo figlio?
Balia. Non t’ho detto io ch’appena era di due anni quando le fu tolto? e io le ho inteso dir mille volte che se lo vedesse non lo riconoscerebbe.
Anasira. Iddio le faccia succedere ogni cosa come desidera. Ti vo’ lasciare, a dio.
Balia. Tienlo secreto, sai: tu vedi quanto importa.
Anasira. Se non l’hai potuto tener secreto tu che t’importa, come lo posso tener secreto io che non mi si dá nulla?
Balia. Deh, per amor di Dio!
Anasira. Io scherzo cosí teco. (Ma chi può contenersi, se trovo il capitano, di non rivelargli cosí bella trama?).
Balia. Ti farei compagnia, se non avessi a ragionar con Mastica su questo fatto; e però son uscita e giá lo veggio venir in qua.
SCENA II.
Mastica parasito, Balia.
Mastica. Dicono i medici del mio paese che si trova una infermitá che si chiama «lupa», che dá una fame tanto affamata che quanto piú mangia piú s’affama. Io stimo esser nato con questa malattia non solo nelle budella ma nelle midolle dell’ossa, né tutti i sciroppi, medicine e servigiali del mondo non la possono cavar fuori. ...
Balia. Mastica Mastica!
Mastica. ... Io sento — che lupi, che cani — piú di cento leoni nello stomaco; io non vorrei far mai altro che mangiare, non mi veggio satollo mai, anzi quanto piú mangio piú cresce la rabbia. La fame ha preso tanto dominio sopra di me, che quanto piú cerco torlami da dosso piú vi se attacca.
Balia. O Mastica Mastica!
Mastica. Chi chiama Mastica non chiama me: chiamimi «digiuno» se vuol che gli risponda. Non vo’ esser Mastica, che non mastico se non sputo e vento.
Balia. Oh che affamata risposta!
Mastica. Oh che sciapita chiamata!
Balia. Non sei Mastica tu?
Mastica. Cosí tu fossi un pasticcio, ch’al primo ti porrei mano al cappello e mi ti tranguggiarei in un boccone!
Balia. Parea che non mi conoscessi.
Mastica. La fame m’avea cosí offuscati gli occhi che non ti conosceva.
Balia. Hai fame cosí mattino?
Mastica. Non sai tu che la mattina apro prima la bocca che gli occhi?
Balia. Ho bisogno del fatto tuo; odi un poco.
Mastica. Che vuoi tu ch’oda? «Ventre che non rode, mal volentier ode».
Balia. Lascia questi scherzi.
Mastica. Lascia questo braccio.
Balia. Vien qua e fai bene.
Mastica. Non trascinare e fai meglio! Oh, che avessi incontrato la carestia piuttosto questa mattina che te! sai come mi piacciono le tue pari!
Balia. Fa’ questo piacere a me.
Mastica. Non vo’ far questo dispiacere a me né alla mia persona; so ben quel che tu vuoi. Per parlarti chiaro, balia, se ben tutte le donne son insaziabili di natura, la tua non ha né fin né fondo. Star morto di fame, stracco, fastidito e donne intorno, pensalo tu.
Balia. Non vo’ quel che tu pensi.
Mastica. Io pensava quel che tu suoli volere. M’hai ritornato l’animo: lasciami respirare un poco. Ho preso tanta paura che non sará ben di me tutto oggi.
Balia. Cosí ti dispiacciono le donne, eh? che maggior piacer si può trovare che star con una donna bella come un agnolo?
Mastica. Se tu avessi detto «come un agnello», aresti detto assai meglio, che questo ti pone in corpo la sanitá, non ne la cava, né col tempo ti viene a noia. La donna piace per un poco, poi viene a fastidio; ma questo quanto piú invecchiamo piú ne piace. Lasciam questo: che cerchi da me?
Balia. Ho da farti un’ambasciata di Olimpia.
Mastica. Che fa?
Balia. Eh! che fa la povera martorella? piange e sospira sempre, né so come gli occhi possano supplire a tante lacrime e il petto a tanti sospiri. Io ho visto femine innamorate, ma non mai come questa. È venuta in odio a se stessa: volge gli occhi spaventosi di qua e di lá, ragiona sola fra se stessa come se vi fossero persone d’intorno. La notte non dorme mai: or si volge su questo or su quell’altro fianco come se il letto fusse d’ortiche o di spine, e se pur per stanchezza chiude gli occhi, si sveglia subito; non mangia né beve. ...
Mastica. Or questo sí che è cattivo e il peggior di tutti.
Balia. ... Sta attonita e sospesa d’animo, e quando vengono quelle ore nelle quali era solita star in conversazione in Salerno con Lampridio, tramortisce; e come torna in sé si straccia i capelli, grida e fa cose da spiritata: e ché la madre non la senta, si morde le labbra e le braccia. E sta tanto fitta su questi pensieri e s’affligge tanto amaramente che farebbe compassione alla crudeltade: par che d’ora in ora me la veggia morire in braccio. Coltello di questo core! ...
Mastica. Se tu mi avessi dato da bere t’aiuterei a piangere, ché gli occhi mi stanno cosí asciutti che se gli ponessi in un torchio non ne potresti cavar fuori una lacrima. Ma che vuol da me?
Balia. ... Dice ch’ora è tempo dar ordine allo inganno ordito per turbar queste nozze del capitano, però desia parlarti su questo fatto or che la madre è in letto; che entri in questo vicolo che ti parlerá da quella fenestra secreta.
SCENA III.
Olimpia, Balia, Mastica.
Olimpia. Balia balia!
Balia. Figlia eccomi, ferita dell’anima mia!
Olimpia. È qui Mastica? ecci alcun per le fenestre o per la strada che mi veggia?
Balia. Non appar anima nata. Accostati, Mastica.
Olimpia. Mastica!
Mastica. Padroncina mia dolce!
Olimpia. Ricordati che non ho mai lasciato far cosa per tuo servigio, però ti priego m’aiuti in questo mio estremo bisogno.
Mastica. Son vivo per amor vostro, ché sarei morto di fame mille volte; e per farvi piacere starei un giorno intiero in tavola a mangiare sempre e mi beverei un baril di vino ad un fiato, se ben andassi a pericolo di scoppiare.
Olimpia. È bisogno ch’or ora tu vadi a Salerno a trovar Lampridio mio e dargli questa lettera dove è scritto l’inganno ch’abbiamo ordito, e che non manchi tosto esseguirlo. E digli a bocca che l’ho amato assai piú in assenza che non l’amai in presenza, e che solo un refrigerio ho avuto in questa lontananza: che mi sono trasformata in pensiero e stata tanto sospesa in lui che mi sono dimenticata di me stessa e dell’affanno dove viveva, che non l’ho lasciato scompagnato un sol passo, che gli sono stata sempre intorno come l’ombra sua: e che si dimentichi Idio di me se per un sol punto mi sono io dimenticata di lui; e per quanti momenti di piacere ho avuti lontano da lui, tanti mille anni n’abbia di discontento; e se per merito d’altra persona son cambiata mai di fede, cada nel piú basso stato di miseria che si trovi. ...
Mastica. E come mi potrò io ricordare di queste parole letterate?
Olimpia. ... E digli che mia madre mi vuol sposare ad ogni modo col capitano, che ho fatto dalla mia parte quanto ho saputo e potuto e che non posso far piú per esser costante in amarlo e osservargli la fede che l’ho data d’esser sua eternamente, e che mai non vedrá persona Olimpia viva ch’abbia altro marito, ch’io non voglio né posso amare altra persona che non sia lui: che il capitano sollecita e s’affretta, la mia volontá non ci consente; l’obedienza di mia madre mi sforza, Amor con forti catene mi tira a sé; la mia libertá è in poter d’altri, la mia vita nelle sue mani: che consideri in che vita e in che inferno mi trovo, che sto come quella che sta confessandosi che d’ora in ora aspetta giustiziarsi; che se sono forzata maritarmi con questo capitano, m’ho serbata una carta di soblimato, che s’usa ne’ lisci della faccia, per avelenarmi. Onde s’è vero quello amore ch’ha detto portarmi, e se non ha sepolto con la lontananza la memoria di chi tanto mostrò d’amare, ch’or è tempo mostrarlo; non lo spaventi periglio o fatica, che solo a chi ben ama ogni affanno è legiero. ...
Mastica. (Giá è cominciata la predica, non finirá sí tosto).
Balia. Ascolta, Mastica.
Olimpia. ... Arei molto che dirti. Per finirla, apriti il petto, mostragli il cor tuo in scambio del mio; ché sapendo egli il cor mio, vedendo il tuo vederá appunto il mio.
Mastica. Tacete, che s’apre la porta del capitan Mastrilogo o Trasilogo, e vien fuori: che non ci senta parlare di queste cose.
Olimpia. Aggiongivi altro tanto del tuo, Mastica, sai.
Mastica. Será bene se gli dirò la metá di quanto m’avete detto.
Balia. Mastica, son tua schiava.
Mastica. E io tua chiave.SCENA IV.
Trasilogo capitano, Squadra suo servo, Mastica.
Trasilogo. Olá, o di casa! Pestamuso, Franginaso, Pelabarba, Rompicollo, Spezzacatene, Cacciadiavoli! O che dormono intorno al foco o stanno distesi in stalla a grattarsi la pancia. Non posso vedermi intorno questa razza di poltroni infingardi.
Squadra. Che comandate, signor capitano?
Trasilogo. Ordina a Pestamuso e a Franginaso che spazzino le camere e la sala, attacchino gli arazzi a’ muri e mettano in ordine il palazzo; ...
Squadra. Si fará.
Trasilogo. ... Fracasso e Spezzacatene racconcino l’armaria, poliscano l’armatura e forbiscano ben bene la mia «passacuori», che sia piú splendente che il sole in leone, che calando di sopra il colpo, il lucido paia il lampo e la caduta il tuono;...
Squadra. (Penso che la ruggine se l’abbi divorate).
Trasilogo. ... ancora: che i cavalli fresoni, ginetti di Spagna e quelli del Regno sieno stregliati e forniti di tutto punto, e fra gli altri lo stornello che si chiama «il capitano», che s’assomiglia tutto a me d’animo, di forza e di gagliardia.
Mastica. (E di discorso ancora).
Squadra. Perché questo apparecchio, padrone?
Trasilogo. Questa sera mi sposerò con Olimpia, che iersera me lo fe’ intendere la madre; e tu sai bene come io sia morto e sbudellato per amor suo.
Mastica. (Tanto abbi l’anima quando l’arai!).
Squadra. È pur contenta Olimpia, e quando venne di Salerno ne stava cosí ritrosa!
Trasilogo. Ella fingeva cosí per fare mona Onesta con la madre; ma ella si strugge e spasima per amor mio. Oh, non sarebbe una sciocca se ricusasse me per qualsivoglia? non sono io il primo uomo del mondo?
Mastica. (Costui deve essere Adamo. Ma il pecorone s’è ricordato di tante cose e non ha fatto ancora parola della cucina).
Trasilogo. Ascolta, m’era dimenticato il meglio: fa’ ...
Mastica. (Che s’apparecchi benissimo da desinare).
Trasilogo. ... che si cuopra quel mio ritratto che sta in quello atto fantastico e bizzarro e con quegli occhi sfavillanti, che sarebbe impossibile che vedendolo Olimpia, che è una fanciulla, non le venghi lo spasimo. Ho tanta virtú in questi occhi che stando irato non è persona di sí intrepido core che vi possa fissar lo sguardo. ...
Mastica. (Oh! come fa bene a farlo coprire, ché non è uomo che non cali giú gli occhi per non veder quella faccia di stregone).
Squadra. Che sète forse basilisco?
Trasilogo. ... Non sai tu ch’ovunque vado vien meco la morte e lo spavento? e ovunque volgo lo sguardo fo tremar l’istesso ardimento, sí come proprio fusse il terremoto? ...
Squadra. Perché vien la morte con voi?
Trasilogo. ... Perché ha piú facende venendo meco che s’andasse con la peste e con la guerra accompagnata. Chi tronca piú teste? chi taglia piú gambe e braccia? chi scavezza piú colli? chi apre piú uomini per mezzo che questo mio braccio gagliardo? ...
Mastica. (Certo costui deve esser boia, poiché squarta uomini, taglia teste e scavezza colli).
Trasilogo. ... Di’ a Pelabarba, se venissero sergenti, capitani, colonnelli, maestri di campo o altre persone di conto a dimandarmi, gli dica che son ito a Palazzo, che S. E. tien Consiglio di Stato questa mattina. Tu compra robbe accioché s’apparecchi per questa sera, poi vieni a trovarmi dove tu sai.
Mastica. (Poiché compra robbe me gli vo’ scoprire; forse ne carpirò una colazionetta questa mattina).
Trasilogo. Ma io veggio Mastica. O Mastica mio galante!SCENA V.
Mastica, Trasilogo.
Mastica. Eccomi, fior della cavalleria, re di paladini, gloria di rodomonti!
Trasilogo. Dove si va?
Mastica. Dove mi sento trascinar dalla gola.
Trasilogo. Tu vuoi dir che vorresti mangiar meco, eh?
Mastica. Fareste una opera pia: all’altro mondo ve la trovareste all’anima.
Trasilogo. Orsú vo’ che desini meco.
Mastica. O principe, o re, o capitano strenuo e valoroso!
Trasilogo. Che dice Olimpia di me?
Mastica. Che questa notte s’è sognata con voi e che voi le parete il piú bel gentiluomo del mondo.
Trasilogo. Haile tu detto che se ho un viso d’angiolo ho un cuor di diavolo? in somma la mia bellezza mi rubba gran parte della fama delle mie pruove; ché le genti vedendomi cosí bello non si ponno imaginare che sia quel satanasso, quel gran diavolo ch’io sono. Haile tu raccontato le cittá che ho prese, le tante volte che ho combattuto in steccato e le battaglie terribili c’ho fatte?
Mastica. Quali?
Trasilogo. ... Non devi esser di questa cittá o sei nato sordo, poiché non hai inteso per ogni cantone le mie pruove. Ascolta, che vo’ raccontartene una spaventevole che un tempo ebbi con la famosa Alitia. Questa è piú valorosa d’una Angroia, d’una Marfisa bizzarra, e siamo stati sempre capitalissimi inimici. Un dí bandimmo giornata: a lei vennero in aiuto i popoli grinei, dinamèi e dicei; a me i popoli alopecèi, epitáli ed epismirni. ...
Mastica. Oh che nomi da scongiurare spiriti! e sonovi questi popoli sul pappamondo?
Trasilogo. Tu sei poco prattico nelle guerre, però non li conosci.
Mastica. Io non conosco se non i popoli panettari, piscatori, tavernari e salcicciari che mi donano da mangiare: con questi prattico e fo le mie scaramucce. Ma che seguí della guerra?
Trasilogo. ... Combattendo seco, quantunque l’avessi dato diecimilla stoccate non la poteva uccider mai, perché era fatata come Orlando. Al fin per torlami dinanzi, le attacco una pietra al collo e la sommergo nell’Arcipelago. ...
Mastica. Crudel battaglia fu questa!
Trasilogo. ... Ascolta quest’altra ch’ebbi con gli uomini marini. ...
Mastica. Che uomini marini?
Trasilogo. Questi sono mezzi uomini e mezzi pesci; e cosí scorrono per lo mare come gli uccelli per l’aria, e son coverti di piume molli che dando loro con la spada cedono al taglio, che non fa ferita. Né si può loro appressar con navi, perché portan fuoco e le bruggian tutte. ...
Mastica. Voi come l’uccideste?
Trasilogo. ... Prima tesi una rete tessuta di gomene di navi tra certi scogli, poi feci carri di soveri e vi posi delfini a briglia; e dando loro la caccia gli feci cadere nell’imboscata, poi tenendogli sospesi dall’acqua gli lasciai morir di fame come cani. ...
Mastica. Oh che morte crudele! or non v’era altra sorte di farli morire che di fame? Ma dimmi, non ci fu alcun testimonio che lo vidde?
Trasilogo. ... I miei compagni tutti moriro all’impresa e di loro non rimase niuno vivo. Ma io te ne racconterò delle piú brave. ...
Mastica. Bastan queste: non piú, di grazia.
Trasilogo. Ascolta, che poi anderemo a pranso.
Mastica. Vo’ piuttosto star senza pranso che ascoltar queste bugie.
Trasilogo. Io non so dir mensogne, né son di questi squassapennacchi che con le loro frappe accrescono le cose loro piú di quello che sono. In fatti son piú fiero che non mostro con le parole. Va’ e racconta queste cose ad Olimpia, che ti donarò una alfangia spagnola vecchia. ...
Mastica. Che cosa è «armangia»?
Trasilogo. Dico «alfangia» non «armangia».
Mastica. Che m’importa alfangia o armangia! vi domando s’è cosa da mangiare.
Trasilogo. ... È una scimitarra che tolsi al capitan don Juan Manrich Caravaschal cara de Pamplona. ...
Mastica. Gran scimitarra dovea esser questa che ci ponevano la mano tante persone!
Trasilogo. Che tante persone?
Mastica. Questi «tric», «varric», «varrá», «varrone» che avete detto.
Trasilogo. ... E ave un bel manico d’avorio posticcio.
Mastica. Pasticcio? questo sí che l’accetto.
Trasilogo. Ti lascio, ch’io vo’ partirmi.
Mastica. E quando pransaremo?
Trasilogo. Io vo a desinare con S. E. questa mattina, che iersera ne volse la fede mia di non mancarle. Questa sera cenerai nel banchetto della tua padrona, che ben sai che dove la sera si fan nozze la mattina non vi si mangia.
Mastica. Disgrazio tal legge e chi la compose!
Trasilogo. Tu sei in còlera meco: non ti partire, ch’adesso ritornerò, che giá non è ora di pranso.
Mastica. In casa tua mai non è ora di pranso mentre ci sono io. Temerario vantatore, capitan di ranocchi, mi fa ascoltare e parlar quattro ore, poi me ne manda assordito e diseccato, senza mangiare e senza bere. Si pensava che le sue parole m’entrassero in corpo e mi servissero per cibo, o forse mi voleva far morire come quelli suoi popoli. Mi voleva dar l’alfangia, come s’io avessi bisogno di queste armi per combattere con la fame: ché non ho altra nemica al mondo, né è piú gran pericolo che combatter con lei; e se non mi difendessi a piatti di lasagni, di maccheroni, caponi, faggiani e fegatelli, m’ucciderebbe. Orsú, me n’andrò ratto a Salerno per trovar Lampridio e gli darò la lettera, che per mancia non mi mancherá un banchetto da imperadore.