L'Oceano/Canto primo

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Lettera a N. Canto secondo


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CANTO PRIMO


DELL’ OCEANO


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I.


Cantiam, Musa, l’Eroe di gloria degno,
     Ch’ un nuovo Mondo al nostro Mondo aperse,
     E da barbaro culto e rito indegno
     4Vinto il ritrasse, e al vero Dio l’offerse:
     La discordia de’ suoi, l’iniquo sdegno
     Dell’inferno ei sostenne, e l’onde avverse;
     E con tre sole navi ebbe ardimento
     8Di porre il giogo a cento regni e cento.

II.


Dai termini d’Alcide avea già sciolte
     Le vele il domator dell’Oceano,
     E con le prore all’Occidente volte
     12Si lasciava alle spalle il lito ispano:
     Tutte d’intorno a lui parean sepolte
     Le tempeste nel mar placido e piano,
     E invitata da un ciel puro e sereno
     16Gli apriva Teti al gran disegno il seno.

III.


Un fresco venticel da terra usciva,
     Ch’ invigorendo il cor de’ naviganti
     Faceva di lontan fuggir la riva,
     20E da tergo sonar l’onde spumanti.
     Era nella stagion che l’Alba apriva
     Cinta di rose il cielo e d’amaranti,
     E affacciata al balcon dell’Orìente
     24Parea languir mirando il Sol nascente.

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IV.


Salutavan le trombe il nuovo giorno,
     E i delfini a scherzar correan sull’onde;
     Sedeva in poppa il Capitano, e intorno
     28Cinte de’ suoi degni eran le sponde;
     Ei con parlar ferocemente adorno,
     E con voci magnanime e faconde,
     Diceva lor: Oggi, compagni, è il punto,
     32Che ’l nostro Sole all’Orìente è giunto.

V.


Oscura abbiamo e neghittosa vita
     Fin qui dormito; or s’incomincia l’ora,
     Che fuor dalla vulgar nebbia infinita
     36Usciamo al dì lucente; ecco l’Aurora.
     Questa via, ch’altri mai non ha più trita,
     Vi conduco a solcar del Mondo fuora,
     Acciò che fuor della comune schiera
     40Usciate meco a fama eterna e vera.

VI.


E s’alcuno di voi con maggior cura
     D’oro e di gemme a faticar s’invoglia,
     Io spero di trovar tal avventura
     44Che ne potrà saziare ogni sua voglia,
     Che la via che facciam, non sia sicura
     Il vedermi con voi dubbio vi toglia;
     Che pazzo è chi desia per cangiar sorte
     48D’espor se stesso a temeraria morte.

VII.


Così parlava; e già trascorsi tanto
     Erano i legni suoi nel mare immenso,
     Che del lito affrican da nessun canto
     52Non appariva più vestigio al senso;
     Quando rivolse al glorìoso vanto
     Gli occhi il superbo Re dell’aer denso,
     E antiveduto il suo periglio sorse
     56Dal nero seggio, e l’empie man si morse.

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VIII.


E chiamando i Ministri, a’ quai commessa
     L’aria avea d’Occidente e ’l mar profondo,
     Grida lor furìando: E chi concessa
     60Al Colombo ha la via del nostro Mondo?
     Dunque d’un uomo vil l’audacia oppressa,
     E sommersa del mar nel cupo fondo
     Esser non può con tre legnetti frali?
     64O ignominia degli Angioli immortali!

IX.


Se tornate quaggiù, spiriti indegni,
     Senz’ averlo affogato entro a quell’onde,
     O distornato almen sì ch’ a quei regni
     68Non giunga mai che l’Oceano ascende,
     Io vi farò provar l’ire e gli sdegni
     Ch’ io serbo alle perdute anime immonde,
     E legherovvi di catene eterne
     72Tra ’l foco e ’l giel delle paludi inferne.

X.


Sì disse il Re dell’ombre, e ’l guardo fiero
     Volgendo a Buccifar terror de’ venti,
     Mostrò, ch’ a lui del suo crudele impero
     76Toccassero le basi e i fondamenti.
     Come nottole uscian per l’aer nero
     Gli spiriti mal-nati ai rai lucenti,
     E pareva che ’l Sole a quell’uscita,
     80Ritirasse la luce impallidita.

XI.


Liete se gían le tre famose navi
     Col vento in poppa in alto mar sicure;
     Quand’ ecco si turbar l’aure soavi,
     84E l’onde si turbar placide e pure
     All’apparir degli empi spirti e pravi;
     Parve ascondersi il ciel fra nubi oscure,
     E i venti che dormian sopra l’arene
     88Del mar, ruppero i ceppi e le catene.

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XII.


Scatenato Libeccio Africa lassa,
     E verso Tramontana i vanni spaccia;
     Euro al fondo del mar corre e s’abbassa,
     92E le tempeste in ciel Volturno caccia.
     Vede il periglio il Capitano, e passa
     A confortare i suoi pallidi in faccia;
     Fa calare ogni vela in un momento,
     96Fuor che ’l trinchetto, e piglia in poppa il vento.

XIII.


Nè provveduto ancor del tutto ei s’era,
     Che riversò la maledetta gesta
     Dalla faccia del ciel torbida e nera
     100Grandine e pioggie e fulmini e tempesta:
     Sparve il giorno col Sole, e innanzi sera
     Notte si fe’ caliginosa e mesta;
     Nè rimase altro lume ai naviganti,
     104Che quel ch’uscia dai folgori tonanti.

XIV.


Crescono l’onde a tant’ altezza, ch’ elle
     Perdon la forma e la sembianza d’onde:
     Le navi ora salir verso le stelle,
     108E sulle nubi alzar paion le sponde:
     Or traboccar fra l’anime rubelle
     Sembran nelle voragini profonde;
     E al romper dell’antenne e delle sarte
     112Han già i nocchieri abbandonata l’arte.

XV.


Tutto quel dì, tutta la notte appresso
     Per le vie della morte errar dispersi.
     Sembra la pioggia al cader folto e spesso
     116Che giù nel mare un altro mar si versi;
     Crescono i venti, a memorando eccesso
     Stretti a soffiar degli Angioli perversi;
     E già comincia il Capitan co’ suoi
     120Forte a temer che l’Ocean l’ingoi.

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XVI.


Ciò che saggio nocchier, ch’ antiveduto
     Potea fare o soldato, o capitano,
     Tutto fe’ il valoroso, e fu veduto
     124Ne’ più vili bisogni oprar la mano;
     Ma quando indarno alfin vide ogni aiuto,
     Ogni fatica, ogni consiglio vano;
     Fermossi immoto, e pien d’ardente zelo
     128Rivolse gli occhi e le parole al Cielo.

XVII.


E disse: Ecco, Signor, che vinto cede
     Alla possanza tua mio frale ingegno;
     Se non è tuo voler che la tua fede
     132Portata sia da un peccatore indegno,
     Dove non pose mai, ch’ io creda, il piede
     Alcun della tua legge e del tuo regno;
     Perdona a questi almen che non han colpa
     136E del soverchio ardir me solo incolpa.

XVIII.


Ma se questi del mar fieri contrasti
     Vengono a noi dalla Tartarea corte;
     Tu, che d’Egitto all’empio Re mostrasti
     140L’alto valor della tua destra forte,
     E d’Israel il popolo salvasti,
     Oggi salva ancor noi con egual sorte;
     E vegga dell’Inferno il seme rio
     144Che ’n cielo, in terra e ’n mar tu sol sei Dio.

XIX.


Salì questa preghiera al ciel volando,
     E fermò l’ali ai piè del Redentore.
     Mirolla, e ’l guardo in Urrìel girando,
     148Che dell’Ispano regno è protettore;
     Va’ tu, gli disse; e quegli al gran comando
     Tosto s’armò di lampi e di terrore,
     E dove perigliar vede il Colombo
     152Trasse la spada e già lanciossi a piombo.

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XX.


I miseri guerrier prostrati al suolo
     Stavano orando in atto umile e pio;
     Quando si scosse l’uno a l’altro Polo,
     156E tremò il mondo, e un fiero tuon n’uscio;
     Ed ecco di lontan videro a volo
     Folgorando venir l’Angel di Dio,
     E parve ai lampi e alle fiammelle sparte
     160Che giù cadesse il Sole in quella parte.

XXI.


Qual digiuno falcon, che d’alto veda
     Di storni, o d’altri augei schiera che passa,
     Piomba dal cielo e la disperge e fiede
     164Con l’artiglio e col rostro, e la fracassa;
     Cotal l’Angel di Dio dall’alta sede
     Sovra gli empi demoni i vanni abbassa;
     Gli percuote e gli caccia e gli disperge,
     168E ’l nubiloso ciel colora e terge.

XXII.


Fra i nembi che fuggian da’ suoi sembianti
     Tralucevano i rai con lunghe spere;
     Fuggiano i venti e i turbini sonanti,
     172E le procelle e l’ombre oscure e nere:
     Egli in atti sdegnosi e fulminanti
     Con la spada ferir l’inique schiere,
     E cacciarle del ciel visibilmente
     176Veduto fu dalla smarrita gente.

XXIII.


Allor levossi il Capitan gridando:
     O fortunati, ecco un guerrier celeste,
     Che combatte per noi lassù col brando,
     180E discaccia i demoni e le tempeste.
     Chi vuol segno più lieto e memorando?
     Ecco il ciel che s’allegra e si riveste
     D’azzurro, e ’l mar che placa il gonfio seno:
     184Mirate là più avanti, ecco il terreno.

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XXIV.


Così parlava, e di lontan vedea
     Molt’ Isole nel mar fra se distinte.
     Onde le prore a quel sentier volgea,
     188Dove parean dal vento esser sospinte:
     Eran l’Isole queste ove credea
     L’antica età, che delle genti estinte
     Volassero a goder l’alme beate,
     192E le chiamò felici e fortunate.

XXV.


Porto in una di lor sicuro stassi,
     Ch’entra nel lido e forma un ampio cinto;
     E fuor, là dove ad imboccarlo vassi,
     196Stretto è di foce e d’alti scogli è cinto:
     Nella tempesta il mar da’ cavi sassi
     Spumeggiando ritorna indietro spinto;
     Ma non può l’ira mai del vento audace
     200La cheta onda turbar, che dentro giace.

XXVI.


Quivi il Colombo entrò con le sue navi,
     E stanza vi trovò dolce ed amena,
     Praticelli, boschetti, aure soavi,
     204Fonti, rivi, e d’amor la terra piena;
     Fiorite l’erbe e gli arboscelli gravi
     Di frutti, e intorno una continua scena;
     E tra le frondi augelli e per le valli,
     208Persi, verdi, vermigli, azzurri e gialli.

XXVII.


Ma non s’offerse cosa a riguardanti
     Più gradita da lor, nè più gioconda,
     Ch’ un vezzoso drappel di Ninfe erranti,
     212Che gían danzando infra le piagge e l’onda:
     Come alzaron la vista ai naviganti,
     S’imboscar tutte alla più chiusa fronda;
     Solo ritenne il piede una di loro,
     216E dall’arco avventò due strali d’oro.

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XXVIII.


Parve Cintia costei, che a vendicarse
     Del temerario ardir fosse restata:
     Folgoraron le chiome all’aura sparse,
     220E la faretra d’oro, ond’era armata,
     E ’n succinto vestir leggiadra apparse
     Bianca la gonna, e ’l vago piè calzata
     D’aurei coturni, e nella faccia bella
     224Qual tremolante e mattutina stella.

XXIX.


E volgendo alle navi i lumi irati,
     E chi, gridò, cotanto ardir vi diede?
     Uomini vili alle miserie nati,
     228Tenete fuor di questa riva il piede.
     Qui solo hanno gli Eroi fai beati,
     E le Ninfe immortali albergo e sede;
     E ’n questo dir scoccando il terzo strale,
     232Ratta si rinselvò com’ avesse ale.

XXX.


Poi che sparita fu la bella arciera,
     Stette sospeso il Capitano un poco,
     Se doveva smontar sulla riviera,
     236O procacciarsi porto in altro loco.
     Stimando alfin che della donna altiera
     Fossero i gesti e le parole un gioco,
     Per ristaurar le navi in terra scese
     240Co’ suoi compagni, e un padiglion vi tese.

XXXI.


Quivi rifece antenne, arbori e sarte,
     E rivide le poppe e le carene;
     Ma de’ compagni suoi la maggior parte
     244Cercando andar per quelle piagge amene,
     E trovar le vallette in ogni parte
     Di cannemele e zuccari ripiene,
     E di starne e fagiani e daini e lepri,
     248Che scherzavan fra i mirti e fra i ginepri.

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XXXII.


Era ancor Primavera, e dalle viti
     Pendean l’uve mature; i rami tutti
     Parevano inchinarsi a fare inviti
     252Ch’altri cogliesse i lor maturi frutti:
     Ma fra i gusti più cari e più graditi
     (Che divennero poscia amari lutti)
     Era il veder fra le selvette ombrose
     256Or mostrarsi, or fuggir le Ninfe ascose.

XXXIII.


La vaga gioventù focosa e ardente
     Correa per abbracciarle, e correa in vano,
     Ch’elle si nascondeano immantinente,
     260E sull’avvicinar fuggian di mano:
     Ecco una n’apparía bella e ridente,
     E sembianze d’amor fea di lontano,
     Fingendo d’aspettar, ma poi dappresso
     264Scoccava l’arco e fuggia a un tempo stesso.

XXXIV.


Gli strali eran d’oro, e piaga mai
     Nel suo colpire alcun di lor non fea,
     Ma sentiva il percosso acerbi guai
     268Per l’arciera crudel che ’l percotea;
     Nè di seguirla e di cercarla ai rai
     Della Luna e del Sol si ritenea;
     Ed ella ad or ad or gli si mostrava
     272Nell’aspetto gentil ch’ ei più bramava.

XXXV.


A cui piacea la tenerella etate,
     Donzellette apparian di primo fiore,
     Lascivamente in varie guise ornate,
     276Che pareano al sembiante arder d’amore;
     E quando s’accorgean d’esser mirate,
     Or s’ascondeano, or si mostravan fuore,
     Baciandosi tra lor sì dolcemente,
     280Ch’avrebbon fatto un cor di tigre ardente.

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XXXVI.


S’altri l’età più ferma avea più cara,
     Ecco forme più adulte in più maniere,
     Or saettar con le compagne a gara,
     284Or cantar sole, or carolare a schiere;
     Chi nude le chiedea, nell’onda chiara
     Notar da lunge le potea vedere;
     Se in abito virile, in poco stante
     288Satollava il desio cupido amante.

XXXVII.


Una di lor che sotto un verde alloro
     Chiusa d’un fresco rio d’onde correnti
     Temprava al suon d’una grand’arpa d’oro,
     292Che fra le mani avea soavi accenti,
     Lo spirto velocissimo e canoro
     Or con tremule note, or con languenti,
     Or con liete alternando e disciogliendo,
     296Da una rupe cantò, così dicendo:

XXXVIII.


Quand’ Amor nacque, sue dolcezze eterne
     Stillarono dal Ciel sovra i mortali,
     Che da prima correan tutti a goderne
     300Confusamente in un volere uguali,
     Fin che il desio di maggior copia averne
     Instigò i primi artefici de’ mali,
     A nasconder la loro, e trovar arte
     304D’usurparsi e goder dell’altrui parte.

XXXIX.


Sdegnato Giove a provveder s’accinse;
     Mandò l’Onore, e l’Onestade in terra;
     Le dolcezze d’Amor l’una restrinse,
     308E l’altro mosse all’appetito guerra.
     Così del gusto il puro fonte estinse,
     Fuor che ’n questa del Mondo unica Terra,
     Che serba ancor delle dolcezze il fiore,
     312Come le distillò nascendo Amore.

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XL.


Voi fortunati alla beata sede
     Giunti a goder delle delizie antiche,
     Non affrettate oltre il suo corso il piede,
     316Ch’ a tempo volgeran le stelle amiche:
     Come all’estivo ardor l’Autun succede
     Co’ frutti a ristorar l’altrui fatiche;
     Così frutti d’Amor verran fra poco,
     320Ma non si geli poscia il vostro foco.

XLI.


Primavera d’Amore, aura gentile
     Par che spirando ai dolci scherzi alletti;
     Passa della stagione il vago Aprile,
     324E s’infiamman d’arsura estiva i petti:
     Tempra l’Autunno Amor l’arco e ’l focile
     Co’ dolci frutti suoi, co’ suoi diletti.
     Ma non sì tosto poi sazio è il desio,
     328Ch’ un freddo Verno Amor caccia in oblio.

XLII.


Godete, amanti lieti e avventurati,
     Di Primavera i fiori e la verdura;
     Soffrite della State i caldi fiati,
     332Che più gradita fia vostra ventura:
     Succederà l’Autun co’ frutti amati;
     Ma non s’estingua poi la vostra arsura:
     Che ’n noi nato il desio diventa eterno,
     336Nè State il cangia, nè lo spegne il Verno.

XLIII.


Così cantò la Ninfa, e ’n tal maniera
     Mosse la gioventù cupida e sciolta,
     Che per selve andar mattina e sera
     340Si vedea folleggiando e di se tolta:
     Vincere a lungo andar la prova spera,
     Se ben non succedea la prima volta:
     Perocchè suole ogni principio sempre
     344Ritrovare in amor contrarie tempre.

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XLIV.


Ma il Capitan, che ’l suo periglio intese,
     E vide ciò che ne potea seguire,
     Di tosto provveder consiglio prese,
     348E fe’ intimar che si volea partire:
     Ma gli ordini e i comandi indarno spese,
     E i preghi indarno e le minacce e l’ire:
     Che non credeva alcun, nè gli era avviso
     352Che fosse in altra parte il Paradiso.
     

XLV.


Blasco d’Arranda, uom già d’età matura,
     Ma saettato di saetta d’oro,
     Fisso di rimaner, per la paura
     356Che non partisser gli altri, ei dicea loro:
     E qual nuova cercar miglior ventura
     Vogliam noi sciocchi, o in mar vano tesoro,
     Se la stanza e ’l possesso ora lasciamo
     360Dell’Isola beata ove noi siamo?
     

XLVI.


Noi non sogniam questa felice vita,
     Nè son dipinti questi frutti e fiori.
     Ma il Capitan ch’a dipartir n’invita,
     364Sa ch’hanno come gli altri, e sugo e odori:
     Quest’Isola sì bella e sì gradita,
     Albergo delle grazie e degli amori,
     Mostra che qui non giunga mai la morte,
     368O che si viva almen con miglior sorte.
     

XLVII.


E non senza ragion l’antica etate,
     Che ’l tutto seppe, in questa parte volle
     La sede por dell’anime beate,
     372Che ’l pregio di natura all’altre tolle:
     Qui Primavera è sempre, Autunno e State
     Senz’alcun Verno; e non è piano o colle
     Che di frutti non sia pieno e fecondo;
     376E noi vogliam cercar d’un altro Mondo?

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XLVIII.


Torni il Colombo a prender nova gente,
     E la conduca ove s’ha dato il vanto:
     Ei troverà compagni agevolmente,
     380E noi godremo qui felici intanto.
     Dell’infiammato petto il dire ardente
     L’incauta gioventù commosse tanto,
     Che già la maggior parte ha stabilito
     384Di non partir dall’amoroso lito.
    

XLIX.


Con trecento guerrier dal porto ispano
     S’era partito il gran Colombo; e cento
     Nati su ’l Tago avean per Capitano
     388Il superbo Pinzon gonfio di vento;
     D’Aragon cento ne traea Roldano,
     Uom di feroce e indomito ardimento;
     E cento già d’Italia i più fidati,
     392Tolomeo suo fratel n’avea guidati.
    

L.


Seco il minor fratello e ’l maggior figlio
     Conduceva il Colombo a quell’impresa,
     Che della gloria sua, del suo periglio
     396Fosser consorti entrambi e ’n sua difesa:
     O se venisse a lui del suo consiglio
     Da morte o rio destin l’opra contesa,
     Potesse uno di lor seguirla tanto,
     400Che ne portasse il desiato vanto.
    

LI.


Diego avea nome il figlio, in cui fioriva
     Sua speme, ancor fanciul d’età crescente,
     Che già sprezzando il mar col padre giva
     404A cercar nuovi regni in Occidente.
     Quantunque volge l’una e l’altra riva
     Dalla Liguria all’Austro e al Sol nascente,
     Non vide Amor fanciullo in quell’etade
     408Meglio disposto, o di maggior beltade.

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LII.


E questi e assai poch’altri eran restati
     Seco nel porto a rispalmar le navi.
     Egli poi che mandò messi iterati
     412Attorno, e delirar vide i più savi,
     Andò egli stesso al fine, e gli ostinati
     Smover con dolci e con parole gravi
     Cercò; ma poco frutto i suoi ricordi
     416Fer predicando agli appetiti sordi.
     

LIII.


Soldati, ei dicea lor, quest’Isoletta
     Non può mancarne mai, venite, andiamo;
     Che ’n così poco ciel non è ristretta
     420Quella felicità che noi cerchiamo.
     Tutto ciò che più gusta e più diletta,
     Se dentro a questo mar più ch’ingolfiamo,
     Ritroveremo e donne e frutti e fiori,
     424E quel ch’importa più, gioie e tesori.
     

LIV.


Se v’arrestano qui vani diletti,
     Che diranno i Re vostri al mio ritorno?
     Voi foste meco all’alta impresa eletti,
     428E fate alla lor fede oltraggio e scorno.
     Così dicea; ma gli ostinati petti
     Non si movean però dal lor soggiorno,
     Follia stimando a quel sicuro lido
     432Le speranze antepor del mare infido.
     

LV.


Ond’ei tornò tutto dolente e mesto
     Fra se volgendo il non pensato caso:
     E di perder temendo ancora il resto,
     436Che vacillando seco era rimaso,
     L’ancore svelse e uscì del porto presto,
     E le vele spiegò verso l’Occaso,
     Gridando dalla poppa in alto suono:
     440Poi che m’abbandonate, io v’abbandono.

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LVI.


Ma che farà con così poca gente?
     Egli stesso nol sa, nè si sgomenta;
     L’Isola gira, e di lontan sovente
     444Manda uno schifo e gl’ animi ritenta;
     Ma sorda sempre ai preghi suoi più sente
     Farsi ogni orecchia; ogni speranza è spenta:
     Onde alfin parte, e i legni in alto mare
     448Porla il vento, nè più l’Isola appare.

LVII.


Qual Tortore che i figli abbia guidati
     Fuora del nido in non sicura parte,
     Poi che s’accorge de’ vicini aguati,
     452O del periglio lor sospetta in parte,
     Gli stimola a fuggir con dolci usati
     Susurri, e va girando e torna e parte,
     E quando vede alfin che nulla vale,
     456S’allontana da lor spiegando l’ale;

LVIII.


Tal il Colombo infino all’altra aurora,
     Col vento in poppa a piene vele corse;
     Pregavanlo i compagni a far dimora,
     460E gían piangendo e di lor vita in forse,
     Quando calò le vele, e la sua prora
     Tutto in un tempo all’Orìente ei torse,
     Prese il vento per fianco, e diede segno
     464Ch’ all’Isola tornar facea disegno.

LIX.


Ma del Settentrion la rabbia avversa
     S’oppone, e ritornar non gli concede:
     O se ritorna pur, sì l’attraversa,
     468Che va girando, e tardo e lento ei riede.
     Vince l’industria alfin l’aura perversa,
     E già sicuro ha sovra il vento il piede;
     Ma il vento ch’ottener non può la palma,
     472Subito cessa e resta il mare in calma.

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LX.


Alzano i marinai le vele e vanno
     Cercando aura che spiri, e nulla giova:
     Senz’aura il cielo, il mar senz’onda stanno;
     476Perduto è quaggiù il moto, o non si trova:
     Gettar gli schifi, e con fatica e affanno
     Cercan di rimorchiar le navi a prova;
     Ma sì stentata è l’opra e così lunga,
     480Che troppo ci vorrà pria che si giunga.

LXI.


Il Capitano allora in se raccolto
     Levò le mani e le preghiere a Dio,
     E disse: Alto Signor, tu che m’hai tolto
     484A custodir dal tuo avversario e mio;
     Tu che rompesti dianzi il nembo folto,
     E frenasti del mar l’impeto rio;
     Tu dammi or vento, e fa ch’io trovi il core
     488De’ cari servi tuoi tratto d’errore.

LXII.


Sull’ali della Fede in un momento
     Saliro i prieghi alla magion celeste;
     E ’l messaggier divin che stava intento
     492Al rio pensier della tartarea peste,
     L’aurate piume giù dal firmamento
     Spiegò succinto in luminosa veste,
     E ritrovò che gli angioli dannati
     496Nelle spelonche i venti avean legati.

LXIII.


Gli spiriti perversi avean creduto,
     Che sen gisse il Colombo all’Occidente,
     E che più non tornasse a dare aiuto
     500Alla perduta sua misera gente;
     Ma poi che ritornar l’ebber veduto
     Contra il furor che l’Aquilone algente,
     Nelle caverne lor frigide e vote
     504Legaro i venti e restar l’aure immote.

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LXIV.


E avean lo schernitor di scherno vinto,
     Se l’Angelo di Dio non discendea
     A disserrare il tenebroso cinto,
     508Che chiuso il vento in sua magion tenea.
     All’Isola felice il Duce spinto
     Sull’ora nona il quarto dì giungea.
     E ritrovava in orrida sembianza
     512Tutta cangiata già sì lieta stanza.

LXV.


Corsero al lito i suoi compagni mesti,
     Tosto che di lontan videro i legni,
     E con le mani alzate e con le vesti
     516Feron chiamando ai naviganti segni;
     E all’approdar delle tre navi presti
     Si lanciar giù da que’ dirupi indegni,
     Che di prati fioriti e piagge amene
     520S’eran cangiati in nudi sassi e arene.

LXVI.


Fuvvi di lor che per desio d’uscire
     Fuor di quel luogo inospite e diserto,
     Corse nell’onda a rischio di morire,
     524Ch’eran le navi ancor nel mare aperto:
     Ma poi che tempo e spazio ebbe il desire,
     Blasco nel danno suo già fatto esperto,
     Con vergognose luci e ’n terra fisse
     528Chiese perdono al Capitano, e disse:

LXVII.


Quel dì, Signor, che ’n alto mar spiegando
     Le vele di partir festi sembianza,
     Stemmo tutta la notte amoreggiando
     532Fra le ninfe leggiadre in festa e ’n danza.
     Ogni tristo pensier fuggito in bando
     N’era in sì bella e sì gioconda stanza;
     Godevamo ugualmente, e n’era avviso
     536D’esser trasumanati in Paradiso.

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LXVIII.


Ma poi che il Sol nell’Ocean s’immerse
     E fu la luce sua del tutto estinta,
     Ombra caliginosa ne coperse
     540Di spaventose immagini dipinta;
     Nè mai sì fiera illusion s’offerse
     All’agitato Oreste e d’orror cinta,
     Che s’agguagliasse a quella, onde la notte
     544Ne furo il sonno e le speranze rotte.

LXIX.


Di rauche trombe e di tamburi il suono
     L’orecchie ad or ad or ne percotea:
     Or tremava la terra, or s’udia il tuono
     548De’ lampi, or del furor della marea,
     Parean fuggir le fere in abbandono,
     E ’n vece delle ninfe a noi parea
     Ch’uscissero giganti e mostri ascosi,
     552Orribili, tremendi e spaventosi.

LXX.


Nè le sembianze lor del lutto vane
     Erano ai sensi oppressi e conturbati;
     Ma d’urti fieri e di percosse strane
     556Sentimmo i colpi da diversi lati;
     E le piagge vicine e le lontane
     Mugghiar d’urli feroci e di latrati:
     Così senz’aver mai riposo un’ora
     560Fummo agitati in fin ch’uscì l’Aurora.

LXXI.


Quando alfin l’alba in Orìente apparve,
     E le sue stelle in ciel la notte ascose,
     S’ascosero e fuggir tutte le larve
     564E le finte bellezze insidìose;
     Frutti, fior, fronde, ogni delizia sparve,
     Gli ameni prati e le selvette ombrose,
     E l’Isola restar vedemmo piena
     568D’orridi sassi e d’infeconda arena.

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LXXII.


Tre giorni siamo in sì solinga stanza
     Senza riposo e senza cibo stati,
     Di rimedio non pur, ma di speranza
     572Da tutti gli elementi abbandonati.
     Questo spirto, Signor, per te n’avanza:
     Che se tu ti scordavi i tuoi soldati,
     0 più tardi giugnevi in lor soccorso,
     576Di nostra vita era finito il corso.

LXXIII.


Qui tacque Blasco, e lo smarrito aspetto
     Degli altri confirmò le sue parole.
     Li conforta il Colombo, e con affetto
     580Paterno di lor mal seco si duole;
     Fa ristorargli, e ascolta con diletto
     I lor vaneggiamenti e le lor fole,
     E l’Isola diserta intanto lassa,
     584E a prender acqua alla vicina passa.

LXXIV.


Vede rustici alberghi e abitatori,
     E d’acqua chiede, (maraviglia strana!)
     Trova il terren che non produce umori,
     588Ma un grand’ arbore in vece è di fontana:
     Stringonsi intorno a lui tutti i vapori
     Del luogo, e fuor d’ogni credenza umana
     La virtù di quell’arbore gli scioglie,
     592E gli distilla giù dalle sue foglie.

LXXV.


Quivi egli empiè a grand’ agio i vasi voti,
     E tolse al dipartir rinfrescamenti,
     E veggendo del mar già queti i moti,
     596Di nuovo fe’ spiegar le vele ai venti.
     Musa, cui sono i gran perigli noti
     Nel girar ch’ ei fe’ il mondo a nuove genti,
     Tu d’intelletto fior dammi e di senso,
     600Qual si conviene all’Oceano immenso.