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DELL' OCEANO | 247 |
LXIV.
E avean lo schernitor di scherno vinto,
Se l’Angelo di Dio non discendea
A disserrare il tenebroso cinto,
508Che chiuso il vento in sua magion tenea.
All’Isola felice il Duce spinto
Sull’ora nona il quarto dì giungea.
E ritrovava in orrida sembianza
512Tutta cangiata già sì lieta stanza.
LXV.
Corsero al lito i suoi compagni mesti,
Tosto che di lontan videro i legni,
E con le mani alzate e con le vesti
516Feron chiamando ai naviganti segni;
E all’approdar delle tre navi presti
Si lanciar giù da que’ dirupi indegni,
Che di prati fioriti e piagge amene
520S’eran cangiati in nudi sassi e arene.
LXVI.
Fuvvi di lor che per desio d’uscire
Fuor di quel luogo inospite e diserto,
Corse nell’onda a rischio di morire,
524Ch’eran le navi ancor nel mare aperto:
Ma poi che tempo e spazio ebbe il desire,
Blasco nel danno suo già fatto esperto,
Con vergognose luci e ’n terra fisse
528Chiese perdono al Capitano, e disse:
LXVII.
Quel dì, Signor, che ’n alto mar spiegando
Le vele di partir festi sembianza,
Stemmo tutta la notte amoreggiando
532Fra le ninfe leggiadre in festa e ’n danza.
Ogni tristo pensier fuggito in bando
N’era in sì bella e sì gioconda stanza;
Godevamo ugualmente, e n’era avviso
536D’esser trasumanati in Paradiso.