L'Esclusa/Parte Seconda/Capitolo III
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III.
Anche lui forse, Attilio Nusco, nell’intimo suo sentiva la povertà delle proprie maniere, e come dovesse parere altrui compassionevolmente ridicola la sua invincibile ritrosia; e forse se n’adontava e, non visto da alcuno, si ribellava contro sè medesimo; poichè fra sè egli non doveva stimarsi affatto uno sciocco. Chi sa quant’altri, invece, pensando, stimava egli sciocchi!
Proprio in quei giorni aveva mandato a stampa su un giornale letterario della città un sonetto per Marta.
Pompeo Emanuele Mormoni lo aveva scoperto. Il sonetto, veramente, portava un titolo misterioso: A lei.
— A lei?... A chi? Ci son tante donne a questo mondo.... Più delle mosche! Io fo le viste di non aver capito a chi si riferisca.
E il giorno dopo, traendo profitto del pudore del Nusco, diede egli stesso il giornale a Marta, sicuro di farle stizza.
— C’è un sonetto del Nusco: A lei.
— A me? — disse Marta, sorpresa, invermigliandosi.
— No no: A lei, intitolato così.... Ma come s’è fatta rossa!... Son cose che fanno piacere.... Lo legga, glielo lascio.... Scappo, perchè a momenti piove e sono senza ombrello.
Un saluto, e via, a naso ritto.
Marta ebbe il primo impeto di buttar via il giornale; ma poi lo ritenne, lo spiegò e lesse:
A LEI.
Contro il tuo sen, che appena ai dolci intenti |
Un furioso rovescio d’acqua venne a percuotere i vetri della sala. Marta levò gli occhi dal giornale e guardò macchinalmente la finestra.
Erano per lei quei versi? Chi aveva raccontato al Nusco le vicende della sua vita? E che significava quel verso: Ma bene io so che ad un amor fedele? A quale amore? Le venne subito in mente l’Alvignani. No, non poteva alludere a lui.... Te, provata e non vinta, amo ed ammiro....
Così riflettendo sul sonetto, non pensava più alla villania del Mormoni, che gliel’aveva dato da leggere.
Sopravvenne il Falcone. Marta si scosse. L’ombrello? Dove lo aveva lasciato? Rammentava benissimo d’averlo portato con sè da casa, la mattina....
— Che cerca, signora? — le domandò il Falcone.
— L’avrò forse lasciato su.... — disse Marta quasi tra sè. E chiamò la bidella.
— Prenda il mio, — le propose il Falcone. — Non è nuovo, ma può servirle lo stesso.
Nel dir così, pareva che ingiuriasse. Era più fosco e più nervoso del solito.
Poco dopo la bidella ridiscese: non lo aveva trovato, nè in classe, nè per il corridojo. Marta si stizzì, diventò inquieta, perchè il Falcone insisteva duramente nell’offrirle il suo. Pioveva forte, ed ella non poteva permettere che il Falcone, per lei, si prendesse tutta quell’acqua.
— Allora, se me lo concede, potrei accompagnarla, — disse, cangiandosi in volto, il Falcone. — Abito adesso su la stessa sua via, un po’ più giù. — E aggiunse, col capo chino e guardandosi i piedi: — Se non si vergogna....
Marta si sentì salire le fiamme al volto; finse di non intendere l’allusione, e rispose:
— Non mi son mai curata della gente. Venga, andiamo.
— Dimentica sul tavolino un giornale, — le disse il Falcone, raccogliendolo e porgendolo.
— Oh grazie; ma, tanto.... C’è una poesia del Nusco.
— Imbecillotto! — fischiò tra i denti Matteo Falcone.
“Come farò — pensava Marta, smarrita — a camminargli accanto?„
Sentiva la gioja e l'impaccio ch’egli doveva provare in quel momento; e questo la turbava e la faceva soffrire così violentemente che, se egli la avesse toccata appena appena anche senza volerlo, certo da tutto il corpo fremente le sarebbe scattato un grido acutissimo di ribrezzo.
Prima d’uscir su la via, la portinaja le porse una lettera.
— Per me? — fece Marta, contenta che le si offrisse quel mezzo per nascondere lì per lì il proprio turbamento. — Permette? — aggiunse, rivolta al Falcone; e lacerò la busta.
La lettera era d’Anna Veronica. Marta si mise a leggere, avviandosi piano verso l’uscita. Il Falcone la spiava di sbieco, aombrato. Scorse a un tratto un repentino cambiamento sul volto di Marta, un pallor fosco, un corrugarsi sdegnoso delle ciglia. Erano già sui portone. Marta non leggeva più; guardava innanzi a sé, sopra pensiero, la pioggia che balzava sul fango della via.
— Vogliamo andare? — le disse egli cupamente, aprendo l’ombrello.
— Ah, sì, eccomi.... scusi! — rispose Marta, scotendosi, ripiegando la lettera e cacciandosi sotto l’ombrello.
Non badava più al contatto, per altro inevitabile, del suo braccio col braccio del Falcone, nè notava lo studio penoso di questo per andare più spedito accanto a lei, a lei che avrebbe voluto fuggire, non più per lui (e il Falcone lo intuiva) ma per qualche notizia contenuta in quella lettera. Roso dalla gelosia, egli ormai non si curava dei piedi che, nell’andar così di fretta, s’arrabattavano sovrapponendosi man mano molto più goffamente del solito. Avrebbe voluto gridare a Marta di chi fosse, che contenesse quella lettera; e intanto la lasciava sguazzare e inzuppare, temendo che il suo richiamo ad andar più cauta potesse da lei essere interpretato come un pietoso accenno a’ suoi piedi che, veramente, non potevano più seguirla in quella corsa e sfangavano orribilmente. Ansimava, e Marta non lo udiva. Perchè, perchè fuggiva ella così?
A un tratto Marta ebbe come un brivido e si contenne, s’arrestò per un attimo, quasi per soffocare un grido.
— Che ha? ch’è stato? — le domandò egli, fermandosi.
— Nulla! venga.... venga.... — gli disse Marta, piano, col capo chino, proseguendo.
Il Falcone si volse e vide un po’ innanzi a loro, sul marciapiede a destra, due signori sotto un ombrello, che guardavano Marta e lui: l’uno terreo in volto e con piglio fosco, l’altro più alto, magro, straniero all’aspetto e con un’espressione scioccamente derisoria negli occhi chiari.
Erano Rocco Pentàgora e il signor Madden.
Il Falcone, non ostante il divieto di Marta, appuntò contro quei due gli occhi da belva.
— Non guardi! non si volti! — gl’impose, con rabbia soffocata, Marta.
— Mi dica chi sono quei due! — domandò il Falcone quasi a voce alta, accennando a fermarsi di nuovo.
— Stia zitto, le ripeto, e venga con me! — riprese Marta, con lo stesso accento. — Che diritto ha lei di saperlo?
— Nessun diritto, ma io.... lei non sa.... — continuò il Falcone con voce che non pareva più la sua, come se piangesse, ansando, interrompendosi, strozzato dalla commozione, e pur seguitando ad andare quasi di corsa, angosciosamente, dietro a Marta, sotto la pioggia ringagliardita. Le confessava l’amor suo, implorando pietà, commiserazione.
Marta, con l’anima in tumulto, come stordita dalla violenza della pioggia, vedeva fuggire sotto i piedi vorticosamente la strada già mezzo allagata; correva senza ascoltare, udendo solo confusamente, con insopportabile angoscia, le affannose parole del Falcone, che le si abbaruffavano negli orecchi con lo strepito dell’acqua, finché giunse alla porta di casa.
Lì il Falcone si provò a trattenerla per un braccio, scongiurando di dargli una risposta.
— Mi lasci! — gli gridò Marta, svincolandosi con uno strappo; e via di corsa su per la scala.
Venne ad aprirle Maria.
— Tutta bagnata?
— Sì, vado a cambiarmi!
Si chiuse a chiave. Si abbandonò su una seggiola, premendosi forte, forte, forte le tempie con le mani, lamentandosi piano, con gli occhi chiusi:
— Oh Dio! oh Dio!
Era in preda alla vertigine: non la camera, ma tuttora la via le girava, le turbinava innanzi a gli occhi, con le strisce precipitose della pioggia violenta, di cui sentiva lo scroscio negli orecchi: scroscio ch’era di parole; le parole di quel mostro arrangolato, che le piangeva dietro.
E quei due lì fermi sul marciapiedi, alla posta! Ma che volevan da lei tutti costoro? Per chi la prendevano? E quegli altri due, anche quegli altri due, quel grosso imbecille e quel piccolo che le indirizzava pubblicamente i suoi versi?
Ah, e la lettera di Anna? La cercò, la rilesse, saltando ciò che in quel momento non la interessava:
— “Tu sai, cara Marta, come io.... Ma da me non è più venuto, dopo quella visita furiosa, della quale.... Dalla famiglia Miracoli, però, da cui si reca spesso il fratello Niccolino (sposerà Tina Miracoli, dicono in paese), ho saputo ch’egli stamani è partito per costà. Vuole scoprire, ha detto Niccolino alla fidanzata, che cosa tu faccia a Palermo, convinto che debba esserci una forte ragione, un serio impedimento al tuo ritorno in paese. Tina, benchè come ogni altra timorata ragazza debba far le viste di non capire, pure, dal tono misterioso con cui mi ha confidato questa notizia, ha lasciato capire a me, invece, che cosa avrei dovuto intendere per forte ragione e serio impedimento. Figùrati come l’ho trattata e quello che le ho risposto! Ma lei dice che non sa nulla, che non crede affatto a queste cose, e che parla solo, dice, per bocca dei Pentàgora. Prima, tu lo sai, quando la buon’anima di tuo padre viveva, e voi eravate ricche, la signora Miracoli era la migliore amica di tua madre; adesso, con questo progetto di matrimonio di Tina con Niccolino, ella è tutta una cosa con don Antonio Pentàgora, il quale, tra parentesi, del matrimonio pare non voglia sapere. Per tornare a tuo marito, se egli (dice sempre Nicola) scoprirà qualche cosa, ricorrerà ai tribunali per ottenere la separazione. Ma son parole d’un ragazzo dette per boria in presenza dell’innamorata„.
Un altro pugno di fango. La persecuzione ancora, da lontano. Calunnie ancora e villanie.
Marta si levò da sedere tutta vibrante d’ira e di sdegno, con gli occhi lampeggianti d’odio.
Innocente, per essersi difesa con inesperienza da una tentazione, non ostante la prova della sua fedeltà: in compenso, l’infamia; in compenso, la condanna cieca del padre! e tutte le conseguenze di essa aggiudicate poi come colpe a lei: il fallimento, la rovina, la miseria, l’avvenire spezzato de la sorella; e poi l’infamia ancora, il pubblico oltraggio d’una folla intera, senza pietà, ad una donna sola, malata, vestita di nero. Aveva voluto vendicarsi nobilmente, risorgere dall’onta ingiusta col proprio ingegno, con lo studio, col lavoro? Ebbene, no! Da umile, oltraggiata; da altera, lapidata di calunnie. E questo in compenso della vittoria! E amarezze, ingiustizie, e quell’esistenza vuota per sè, esposta alle brame orrende d’un mostro, ai gracili, timidi desiderii d’un povero di spirito, alle pettorute vigliaccherie di quell’altro: sassi, spine ovunque, per quella via lontana dalla vita.
Fu scossa da due picchi all’uscio. E la voce di Maria:
— A tavola, Marta.
La cena, di già? Non s’era ancora svestita. Come cenare, adesso, come nascondersi alla madre, a la sorella? Si svesti in fretta in furia. Non s’era neanche tolto il cappellino, entrando. Si lavò per rinfrescar gli occhi e la faccia infiammati.
— Un miele! — diceva Maria, già a tavola, tra il fumo che la avvolgeva da la scodella.
E la madre prese a narrarle tutto quello che avevano fatto lei e Maria, durante quella pioggia improvvisa, su in terrazzo, per salvare i fiori:
— I nostri poveri fiori....