Istoria delle guerre persiane/Libro secondo/Capo III
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1833)
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CAPO III.
I. L’assunto incarico mi porta ora alla narrazione d’un singolare avvenimento, che è uopo riferire all’epoca delle cose antedette. Quel Simeone traditor di Farangion ai Romani e premiatone da Giustiniano con alcune borgate dell’Armenia1, fu insidiosamente ucciso da parecchi villici aventi alla testa due figli di Perozo, i quali, consumato il delitto, rifuggironsi tantosto in Persia.
II. L’imperatore avutane contezza diede le borgate e la prefettura dell’Armenia ad un nipote di lui, prole del fratello nomato Amazaspe, il quale in progresso di tempo fu accusato da Acacio, favorito di Giustiniano, siccome reo di tradigione a danno dei popoli commessigli, e di macchinamenti per ridurre Teodosiopoli2 con altre castella sotto i Persiani. E potè sì la calunnia che il sovrano imposene allo stesso accusatore la morte, destinandolo insieme all’antedetta prefettura.
III. Il nuovo magistrato però fe palesi in poc’ora le pessime qualità dell’animo suo, non avendovi esempio di maggior fierezza verso i governati, e di cotanta inclinazione a rapire comunque il danaro, essendo egli stato il primo che aggravasseli d’un annuo tributo di quattro cento aurei3. Gli Armeni adunque, intollerantissimi di più comportarne la tirannia, venuti a sommossa trucidaronlo, e quindi ricovraronsi entro Farangion, dove a punirli Giustiniano mandò Sitta, il quale dimorava in Bizanzio sin dal tempo che furono soscritte le convenzioni di pace tra i popoli di Persia e di Roma4.
IV. Arrivato il duce nell’Armenia andava apparecchiandosi lentamente alla guerra, bramoso di trarre a sè gli animi e ridurli all’antica obbedienza colla dolcezza, e colla promessa che otterrebbero dall’imperatore l’abolizione del nuovo tributo; ma questi sollecitato dalle calunnie di Adulio figliuolo di Acacio, e pauroso di quella dolcezza e tardanza acerbamente rimproverollo. Sitta allora vedendo la necessità di rompere ogni indugio, pigliò le armi senza però intralasciare di amicarsi co’ suoi buoni ufficj parte de’ ribelli, sperandolo mezzo opportuno ad assoggettare quindi più agevolmente gli altri colle truppe. Se non che gli Aspeziani5 udendo il duce apprestare la guerra contr’essi deliberarono di cedere mandandogli ambasceria con preghiera di accordar loro assicuranza in iscritto che non verrebbero per nulla offesi, o costretti ad abbandonare il tranquillo possesso de’ proprj beni se, rinunziando alla fazione cui appartenevano, volgessersi a favorire le parti romane. E quegli secondando pienamente e di buon grado i loro desiderj vi spedì suggellata la chiesta obbligazione, e di là mosse verso il castello degli Enocalachi6 presso cui erano le armene tende. Avvenne tuttavia, nè saprei dire per quale sciagura, che gli apportatori della lettera, sgarrata la via, non valsero ad aggiugnere il paese ove tendeano; e che, per isconcio maggiore, una mano di Romani allo scuro de’ fatti accordi trattolli ostilmente, massacrando sin donne e fanciulli acquattatisi in certa caverna, ignorando forse qual gente si fossero, o, se pur vuoi, incollorita non vedendoli in conformità delle promesse loro deporre le armi. Irritati pertanto gli Aspeziani da sofferti oltraggi allestironsi cogli altri alla guerra; essendo però la regione mal piana e frastagliata da’ precipizj, mancò loro il mezzo di unire le truppe, e dovettero lasciarle disperse in alcune piccole vallee. Dopo di che una parte de’ cavalieri armeni s’avvenne a Sitta parimente in arcione ed alla testa di pochi Romani; qui fermatisi gli uni di contro agli altri su due colline separate dall’interposta valle, di botto il Romano spronò il destriero alla volta del nemico, ma vedutolo in fuga arrestossi, nè pensò molestarlo dagli omeri. In questo mezzo poi s’accese di gravissimo sdegno contro uno de’ suoi eruli cavalieri, il quale accostatoglisi di camera inavvertentemente urtonne la lancia, conficcata nel suolo, e ridussela in pezzi; e siccome tratto erasi l’elmo dal capo, tal degli Armeni, raffigurandolo, iva dicendo a suoi compagni lui essere quell’audacissimo, cui bastò l’animo di affrontarli con sì piccola mano di armati. Udito Sitta il favellar di costoro nudò la spada, non potendosi più difendere coll’asta, e fuggì per lo mezzo della vallea, ma incalzato con furore venne dai barbari aggiunto e ferito di spada nel capo, lieve però in guisa fu la piaga da non riportarne l’osso nocumento; or mentre così mal concio proseguiva a correre, Artabano, figliuolo dell’arsacide Giovanni, fattoglisi vicino il trafisse a morte col giavellotto, fine immeritevolissimo di tanto coraggio e di tanta gloria nelle armi; oltre di che le belle forme del suo corpo disdegnavano ogni comparazione, ed il suo ingegno mettevalo a livello dei più sperimentati capitani7. Havvi eziandio chi crede la uccisione di lui opera non d’Artabano, ma d’un fantaccino armeno detto Salomone.
V. Giustiniano avuta di ciò notizia commise a Buzez gli affari dell’Armenia, e questi arrivato presso de’ nemici mandò loro invitandoli a spedire personaggi illustri per trattare seco, e promettendo che s’interporrebbe mediatore all’uopo di riappattumarli col suo monarca. Molti degli Armeni però sprezzaronne le offerte. e dichiararonsi ben lontani dal prestar fede alle sue parole; tuttavia Giovanni, padre di Artabano8 ed amicissimo di Buzez, credendole veritiere andò col suocero Bassace e con altri pochi da lui: ma giunti nel luogo destinato a pernottarvi e a dare principio la dimane alle conferenze col duce romano, e vedendo nemici da ogni lato a sè d’intorno, Bassace esortò vivamente il genero a campar dalle insidie, ma non riuscitovi prese in compagnia dei pochi la fuga, retrocedendo pel gia calcato sentiero. Buzez adunque rinvenutovi il solo Giovanni fecelo morire.
V. Gli Armeni allora perduta ogni speranza di accomodamento co’ Romani, nè avendo fiducia alcuna di poterli vincere in guerra, si volsero ad implorare per consiglio di Bassace, eletto capo di lor gente, la protezione del re persiano, e quando l’ambasceria fu condotta nella reggia aringò di tale conformità alla presenza del monarca.
VI. «Annoveriamo tra noi, o re, molti discendenti di quell’Arsace sopra ogni altro de’ tempi suoi valorossimo, e che a fè nostra non può considerarsi straniero nella regal prosapia dei Parti, sudditi ab antico del trono persiano. E pur ora n’è forza menar la vita in obbrobriosa schiavitù, e non di propria scelta, ma costrettivi in apparenza dalle armi romane ed in effetto dal voler tuo, essendo che dei mali presenti aggraveremmo con giustizia chiunque porge aiuto ai nostri oppressori. A fine però di conoscere vie meglio la verità di quanto ascolti, concedi a’ tuoi servi il riandare le cose trascorse per averne agevolmente sott’occhio tutta la progressione. Arsace, ultimo de’ parti regi9, levatosi di capo la corona conferilla a Teodosio imperatore col patto che i sudditi suoi fossero in perpetuo liberi da molestie, ed in ispecie da ogni tributo; e di vero conservammo tali diritti sino a quella decantata pace tra voi conchiusa, cui senza errore meglio competerebbe il nome di peste universale. Dalla tristissima epoca in poi Giustiniano, professandoci amicizia di parole ma nimicizia co’ fatti, ha indistintamente malmenando e nemici ed amici ricolma tutta la terra di confusione; e pur troppo giunto che sla a domare l’occidente faratti palesi gli ostili sentimenti dell’animo suo. Ma di grazia non ha egli già sconvolte e messe a soqquadro tutte le nazioni? Non violate le più sacrosante leggi? Non sopraccaricatici di mille sin qui inudite gravezze? Non sottomesso al giogo della sua tirannia i Zani, amici nostri, liberi affatto prima di lui? Non ha sovrapposto un magistrato romano al re dei Lazj contro ogni natural ordine, e con oltraggio sì grave da non rinvenire parole atte ad esprimerlo? Non ha inviato suoi capitani ai Bosporiti, sudditi degli Unni, per insignorirsi arbitrariamente d’una città loro? Non fatto alleanza cogli Etiopi, il cui nome stesso era per lo innanzi ignoto ai Romani10? Non portato i limiti dell’imperio al di la delle terre degli Omeriti, del mar Rosso, e della regione de’ Palmizj11? E non potremmo noi qui rammentare eziandio i mali per lui recati all’Africa ed all’Italia? Piccolo è l’orbe intiero a sbramarne l’ambizione, ma sopr’esso, o valicato l’oceano, vorrebbe trovare altro mondo per dominarlo. A che dunque, o re, indugii a rompere questa funestissima pace, da cui non ti è dato sperare che l’ultimo posto tra le vittime sue? Vuoi tu conoscerne i trattamenti verso de’ confederati? riguarda noi stessi ed i Lazj: in preferenza anteponi osservarne i modi cogli stranieri, volgiti ai Goti, ai Vandali, ed ai Maurusii, i quali tutti non avendo mai avuto che divider seco, non temon punto la taccia di essergli addivenuti ingiuriosi. Nè creder già ogni cosa detta, ma attendine alcuna di maggior rilievo. Quali cabale non adoperò egli per separarti da Alamandaro tuo confederato e suddito, e per istrigner lega, senza veruna precedente dimestichezza, cogli Unni? Fuvvi giammai più straordinario e vituperevole cimento? Che maraviglia pertanto se impadronitosi ben presto dell’occaso trasporterà il pensiero all’oriente, contro i Persiani dico, unico scopo di sue conquiste in esso. Che se parliamo della pace, egli l’ha da gran pezza violata, imponendo limiti ad una confederazione la quale non doveva conoscerne affatto; nè dir si debbe mancare agli accordi chi primo esce in campo, ma chi durando la pace tende contr’essa insidie, cadendo noi in colpa nel macchinare un delitto anche innanzi di averlo commesso. Quale poi riuscir debba questa guerra follia sarebbe il dubitarne, conciossiachè l’esperienza ammaestra dichiararsi mai sempre la vittoria seguace non de’ provocatori, ma di chi attiensi ai limiti d’una giusta difesa12. Havvi inoltre disparità di forze, il nerbo di quelle romane toccando le parti estreme del mondo, e de’ loro famigerati capitani l’uno, Sitta, cadde vittima del nostro ferro, e l’altro, Belisario, non vedrà più Giustiniano, ben contento di compiere sua vita nell’Italia, condottiero di quelle truppe; il perchè non saravvi chi ne contrasti di marciare con piena libertà sulle terre loro: ed avendo noi contezza delle vie e desiderio di accomunare inseparabilmente i proprj interossi co’ tuoi, pronti siamo a scortare le armi persiane».
Cosroe, ebbro di gioia per le cose udite, rauna gli ottimati persiani ed espone loro i consigli ricevuti da Vitige e dall’ambasceria degli Armeni, bramando sentire il parer d’ognuno sul conto di essi; e delle varie opinioni quivi esternate prevalse quella di cominciare dopo il verno, correndo allora l’autunno dell’anno decimoterzo di Giustiniano imperatore, la guerra13. I Romani vivevano intanto nella miglior buona fede, mai più sospettando che il re bramasse rompere una pace contrassegnata col nome di eterna14; sapevano bensì il tristo umore di lui in causa dei vantaggi da loro ottenuti nell’oriente.
Note
- ↑ (1) V. lib. i, cap. 15, § 7 e seg.
- ↑ Intorno a questa città aggiugneremo al riferito altrove (lib. i, c. 15, § 9) le parole di Strabone: «Dopo la detta parte montuosa (della Tauride) giace la città di Teodosia, che ha una fertile pianura, ed un porto capace di ben cento navi; e questo fu un tempo il confine tra il territorio de’ Bosforiani, e quello dei Taurii... Lo spazio fra Teodosia e Panticapea è di circa cinquecento stadii» (lib. vii, cap. 5; traduzione di Fr. Ambrosoli).
- ↑ Somma corrispondente a quattrocentomila ducati.
- ↑ V. lib. i, cap. 22.
- ↑ Apetiens (Cous.).
- ↑ OEnocalabon (Cous.).
- ↑ Teofane scrive di questo duce: che «l’imperatore creò supremo comandante dell’esercito dell’Armenia Sitta, uomo bellicoso e valorosissimo, e gli diede in moglie Comitona, sorella di Teodora Augusta».
- ↑ Artabanis frater ha per errore il volgarizzamento latino dato in luce da Beato Renano. Basilea, 1531.
- ↑ A meglio comprendere le cose or dette, ed altre riferite da Procopio nel primo libro di queste Guerre, molto gioverà il seguente brano della storia di Agazia: «Gli Assirii furono i primi dominatori, a nostra saputa, dell’Asia tutta, ad eccezione degli Indiani di là del Gange, e da Nino ebbe principio il sovrano potere in essa: morto costui passò la corona a Semiramide; quindi alla prosapia loro sino a Belo, figlio di Decertado e ultimo germe della schiatta di quella regina, dopo il quale un intendente de’ reali giardini, Belitaran di nome, pervenne scaltramente ad occupare il trono, e i discendenti suoi lo ritennero finchè, regnando Sardanapalo, Arbace medo e Belessi babilonese disfecersi di lui, abborrendone la pusillanimità, e tolsero la monarchia agli Assirii per conferirla ai Medi; ciò accadde mille trecento sei anni dopo il principio del regno di Nino, siccome leggiamo in Ctesta cnidio e in Diodoro siculo. I Medi ottenuto in simigliante guisa il regno governaronlo con proprie leggi per anni trecento, compiuti i quali Ciro di Cambise, debellato Astiage, fondò la monarchia persiana; nè è da maravigliarne ove riflettasi ch’egli tratto avea in Persia i natali, e che fortemente disdegnava i Medi in causa della guerra fatta ad Astiage. I re persiani ebbero il comando per anni dugento venti, allo spirare de’ quali venne rovesciato il trono ed annullata tutta la grandezza loro da Alessandro di Filippo, che sconfisse Dario, figlio di Arsame, e fece la Persia tributaria della Macedonia. Fu costui nemico sì fiero ed invincibile, che il solo terrore inspirato dall’udirne il nome bastò a conservare lungamente la suprema autorità presso de’ suoi macedoni successori. Ed il possederebbero, a mio credere, ancora se non fossersi rovinati di per sè colle divisioni e col furore delle civili guerre, mostrando in simigliante modo ai loro avversarii che potevano essere vinti. La sola differenza di sette anni, volendo prestar fede a Polistoro, v’ha tra le durate dei regni macedonico e medo. Esso alla fine cadde per opera dei Parti, nazione sino allora pressoche ignorata, e costretta mai sempre a giacere sotto il giogo altrui. Eppure diede in quel tempo saggio di tanto valore da sottomettersi per lo largo e lungo quel vastissimo regno, astrazion fatta dell’Egitto. Arsace si pose alla testa della ribellione, e da lui i discendenti suoi nomaronsi Arsacidi: poco dopo Mitridate inalzò i Parti a gloria somma. Contossi anni dugento settanta da Arsace, primo re loro, sino ad Artabano ultimo della dinastia, il quale visse al tempo del romano imperatore Alessandro di Mammea. Da tal epoca tornò il supremo comando agli antecessori di Cosroe mercè d’un Artassare, oscurissimo dapprima ma ardimentoso ed intraprendente, il quale raccolto un qualche numero di congiurati uccise Artabano, e coronatosi il capo fece risorgere il trono persiano colla rovina di quello dei Parti» (Agazia, lib. ii).
- ↑ V. lib. i, cap. 19, § 1.
- ↑ V. lib. i, cap. 19, § 3.
- ↑ «Non furono già i Romani, dicea Scipione ad Annibale, autori nè della guerra di Sicilia, nè di quella di Spagna; sibbene manifestamente i Cartaginesi: lo che conosceva benissimo lo stesso Annibale, e gli Dei ancora ne furono testimoni, dando la vittoria non a coloro che incominciarono le ingiuste ostilità, ma a quelli che le rispinsero» (Pol., lib. xv, 8).
- ↑ V. lib. i, cap. 22.
- ↑ Aparanta detta. V. lib. i, cap. 22, § 1.