Istoria delle guerre persiane/Libro primo/Capo XIII

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CAPO XIII.

Giustiniano succede a Giustino, e commette a Belisario la fortificazione del castello di Mindo. — Gl’imperiali toccanvi una rotta da’ sopravvenuti Persiani. — Belisario duce supremo delle truppe orientali. — Esercito romano in ordine di battaglia. — Disfide personali.

I. Giustino, sopravvivuto ben poco alle accennate cose, lasciò morendo1 tutto l’imperio a suo nipote Giustiniano2, il quale fe tosto comando a Belisario [p. 58 modifica]di fortificare un castello entro il tener di Mindo3 presso della persiana frontiera ed a sinistra della via che [p. 59 modifica]mette a Nisibi4. Questi compiva con istraordinaria diligenza gli ordini avuti e l’opera giugneva a buon fine, quando i Persiani mandarono a lui dicendo che se non venisse deposto il lavoro eglino stessi lo sospenderebbero con de’ fatti meglio che con parole. Giustiniano informatone, e visto che Belisario difettava della occorrente truppa da opporre loro ne spedì altra co’ duci Cuze e Buze fratelli, originarj della Tracia, capitani delle compagnie del monte Libano, e non codardi nell’incontrare battaglia5.

II. Accorsi adunque e Persi e Romani al forte gli uni adoperavano discacciarne gli operaj, mentre che gli altri prendevanne la difesa, ed ostinatissima fu l’avvisaglia terminata da ultimo con perdita de’ Romani, che retrocedettero lasciando gran numero di morti sul campo. Molti di loro eziandio caduti in ischiavitù furono [p. 60 modifica]tradotti nella Persia, e condannati ad un carcere perpetuo; e Cuze per sua mala ventura partecipò di questo destino. Rimaso così il forte privo di guardia venne agevolmente dal vincitore agguagliato al suolo.

III. Dopo breve tempo Giustiniano diede a Belisario la capitananza delle truppe orientali, ed imposegli marciare contra i Persiani. Al quale uopo il duce allestito un esercito poderoso recossi in Dara, ove ebbe a compagno Ermogene maestro degli uffizj, e già consigliere di Vitaliano allorchè questi inimicava Anastasio 6, per ordinare tutto il necessario al viatico delle truppe. L’imperatore inoltre destinò Rufino ad un’ambasceria in Persia, commettendogli di rimanere sino a nuovo ordine in Gerapoli7, città su la riva dell’Eufrate. Or mentre da ambe le parti bucinavansi parole di pace, giunse improvvisa nuova che i Persiani erano per valicare i proprii confini, fermi nel voler prendere d’ assalto la città di Dara. Belisario ed Ermogene a tale annunzio apprestarono l’esercito, e fecero scavare ad un trar di sasso dall’abitato, laddove hai Nisibi di fronte, un alto fosso con parecchie uscite, il quale però non conservava di continuo l’egual direzione, ma vo a indicarne la forma. Il suo mezzo descriveva una [p. 61 modifica]retta, alle cui estremità sorgevano due perpendicolari, ed in cima a queste eranvi altre rette orizzontali allungantesi da ambi i lati ben entro la campagna. L’esercito reale attendò nel territorio d’Ammodio, non più che stadj venti lunge da Dara. Pitiaze e Baresmana, privo d’un occhio, avevanne il comando, subordinati però al condottiero Perozo, di magistratura, nomandola alla foggia loro, mirrane; il quale fe dire a Belisario di approntargli il bagno pel venturo giorno, pensando lavarsi entro quelle mura; ed intendeva con ciò sfidarlo per la dimane alla pugna.

IV. I Romani pertanto veduto allo spuntare dell’aurora l’inimico in marcia ordinaronsi come sono per dire. Buze con numerosa cavalleria e Faras erulo con trecento de’ suoi occuparono la sinistra del fosso ed un vicino colle. Venivano quindi alla destra loro i massageti Simas ed Ascanio alla testa di seicento cavalieri, posti all’angolo formato dallo scontro de’ primi col sinistro lato del fosso, per aiutare senza indugio i prefati duci, ove lor truppe fossero perdenti; l’ala diritta avea l’eguale ordinanza. L’estremità poi del fosso in linea retta veniva coperta da molta cavalleria condotta da Giovanni di Niceta, da Marcello e da Cirillo, cui univansi Germano e Doroteo. E qui parimente all’angolo vedevi seicento cavalieri co’ massageti Simas ed Ascanio, pronti, ove Giovanni indietreggiasse, a piombare sul nemico. Il nerbo in fine della cavalleria non men che della fanteria teneva il davanti del fosso, e Belisario ed Ermogene facevan mostra di sè dopo l’avanguardia. Di tal fatta erasi attelato l’esercito [p. 62 modifica]romano, non maggiore di venticinque mila combattenti, e di contro ad una sterminata falange di quaranta mila Persiani, i quali ammirandone la bella disposizione non sapevano da che banda attaccarlo; rimanevansi quindi gli uni e gli altri inoperosi.

V. Così andarono sino al meriggio le cose, quando spiccatasi dal corno sinistro parte della cavalleria persiana mosse ad assalire Buze e Faras, obbligandoli a piegare alquanto, non cimentandosi però ad incalzarli temendo essere inviluppati. Laonde i fuggenti rioccuparono ben presto il perduto terreno, ma il nemico credè opportuno di ritirarsi per aggiugnere i suoi: ed i Romani eziandio tornarono al primo lor posto. Nel badalucco giacquero estinti dieci 8 Persiani, ed il vincitore ne spogliò i corpi.

VI. Or mentre i due eserciti sotto le armi tenevansi in riposo, un giovinetto persiano venne oltre chiedendo se alcuno degli imperiali bramasse tenzonare seco lui da solo a solo: infra tutti però non fuvvi che un servo di Buze, nomato Andrea, cui desse il cuore di accettar la disfida. Questi, non soldato nè pratico dell’arte guerresca, era stato maestro degli atleti in Bizanzio sua patria, e seguiva le truppe coll’incarico di accudire ai bagni del padrone. Egli, diceva, fu il solo che senza verun comandamento accettasse il proposto aringo. Ed a compierlo intanto che l’altro occupavasi del come ferire, ritto sen corre a lui, e lasciatogli un colpo di giavellotto sullo stomaco il getta di arcione, lo [p. 63 modifica]atterra, e mozzagli, siccome a vittima, il capo. L’esercito imperiale accolse il vincitore con grida di gioia, ma i Persiani vie più irritati dal tristo evento metton fuori un secondo campione de’ più ardimentosi, e di taglia eccedente la comune misura: non però, a simile del suo antecessore, nel primo vigor degli anni, e qualche bianco crine facevane testimonianza. Eccolo dunque avvicinarsi all’esercito romano, e squassando lo staffile gastigator del cavallo domandare se tal vi sia pronto a combatter seco. Immobili gli altri tutti e silenziosi, torna in campo Andrea nulla curante il divieto avutone da Ermogene. Segnalaronsi entrambi nell’adoperare coraggiosamente le armi loro, i colpi delle quali con grande fracasso andavano ad investire gli usberghi. Nella zuffa però i destrieri, urtatisi con impeto violentissimo di fronte, caddero a terra seco trascinando i combattenti. Il Persiano volle tosto rizzarsi, ma non consentendovi la voluminosa mole del corpo ed il peso delle armi 9, fu vinto da Andrea, più snello [p. 64 modifica] in grazia di sua professione, che avventatoglisi col ginocchio sopra il colpì ed uccise. Al trionfo di costui la città tutta e l’esercito romano schiamazzarono di giubilo più fortemente che pria, e giunto il sole all’occaso i Persiani retrocedettero su quel d’Ammodio, e gl’imperiali vennero di nuovo in Dara.

Note

  1. Regnò anni 9 e giorni 28.
  2. Anni dell’era volgare 527. «Giustiniano fu nativo di Tauresio, città vicina al forte chiamato Bederiana, posto oltre i confini degli Epidamni e presso i Dardani europei. E memore di questa sua patria circondolla con un muro quadrangolare, e ad ogni angolo vi piantò una torre, e così fece che potesse chiamarsi quadriturrita (Procopio, lib. iv, degli Edif.).» Così poi lo stesso descrive il carattere di quest’imperatore nella sua Storia segreta: «Era Giustiniano facile sì a rapire le sostanze altui, che a far sangue; per lui niente essendo lo esterminare quanta pur fosse moltitudine di uomini di ogni delitto innocenti. Niun pensiero fu mai in lui di conservare le cose stabilite: sempre cercava cose nuove; e dirò tutto in una parola: era suo genio di appestare ogni buona cosa. Pochi furono gli uomini che potessero o fuggire non intaccatine, o intaccatine guarire da quella tremenda pestilenza, che negli antecedenti libri dicemmo essersi sparsa per quasi tutto l’universo mondo, in paragone di quelli che ne rimasero vittima. Ma da Giustiniano niuno tra tutti i Romani scampò, il quale come malanno apposta piovuto dal cielo, nessuno lasciò intatto: chè altri iniquamente levò di mezzo; altri, lasciando loro la vita, gittò in tal povertà, che s’ebbero a desiderare piuttosto ogni più crudele supplizio tanto sentivansi miseri! ad altri non perdonò nè le sostanze, nè la vita. Nè bastò a lui d’aver messo sottosopra il romano imperio, chè volse le forze a soggiogare a l’Africa e l’Italia, onde trarre coteste provincie nella rovina stessa in cui messe avea le altre già soggette» (cap. 12).
    «Non sarà, per quello che io penso, fuor di proposito il presentare i lineamenti della figura di quest’uomo. Di statura non fu Giustiniano nè alto troppo, nè troppo piccolo, non eccedeva la giusta misura. Nè era egli gracile, ma moderatamente pieno di succo e liscio di faccia, nè senz’avvenenza, poichè anche dopo due giorni di digiuno appariva rubicondo. In quanto alla fisionomia, dovendo con parole esprimerla, dirò che rassomigliava assaissimo a Domiziano, figliuolo di Vespasiano» (cap. 13).
  3. Ebbe a fondatori i discendenti di Ezio, figlio di Anto, andativi in colonia da Trezene (Paus., la Corinzia, cap. 31). Alessandro in progresso di tempo vedendo che il possedere questa città avrebbegli molto giovato all’assedio di Alicarnasso, cercò di prenderla corrompendone dapprima alcuni abitatori, e quindi per assalto. Ma l’uno e l’altro colpo riuscirongli vani per allora, mostrati essendosi i Mindesi valorosissimi nel difendere le proprie mura (V. Arriano, le St., lib. i).
  4. Altre volte ragguardevolissima città sopra ogni altra della Mesopotamia. Il suo nome, Nesbin nel plurale, indica propriamente stazione militare. Leggiamo in Sifilino che Severo le attribuì grandissima dignità, e la confidò al governo di un cavaliere romano (lib. lxxv). Parecchie medaglie inoltre fanno testimonianza che questo imperatore dichiarassela metropoli e colonia.
  5. Buze in ispecie era uno dei più ragguardevoli capitani dell’esercito. Egli guerreggiò gli Armeni, fu compagno di Belisario nelle orientali spedizioni e n’ebbe il supremo comando allorchè questi fu mandato in Italia contro i Goti.
  6. V. cap. 8, § 1, di questo libro.
  7. Città sacra; detta così grecamente per antonomasia, derivatole questo nome dal culto d’Atergate, divinità siriaca di primo ordine. Bambyce o Mabog sono le vere sue denominazioni orientali. Essa tuttavia esiste, ma priva affatto del suo antico lustro.
  8. Altri testi dicono sette.
  9. Le armi tanto offensive quanto difensive usate anticamente dai Persiani erano: l’acinace, corta spada alla foggia di quelle, secondo Giuseppe Flavio, solite adoperarsi dai sicarii (Antich. giud., lib. xx; V. inoltre Diodoro, lib. xvii; Esichio; Suida, ec.). La copide, altra specie di spada che pendeva loro dalla destra (Plut., Vite di Alessandro e di Aristide), ed il cui ferire, a detta di Polibio, provenendo da alto in basso recava danno maggiore di quello fatto dalle comuni spade; così poi è definita da Q. Curzio: Copides vocant gladios leviter curvatos, falcibus similes, queis amputabant belluarum manus (lib. viii). La sagari, arma pur questa foggiata a guisa di spada (V. Senofonte, Anabasi, lib. iv; Esichio, ec.); non pertanto Senofonte (Cirop., lib. ii) pone come sinonimi la sagari, la copide e la spada. I soldati persiani difendevano parimente il petto loro con una squamosa lorica (V. Erod., lib. vii e ix; Senof., Cirop., lib. ii; Virg. Eneide, lib. ix), ed imbracciavano a mo’ di scudo il gerra, composto di tessuti vimini, e di forma romboidale; era esso maggiore degli scudi romano e gallico, coprendo tutto il corpo del soldato (Erodoto, lib. vii; Strab., lib. xv; Eust., al lib. xxii dell’Odissea; Senof., Cirop., lib. vi e viii); al che però sembra non consentire Diodoro siculo, il quale dà la preminenza a quello greco (lib. xvii); ma è uopo osservare che gli scudi greci, prima d’Ificrate grandissimi, furono da costui cambiati con altri assai meno voluminosi. Avevano eziandio il palto, specie di lancia o dardo (V. Esichio; Senof., Cirop., lib. i, vii e viii). In fine sotto i gerri vedevi loro la faretra carica di strali (Erod., lib. vii; Strabone, lib. xv): nè facevan senza la frombola (Strab., lib. xv; Senof., Cirop., lib. vii), che anzi tutto e’ valevano in quest’arma da superare gli stessi frombolieri cretesi (Senof., Anab., lib. iii). In generale era il capo loro coperto dalla sola tiara (Erod., lib. vii; Strab., lib. xv; Senof., Anab., lib. i), avvegnachè alcuni lo riparassero con una maniera di celata ferrea o di rame (Erod., lib. vii).