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Procopio di Cesarea - Storia Segreta (VI secolo)
Traduzione dal greco di Giuseppe Compagnoni (1828)
Capo XII
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CAPO XII.

Carattere infame di Giustiniano. Suoi primi assassinii. Favorisce la fazione de’ Veneti. Disordini di questi, e dei Prasini. Mode barbare introdotte. Delitti di ogni partito. La gioventù se ne fa imitatrice. Il male si estende dappertutto. Giustiniano premia, anzi che punire i colpevoli. Egli non fa che cercar denaro, e gittarlo.

Era Giustiniano facile sì a rapire le sostanze altrui, che a far sangue: per lui niente essendo lo esterminare quanta pur fosse moltitudine d’uomini di ogni delitto [p. 82 modifica]innocenti. Niun pensiero fu mai in lui di conservare le cose stabilite: sempre cercava cose nuove; e dirò tutto in una parola: era suo genio di appestare ogni buona cosa. Pochi furono gli uomini, che potessero o fuggire non intaccatine, o intaccatine guarire da quella tremenda pestilenza, che negli antecedenti libri dicemmo essersi sparsa per quasi tutto l’universo mondo, in paragone di quelli che ne rimasero vittima. Ma da Giustiniano niuno tra tutti i Romani scampò, il quale come malanno apposta piovuto dal cielo, nessuno lasciò intatto: chè altri iniquamente levò di mezzo; altri, lasciando loro la vita, gittò in tal povertà, che s’ebbero a desiderare piuttosto ogni più crudele supplizio: tanto sentivansi miseri! ad altri non perdonò nè le sostanze, nè la vita. Nè bastò a lui l’aver messo sossopra il romano Imperio, chè volse le forze a soggiogare l’Africa, e l’Italia, onde trarre codeste provincie nella ruina stessa, in cui messe avea le altre a lui già soggette.

Appena erano scorsi dieci giorni, dacchè avea il poter nelle mani, che mise a morte insieme con alcuni altri Amanzio, primario fra gli eunuchi di Corte, dandogli a delitto non altro che qualche indiscreta parola contro il vescovo della città: cosa che presso tutti il rendè terribilissimo. E tanto più che poco appresso, dopo avere sotto pubblica fede, e solenne promessa d’impunità, chiamato a sè Vitaliano, che avea aspirato all’Imperio; e dopo avere seco lui celebrati i misterii de’ Cristiani, eccitati sospetti, e creati disgusti, in mezzo alla Corte, lui e gl’intrinseci suoi trucidò empiamente, senza badare alla violata fede, che pur tanto debbe essere sacra. [p. 83 modifica]

Erano, siccome fu già detto, tra il popolo due fazioni. A quella de’ Veneti egli si attaccò, già dianzi fattasi amica; e così venne a confondere e turbare tutte le cose a segno, che lo Stato de’ Romani di già declinante rovesciò. I Veneti, quantunque e sediziosi e al cattivo suo genio in tutto ubbidienti, in mezzo alla crescente generale calamità pur furono riguardati per uomini moderatissimi soltanto per questo che parcamente abusarono della loro conceduta facoltà di far male. Dal canto loro i Prasini, che ivano tumultuando, non si contennero: ma come videro di potere, abbandonaronsi ad ogni misfatto, quantunque di tempo in tempo con occulti supplizii fossero puniti: il che però ogni giorno li rendea più arditi. E come accade, che gli uomini provocati da ingiurie volgono l’animo a far peggio; dall’ansa, e dagli eccitamenti, ch’egli palesemente dava ai Veneti, tale pubblica tribolazione nacque, che tutto il romano Imperio videsi scosso nelle sue sedi, come se da’ nemici venissero devastate le città, o da tremuoti atterrate, o da alluvione sommerse. Perciocchè tutto qua e là fu tolto di posto, e rovesciati diritti e leggi, lo Stato intero della repubblica venne conquassato e confuso. Immantinente i faziosi incominciarono a coltivare la chioma, e in nuova, ed a’ Romani straniera moda, a tagliarla: lasciaronsi crescere la barba e i mustacchi, e questi venir lunghi all’uso persiano: si rasarono i capelli sulla fronte, e alle tempia; e al di dietro lasciaronli andar liberi e sparsi, come facevano i Massageti: costumanza che fu chiamata unnica. Tutti poi vollero vestimenti fatti con grande artifizio, e più splendidi di quanto [p. 84 modifica]comportasse il grado: e se ne provvedevano a forza d’iniqui bottini. Le maniche de’ vestiti erano al pugno strettissime; poi crescevano alle spalle meravigliosamente larghe: così che quando nel teatro, e nel circo a mano protesa gridavano, o come succede, eccitavano gli altri, quella parte del vestito principalmente ampliavasi a modo da far credere d’avere sì grande e robusta la persona, che avessero appunto bisogno di un tale abito per coprirla: non accorgendosi, che con sì gonfia e vuota veste maggiormente rivelavano l’esilità del loro corpo. E gli umerali, e gli stivaletti, e la maggior parte della calzatura presero pure dagli Unni, e coi nomi usati dagli Unni queste cose individuavano. Per lo innanzi quasi tutti in tempo di notte ed apertamente andavano armati; e allora si misero a portare in pieno giorno sotto l’abito nascosti e fermi al fianco i pugnali. Quindi sull’imbrunir della sera raccolti in truppe, o nell’aperto foro, o sotto i portici, qualunque innocua persona incontrassero, la spogliavano de’ pallii, delle cinture, delle fibbie d’oro che avesse, e di quanto recasse seco: altri, dopo averli derubati, battevano ancora, onde non riferissero ciò che loro era succeduto.

È ben da credere, che tutta la gente di queste iniquità acerbamente qua e là si gravasse; e che tal’ora codesti assalitori non andassero senza mal incontro. Ma spezialmente accadde che la maggior parte delle persone incominciò ad usare fibbie e cinture di rame, ed abiti vili, non appropriati alla loro dignità, così facendo perchè gli ornamenti non fossero cagione, che alla vita di esse s’insidiasse; e restituivansi alle case loro [p. 85 modifica]prima che il sol tramontasse, e andavano in compagnia per essere meglio sicuri. Ma crescendo sempre più il disordine, e niuna misura contro i perversi prendendosi dal prefetto della città, questi diventavano ogni giorno più insolenti, atteso che quando è fatta ampia la licenza del mal fare, i misfatti maggiormente crescono, non essendo più possibile estirparli coi supplizii; e per certo impeto naturale i più sieguono i cattivi esempii. Così operavano i Veneti.

Di quelli della fazione contraria alcuni si accostarono loro per la smania di vendicare sul popolo le offese ricevute; altri si nascosero; molti furono presi o dai loro nemici, o dal magistrato che li traea alla morte. La cosa finì, che molta gioventù della città si associò a que’ malandrini, non che dianzi fosse d’intelligenza con essi, ma o spronata dal sentimento delle sue forze, od allettata da iniqua licenza. Nè per certo v’è alcuna sorta d’iniquità nota agli uomini, che in questo tempo non siasi commessa, e non sia rimasta impunita.

Da principio erano prese di mira le persone della fazione contraria: poscia si travagliarono anche quelle, che non aveano mai fatto male ad alcuno. Accadde ancora, che da molti corrotti col denaro, avuti i segnali, ne uccidevano i nemici, incolpando questi d’essere Prasini, quando non li aveano mai nè conosciuti, nè veduti. E non più commettevansi queste malvagità in mezzo alle tenebre ed occultamente; ma ad ogni ora del giorno, e in ogni luogo della città, e sotto gli occhi delle persone principalissime, se vi si fossero a caso imbattute. Nè veramente v’era bisogno di andar [p. 86 modifica]circospetti in così fare, ove non era alcun timore di punizione. Anzi parea occasione di acquistar gloria, e di mostrare fortezza, l’uccidere di un colpo chiunque s’incontrasse disarmato. Nella quale tristissima situazione nissuno ebbe più speranza di vita; e il terrore, che preso avea tutti gli animi, facilmente faceva credere certa la morte, tanto più che nè sicuro luogo, nè tempo propizio conoscevasi per lo scampo: chè la gente veniva senza alcun riguardo scannata ne’ templi più augusti, e in mezzo alla celebrazione stessa de’ religiosi misterii. Nè v’era caso di ricorrere agli amici, e parenti; chè infidi erano divenuti anche questi; e molti perirono massimamente per mano de’ loro più intimi. Così non v’era caso di preservarsi dai colpi, mentre piombava improvvisa la disgrazia sulle persone, e nessuno avea tempo di soccorrerle. Niuna forza aveano le leggi, e le convenzioni; niun asilo rimaneva: tutto facevasi turbolentemente e con violenza. La repubblica era caduta sotto una specie di tirannide, incostante, è vero, e versatile, ma che ognora cominciava da capo. I principali dello Stato, perduti d’animo, sentironsi dal terrore incusso da un sol uomo tratti in servitù. I giudici nel pronunciar le sentenze intorno alle cose civili, non tenevano più conto di ciò che le leggi avessero prescritto, ma del riguardo che i faziosi aveano più per l’uno che per l’altro de’ litiganti. Per un giudice era capitale delitto il non secondare quanto volevano i Veneti. Per ciò la maggior parte de’ creditori si vide costretta a consegnare ai debitori la scritta dell’obbligo, in tal modo defraudati del loro denaro. Altri dovettero dare la [p. 87 modifica]libertà ai loro servi; le donne a cedere alle brame de’ mancipii, o ripugnando a soffrirne la violenza. E le cose giunsero al segno, che i figli d’illustri cittadini, postisi in congrega con codesta gioventù sì guasta, dai loro genitori a forza estorcevano e denaro e qualunque altra cosa. E si videro giovinetti impuberi, costretti anche reluttanti a patire gli scellerati abbracciamenti de’ faziosi poco meno che in cospetto de’ genitori medesimi, giacchè questi non ne ignoravano l’ingiuria. Nè da tali violenze erano immuni le donne maritate.

Narrasi di una non ricca di ornamenti, alla quale, mentre insieme col marito passava in barca di là del Bosforo ad una sua villa, codesti faziosi si presentarono, e minacciosamente strappata al marito la trassero nel lor navicello. Nell’atto, ch’essa vi saliva, disse all’orecchio al marito che stesse di buon animo, nè temesse che a lei cosa indegna avvenisse: chè devi sapere, aggiungeva, che non permetterò mai che questo mio corpo sia macchiato. E mentre quegli dolente l’andava seguendo cogli occhi, la vide gittarsi in acqua, e rimanervi annegata.

Pur queste cose, che i turbolenti uomini ardivano allora commettere in Costantinopoli, meno angustiarono gli animi, che quelle che Giustiniano commise contro la repubblica. Minorasi gran parte del dolore che si soffre in una miseranda sventura, quando rimane speranza che gli scellerati abbiano dai magistrati, vindici delle leggi, la debita pena. Questa speranza sostenta il coraggio, onde i presenti mali più facilmente si sopportano. Ma quando gli uomini sono oppressi da colui, nel [p. 88 modifica]quale è collocata la tutela pubblica, più gravi riescono le loro disgrazie; e veduto non potersi sperar la vendetta dalla somma autorità aspettata, forza è che cadano finalmente in disperazione. Peccò dunque Giustiniano, io dico, non solo perchè non si diè cura delle querele degli afflitti, ma perchè in cospetto di tutti egli medesimo prestò mano alla facinorosa gioventù, e larghissimi doni le fece; e parecchi di quelli, rei di tanti, e tanto pubblici delitti, prese a’ suoi cortigiani, e molti promosse a’ magistrati, ed elevò a dignità.

E quello che succedeva in Costantinopoli, succedette pure in ogni municipio; poichè un tanto disordine in quella città incominciato, come una pestilenza invase tutto il romano Imperio, senza che l’Imperadore se ne pigliasse pensiero: nulla mosso nemmeno da ciò che vedeva egli medesimo farsi sotto i suoi occhi nel circo. Mostrossi così di prodigiosa stolidità, somigliantissimo ad un giumento da facilmente tirarsi per la cavezza, il quale altro in quel caso non fa che scuoter le orecchie. E mentre trascurava queste cose, venne a turbare tutte le altre.

E di vero, tosto ch’ebbe preso il principato dello zio, tutto il suo ingegno pose, e con nissuna dignità, a vuotare l’erario pubblico che aveva in sue mani. Prova è di ciò quanto agli Unni, che spesso venivano a lui, in ampii doni profuse, oltre le grandi spese che per essi faceva. Per questo poi le provincie romane si videro esposte alle incursioni de’ Barbari, i quali assaggiate una volta le ricchezze romane ritornavanvi, nè se ne potevano distaccare. Ebbe pur anche il capriccio di [p. 89 modifica]gittare esorbitanti somme di denaro nella costruzione di moli marittime per rintuzzare la forza de’ flutti, e con enormi masse di pietre all’impeto della corrente del Ponto opponendosi mostrare più pertinacia egli medesimo, e cercar gloria lottando in certo modo cogli sforzi delle ricchezze contra la violenza del mare. A sovvenire a tante inutili spese tirò a sè da ogni parte le private sostanze de’ Romani, agli uni apponendo falsi delitti, agli altri senza verun fondamento dichiarando le loro fortune essere state a lui destinate in dono. E parecchi rei di parricidii, per iscansare la pena dovuta per tali delitti, tutti i loro beni gli cedettero. Altri, che senza nissun titolo promossa aveano lite contro i vicini sopra fondi giustamente da questi posseduti, veggendo di non potere per virtù delle leggi riuscir vittoriosi, rinunciavano all’Imperadore la causa, paghi almeno e di rendersi a lui senza pericolo noti e ben visti, e con quello iniquissimo loro procedere di opprimere i loro avversarii.