Istoria delle guerre persiane/Libro primo/Capo XIV
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1833)
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CAPO XIV.
I. Al dimane partonsi da Nisibi mille armati in soccorso de’ Persiani, e Belisario ed Ermogene mandano a Perozo scrivendo: «Non havvi mortale, per poco assennato ch’egli sia, al cui giudizio non s’appresenti la pace come il primo di tutti i beni, e il violatore di lei come feconda sorgente di mali ai concittadini ed agli stranieri. È quindi uffizio dell’ottimo capitano il venirne a capo quanto più sollecitamente e’ possa. Al tuo decretare senza motivo alcuno la guerra le due nazioni erano in ottima armonia, i loro monarchi nutrivano al tutto pacifici sentimenti, gli ambasciadori attendevano l’ora di entrare in conferenze, e la universale aspettazione presentiva una felice riuscita nel conciliar le querele de’ nostri regni. Tu però dissipasti le concepite speranze con improvvise scorribande sulle romane terre; il perchè assai prudentemente adoprerai ritirandone le truppe, non ponendo ostacolo ai vantaggi ch’è uopo attendere dallo stabilirsi gli accordi, e non aggravandoti di tutti i mali cui forse appianerà la via un guerreggiare più lungo».
II. Il mirrane riscrisse: «Di buonissimo grado mi presterei a tutte le vostre brame, ed alla piena esecuzione di quanto vergaste nel foglio, se questo fossemi capitato da ogni altra banda anzi che da voi, o Romani, i quali, spacciatori di belle parole e pronti ognora a confermarle co’ più sacrosanti giuri senza poi darvi carico veruno che rispondanvi le opere, ne costringete a tenerci sotto le armi per non addivenire il continuo zimbello di così neri inganni. Riponete dunque ogni vostro pensiero nella guerra essendo noi risoluti di morirvi, o incanutire, combattendo, il crine, sinchè non otteniamo giustizia di quanto ne spetta». Belisario replicògli: «Male a te si conviene il presumer cotanto e l’offenderci con vani rimbrotti. È vero, a non dubitarne, che tra poco avrem qui l’ambasciadore Rufino, ed il tempo manifesterà la sincerità delle nostre parole: ma se nondimanco tu prosegui bramare con tanta ostinazione la guerra, ne vedrai in buona ordinanza pronti a combatterti. E ci lusinghiamo avere dalla nostra Iddio, compiacendosi egli dell’affetto che portiamo alla pace, ed abborrendo in te l’orgoglio nel rigettarla. Oltre di che ordinandoci alla battaglia appiccheremo in cima delle nostre bandiere ed i giuramenti ed i violati accordi». Ed il mirrane: «I nostri Dei non ci abbandoneranno tampoco in questo cimento. Sotto i loro auspizj noi col venturo giorno vi sfidiamo alla pugna, dopo la quale entreremo vittoriosi in Dara: siaci pertanto quivi apprestato il bagno ed il pranzo». Belisario adunque, ricevuto il foglio, si dispose a far giornata.
III. Perozo il dì appresso al comparir del sole ragunò le truppe ed aringolle dicendo: «È a noi ben conto che non in virtù delle esortazioni de’ capitani, ma per la brama di non essere tenuti a vile da chicchessia, vadano i Persiani ad incontrare con vie più di coraggio i pericoli. Al vedervi non di meno cogitabondi sul perchè gl’imperiali, soliti ognora essere i primi ad avventarsi con istrepito e spavento contro il nemico, nell’ultimo conflitto rimasi costantemente di piè fermo abbiano atteso in bell’ordine che voi li assaliste, credo opportuno di eccitarvi a deporre ogni falsa opinione del valor loro, e a non pensare che acquistassero in un attimo ed animo ed esperienza. Temettero eglino per lo contrario sì forte il cospetto nostro che non osarono ordinarsi alla battaglia senza il riparo d’un fosso al davanti, nè vollero partirsi da esso per venirci ad attaccare. E con tutto ciò millantansi d’un successo al di là d’ogni loro speranza, fondandolo sull’essere riusciti a sottrarsi dal cimento ed a riparare nella città; come che abbiavi gran maraviglia nello sfuggire una rotta col non avventurarsi alla sorte delle armi: costringeteli però ad impugnare il ferro, ed il timore e la poca esperienza gitteralli ben tosto, secondo il costume loro, nello scompiglio; tale affè mia è la condizion dei nemici. Ma voi, o Persiani, non obbliate giammai che avrete de’ vostri diportamenti arbitro il re, e che n mostrandovi colla vostra dappocaggine tralignati dai valorosi avi riporterete ignominia non gloria». Il mirrane qui tacendo condusse le truppe in campo. Belisario ed Ermogene fatti uscire parimente i Romani delle mura tennero loro la seguente allocuzione: « Aveste pruova, o guerrieri, nell’ultimo cimento non starvi a fronte un invincibile od immortale nemico; tutti a voi concedono il primato del valore, a lui quello d’una più esatta disciplina. Ma potete di leggieri emendarvi, bastando all’uomo la sola ragione, per ispogliare i vizj derivanti dall’animo suo, quando riesce vana ogni cautela a guarentirlo dagli oltraggi della fortuna1. Obbedite dunque ai vostri condottieri, e rimarrete per certo vittoriosi; il nemico non confida che nel vostro disordine, levatelo da questa speranza ed i suoi futuri successi non soverchieranno quelli dell’ultima campale giornata. Cosa affatto dispregevole n’è il numero, col quale opina atterrirci; riduconsi i suoi fanti ad un ammasso di miserabili agricoltori assoldati per iscavare le fossa, per disvestire i morti, e per attendere ai servigi dell’esercito: mancano sino d’armi offensive, e non vedete su loro che grandi scudi a ripararli dai colpi. Il perchè non solamente vostro sarà il trionfo diportandovi da prodi, ma li metterete eziandio per sempre nell’impossibilità di ricalcare le nostre terre».
IV. Dopo queste parole i duci veduto il nemico in piena marcia disposero l’ordinanza siccome nel precedente conflitto; quello avvicinatosi, e giunto loro di contro, ristette. Il mirrane allora oppose la sola metà delle sue truppe ai Romani, per valersi del resto a combattere di mano in mano con fresca gente lo stanco avversario; ingiunse di più alla legione detta immortale di tenersi in quiete sinchè non ricevesse il comandamento di avanzare, ed egli per ultimo collocossi in mezzo alla fronte dando a Pitiazo la capitananza del corno destro, ed a Baresmane quella del sinistro. Schierati siffattamente gli eserciti, Faras accostatosi ai capitani Belisario ed Ermogene, disse loro: «Sino a tanto che io qui mi rimango cogli Eruli sembrami non poter riuscire i miei servigi di molta importanza, quando in vece se andassi ad occultarmi in quella scesa, e quindi, montato il colle, mentre ferve grandemente la mischia assalissi da tergo il nemico gli apporterei gravi molestie». Piacque a Belisario lo stratagemma, e quegli corse di subito a mandarlo ad effetto.
V. Avanti il meriggio non si scoccò balestro da alcuna delle parti, ma trascorso appena, l’esercito persiano s’accinse all’opera. E fu indugiato cotanto perocchè gl’imperiali soliti rifocillarsi del mattino credevano incontrare minor resistenza da gente affievolita dal digiuno, prendendo i Persiani cibo alla sera. Il primo ferir poi fu di strali ed in copia sì grande, che, quasi nube, oscuravano l’aere d’intorno, e molti da quinci e quindi aggiuntaronvi la vita; maggiore però era il trarre de’ barbari con quel loro alternativo combattere, e con quel surrogare all’insaputa del nemico nuovi corpi ai retrocedenti per istanchezza; non ne riportarono tuttavia molto profitto, imperciocchè spirando vento ad essi contrario la forza dei lor colpi ne risentiva notabile danno.
VI. Esaurito il saettame ed impugnate le lance imperversò la mischia. Il corno sinistro de’ Romani durò grande fatica a reggere contro l’urto de’ Cadusii2 condotti da Pitiazo, e di già vincitori in qualche parte. Sunica ed Augan v’accorrono, e Faras anche prima di questi, co’ suoi trecento Eruli facendo prodigi di valore, e costringendo il nemico, abbandonato il campo, a ritirarsi.
VII. I Romani, al mirarli in rotta di subito riordinati, aitarono a compirne la strage. Il corno destro de’ Persiani non ebbe in quello scontro meno di tre mila estinti, e gli altri con agevole scampo, non essendo molestati dai vincitori, aggiunsero il centro. Tanto si operò in allora.
VIII. Il mirrane fece quindi passare la immortale legione ed altra soldatesca nel sinistro corno; del che avvedutisi Belisario ed Ermogene comandarono ai duci Sunica ed Augan di andare a rafforzare co’ loro seicento il corno destro ove erano già schierati Simas ed Ascanio; fu attelata inoltre alle spalle loro gran parte delle truppe di Belisario. In questo mezzo i Persiani del corno sinistro guidati da Baresmane assalirono gli imperiali di contro, i quali non reggendo al potentissimo urto diedersi alla fuga. Tosto però que’ tutti che stavansi inoperosi all’angolo del fossato ed alle riscosse marciarono ad attaccare impetuosamente i vincitori, li ruppero, e ne rispinsero il maggior numero a destra e gli altri a sinistra, dove giaceva estinto il banderaio di Baresmane, ferito dalla lancia di Sunica. Intrattanto que’ Persiani che tenevan dietro ai fuggenti, veduto il pericolo, abbandonarono la impresa loro per soccorrere i compagni; ma ebbero eglino stessi ad affrontare doppio certame, perocchè i vinti, riunitisi, tornarono ad assalirli. La immortale legione e le altre truppe visto il banderaio in terra presero quella via con Baresmane.
IX. I Romani anch’egli vennero ad incontrarli, e Sunica, tra loro, ferì con un colpo di lancia Baresmane, il traboccò di sella ed uccise. Per sì tristo evento i barbari scoraggiati diedersi vergognosamente alla fuga, ed in essa, giunti i Romani a circondarli, forse cinque mila vi lasciarono la vita. I due eserciti poscia abbandonarono affatto lor posizioni, ritirandosi i Persiani sempre molestati dagli omeri. Nella sconfitta il più della fanteria gittò a terra gli scudi, e colta nel massimo disordine fu miseramente accoppata. Se non che Belisario ed Ermogene temendo non il nemico costretto dalla necessità voltasse di nuovo le armi contro gli arditi persecutori, impedirono ai loro un soverchio allontanamento, contentandosi di conservare, padroni del campo, la riportata vittoria3. Fattisi indietro gli eserciti, il barbaro non osò più rischiare una battaglia, e le rade avvisaglie di pochissimo conto succedute tra loro non andarono colla peggio de’ Romani. Così ebbero fine le imprese della Mesopotamia.
Note
- ↑
Ciò che prescritto è dal destin nè fuoco
Nè parete di ferro a impedir vale.
(Pindaro).
- ↑ Plutarco narra che il costoro paese «è tutto aspro e nebbioso, ed è infecondo di biade e di frutta, e nutre di pere e di mele salvatiche e di altre siffatte coccole gli abitanti suoi, che bellicosi sono e ferini» (Vita d’Artaserse). La geografica posizione loro è al nord della Media, ovvero sia al sud-est del mar Caspio.
- ↑ Anno dell’era volgare 529.