Istoria del Concilio tridentino/Libro terzo/Capitolo III
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CAPITOLO III
(giugno 1549-aprile 1550)
[Persecuzioni dei riformati in Francia. — Morte di Paolo III ed elezione di Giulio III. — Intendimenti del nuovo papa circa il concilio. — Innocenzo del Monte creato cardinale. — Carlo V incontra difficoltá nell’introdurre l’inquisizione nei Paesi Bassi. — Sue insistenze perchè si riapra il concilio a Trento. — Timori del papa, che rimette l’esame della questione a una congregazione di cardinali. — Parere favorevole di essa. — Istruzioni date ai nunzi inviati in Francia ed in Germania per informarne quei sovrani. — Condizioni preliminari prospettate all’imperatore e da lui prese in considerazione. — Egli annunzia alla dieta l’ottenuto ritorno a Trento del concilio e invita ad intervenirvi. — Difficoltá e clausole messe innanzi dai protestanti.— Assicurazioni imperiali al papa. — La bolla di convocazione viene prima comunicata all’imperatore, che invano tenta di farla modificare.— Pubblicazione della bolla e malumore suscitato in Germania.— Recesso dietale del 13 febbraio. — Il papa nomina un legato e due nunzi al concilio, mentre l’imperatore assicura ampio salvocondotto ai prelati tedeschi. — Ottavio Farnese, per assicurarsi il possesso di Parma, ricorre alla protezione della Francia. Sdegno del papa e dell’imperatore, e origine di nuovi dissidi.]
Il re di Francia in questi medesimi tempi, essendo entrato in Parigi la prima volta il 4 di luglio, fece far una solenne processione, e pubblicò un editto, rendendone ragione al populo ciò esser fatto per significar a tutti che egli riceveva la protezione della religione cattolica e della sede apostolica e la tutela dell’ordine ecclesiastico, e che aborriva le novitá nella religione; e testificava a tutti la sua volontá essere di perseverar nella dottrina della chiesa romana ed esterminar da tutto il suo regno li novi eretici. E questo editto lo fece stampar in lingua francese, e mandar per tutto il regno. Diede anco licenza alli suoi prelati di far un’adunanza provinciale per riformar le chiese; il che saputo a Roma, fu tenuto un cattivo esempio, come quello che fosse principio di far la chiesa gallicana independente dalla romana. Fece anco il re giustiziar in Parigi molti luterani, al qual spettacolo volle esser presente; e nel principio dell’anno seguente replicò ancora l’editto contra di loro, imponendo gravissime pene alli giudici che non fossero diligenti in iscoprirli e punirli.
Ma avendo dormito due anni il concilio in Bologna, il di 7 novembre il pontefice, veduta una lettera del duca Ottavio suo nepote, che scriveva volersi accordar con Ferrando Gonzaga per entrar in Parma, qual cittá il papa faceva tenir per nome della sede apostolica, fu assalito da tanta perturbazione d’animo e ira, che tramortí, e dopo qualche ore ritornato in sentimento, se gli scoprí la febbre, della quale dopo tre giorni morí. Il che fece partir di Bologna il Monte per ritrovarsi all’elezione del novo pontefice, e ritirare tutto ’l rimanente delli prelati alle case loro. Il costume porta che nove giorni i cardinali fanno l’esequie al morto pontefice, e il decimo entrano in conclavi. Allora per l’assenza de molti si differí l’entrarvi sino a’ 28 del mese. Il cardinale Paceco non partí di Trento, sin che Cesare, avuto avviso della morte del papa, non li ordinò che andasse a Roma, dove egli gionse assai giorni dopo che il conclavi fu serrato. Dove reduttisi li cardinali per la creazione del papa, e facendosi secondo il solito li capitoli che ciascun giura osservare se sará eletto papa, fu tra li primi quello di far proseguir il concilio. Ognun credeva che dovesse esser eletto nuovo papa inanzi il Natale, perché, dovendosi nella vigilia di quella festivitá aprir la porta santa al giubileo dell’anno seguente 1550, a che è necessaria la presenzia del pontefice, ed essendo in quell’anno un grandissimo concorso di populo a quella devozione, ognuno si credeva che questa causa dovesse mover li cardinali a proceder presto all’elezione. Erano li cardinali divisi in tre fazioni; imperiali, francesi e dependenti del morto papa, e in conseguenza dalli nepoti. Li imperiali portavano il Cardinal Polo, e li francesi Salviati. Ma non solo nessuna di queste parti era sufficiente d’includere l’elezione, ma né anco potevano tra loro convenire, per li contrari rispetti delli principi loro. La parte de’ Farnesi era per venir all’inclusiva, sempre che avesse aderito ad una delle altre; si contentavano del cardinale Polo, per la bontá della sua natura e per li continui ossequi prestati al papa e al Cardinal Farnese; ma oppugnandoli il Cardinal teatino che fosse macchiato delle opinioni luterane, fece ritirar molti. A Salviati il Farnese non aderiva, ed era risoluto di non consentire, se non in creatura di suo avo. Li interessi delle fazioni erano cosí grandi che il rispetto dell’anno santo e l’aspettazione di tanto popolo, il qual anco quel giorno stette adunato sino a notte intiera, non potêro prevalere.
Finalmente la parte del Farnese aiutata dalli francesi prevalse, e fu creato papa Gioanni Maria di Monte, che era stato legato al concilio in Trento e in Bologna, nel quale Farnese concorse come in fedele servitore suo e dell’avo, e li francesi come in riputato inclinato alle cose del suo re, e alieno dall’imperatore per causa della transazione del concilio. Né li imperiali furono contrari, per aver Cosmo duca di Fiorenza fatto fede che egli non era francese se non per quanto la gratitudine debita al papa l’aveva costretto, agl’interessi del quale li pareva esser suo debito aderire, onde, levata quella causa, s’averebbe portato verso il giusto. Molti ancora amavano in lui la libertá della natura aliena dall’ipocrisia e dissimulazione, e aperta a tutti. Egli immediate dopo l’elezione, conforme a quello che era capitulato, giurò di proseguir il concilio. Fu eletto il di 8 febbraro, e coronato a’ 23; e a’ 25 apri la porta santa.
L’imperatore, vedendo le cose della religione in Germania non camminar a modo suo, sperando pure con la presenza superar le difficoltá, intimò la dieta per quell’anno in Augusta e mandò Luis d’Avila al pontefice per congratularsi con lui della assonzione sua e a ricercarlo di rimetter in piedi il concilio. A che corrispondendo il pontefice con altrettanta cortesia, fece grand’offerte della sua benevolenza: ma al fatto del concilio rispose parole generali, non essendo ancora in se stesso risoluto. E di questo medesmo parlò col cardinale di Ghisa, che doveva tornar in Francia, con la medesma irresoluzione, ma ben affermando che non sarebbe passato a farlo, se non comunicato prima ogni cosa col re di Francia. E al cardinale Paceco, che spesso ne tenne con lui proposito, e agli altri imperiali diceva che sarebbe stato facilmente d’accordo con l’imperatore in questo particolare tutte le volte che si camminasse con sinceritá, e che il concilio si dovesse far per confondere gli eretici, per favorire le cose dell’imperatore e non per disfavorire la sede apostolica; sopra che aveva molte considerazioni che a suo tempo averebbe fatto intendere a Sua Maestá. Diede presto saggio qual dovesse esser il suo governo, consumando li giorni intieri nelli giardini, e disegnando fabbriche deliciose, e mostrandosi piú inclinato alli diletti che alli negozi, massime che avessero congionta qualche difficoltá. Le quali cose avendo accuratamente osservato don Diego ambasciator cesareo, scrisse all’imperatore che sperava dover riuscire facilmente ogni negoziazione che Sua Maestá avesse introdotta col papa, imperocché, come vago de diletti, s’averebbe fatto far tutto quello che l’uomo avesse voluto, mettendogli paura.
Si confermò maggiormente l’opinione che il papa dovesse riuscire piú attento agli affetti privati che alle pubbliche esigenze, per la promozione che fece il dí 31 maggio d’un cardinale, a cui diede, secondo il costume usato, il suo cappello. Essendo Gioanni Maria di Monte, ancora vescovo sipontino, al governo della cittá di Bologna, ricevette nella sua fameglia un putto, piacentino di nazione, dei natali del quale non è passata notizia al mondo. A questo prese tanto affetto, quanto se gli fosse stato figlio. Vi è memoria che, essendo quello infermato in Trento di morbo grave e longo, con opinione de’ medici che dovesse condurlo a morte, per conseglio loro lo mandò in Verona per mutar aria; dove avendo ricuperato la sanitá, e ritornando in Trento, l’istesso giorno del suo arrivo usci il legato dalla cittá per diporto, accompagnato da gran numero de prelati, e rincontrò appresso la cittá con molti segni di allegrezza: che diede da parlare assai, o fosse stato questo incontro per caso, o fosse il cardinale andato a studio, sotto altro colore, a questo effetto d’incontrarlo. Egli era solito dire che l’amava e favoriva come artefice della sua fortuna, atteso che dagli astrologi era predetta gran dignitá e ricchezze a quel giovine, quali non poteva aver se egli non ascendeva al papato. Subito creato pontefice, volle che Innocenzo (cosí era il nome del giovine) fosse adottato per figlio di Baldoino di Monte fratello suo; per qual adozione si chiamò Innocenzo di Monte; e conferitogli molti benefici, il giorno sopra detto lo creò cardinale, dando materia di discorsi e pasquinate alli cortigiani romani, che a gara professavano dire la vera causa d’un’azione tanto insolita, per congetture di vari accidenti passati.
Carlo, inanzi che dei Paesi Bassi partisse, fece pubblicare lo stabilimento dell’inquisisione in quei stati: per il quale si commossero di tal maniera li mercanti tedeschi e anglesi, che in grandissimo numero si trovavano in quelle regioni, ed ebbero ricorso alla regina Maria e alli magistrati, dimandando mitigazione dell’editto, altramente protestando di voler partire. Per il che quelli che dovevano esequire l’editto e instituire l’inquisizione trovarono impedimento quasi per tutto, onde fu sforzata la regina Maria per questa causa andar a trovar Cesare, che era in Augusta per celebrare la dieta, acciocché quella regione frequentissima non si desertasse, e nascesse qualche notabilissima sedizione. Cesare con gran difficoltá si lasciò persuadere; pur in fine si contentò di levar il nome d’inquisizione, che era odioso, e di revocare tutto quello che toccava li forestieri nell’editto, restando però fermo quello che apparteneva alli naturali del luoco.
Fece l’imperator opera col pontefice, con sue lettere e uffici dell’ambasciatore, che si riassumesse il concilio di Trento, pregandolo d’una precisa risposta, non come quella che diede al d’Avila, né meno con l’ambiguitá usata nel trattare col cardinale Paceco; ma si lasciasse intendere le capitulazioni che ricercava, acciò esso potesse risolvere se doveva trattar di rimediare alli mali di Germania con quella medicina, o vero pensar ad altri rimedi, essendo impossibile continuare piú in quello stato.
Il pontefice ritiratosi con li piú confidenti suoi, considerando che quella era la piú importante deliberazione che potesse occorrere nel suo pontificato, bilanciò le ragioni che lo potevano persuadere e dissuadere. Considerava prima che, rimettendo il concilio in Trento, condannava la translazione fatta a Bologna principalmente per opera sua, e che era un’aperta confessione d’aver operato male, o per propria volontá, o per motivo d’altri. E se pur altro non fosse passato che la translazione, non esser cosa di tanto momento; ma l’aversi fatto parte a defenderla, e anco con acrimonia, non si poteva scusare che non fosse malizia, quando si retrattasse con tanta facilitá. Ma, quello che piú importava, metteva sé e la sede apostolica in tutti li pericoli, per liberarsi dai quali Paulo, prencipe prudentissimo, giudicò sicurarsi, e sino alla morte perseverò in quel parere che fosse errore manifesto il rientrarvi. E se bene forse l’animo di molti non fosse mal disposto contra lui, come novo pontefice, nondimeno esser cosa certa che la maggior parte non pretendono essere gravati dal papa, ma dal pontificato; e anco, quanto s’aspetta al particolare, nessun esser certo che in progresso non possi occorrere cosa che li concitasse odie maggiore, eziandio senza sua colpa. Oltre che non tutti gli uomini si muovono per l’odio, ma quelli che sono li piú nocivi lo fanno per avanzare se stessi con la depressione d’altri. Però potersi concludere che restino le stesse ragioni che costrinsero Paulo, per necessitar anco Giulio all’istessa resoluzione. Considerava il travaglio grande sostenuto da Paulo per ventisei mesi per questa causa, e le indegnitá che li convenne sopportare, e la deteriorazione dell’autoritá pontificia, non tanto in Germania, ma in Italia ancora; e che se a Paulo, fermato nel pontificato tanti anni e stimato da tutti, fu causa di diminuzione, tanto piú sarebbe a lui novo pontefice, non avendo ancora fatte le intelligenze e aderenze necessarie per pigliar impresa di contrastare. Se a lui avvenisse una protestazione a dosso, o vero un decreto come l’Interim, sarebbe la sua autoritá vilipesa da tutti. Che non occorreva metter in conto l’opera da sé fatta nel trasferir il concilio, e la costanza nel difendere la traslazione, perché con la mutazione della fortuna ha mutato anco tutto il consequente quella, e le azioni di Gioanni Maria di Monte cardinale non pertenere a Giulio papa, e quelle cose che davano riputazione a quello non esser per darla a questo. Allora conveniva operar come operò, per mostrarsi fedele servitore del patrone; ora, essendo senza patrone, cessar a fatto il rispetto di mostrar costanza in ben servire; ed esserne successo un altro, che ricerca prudenza in accomodarsi. Considerava quanto avesse dello specioso la richiesta di Cesare; poiché si trattava di ridur Germania, quanto scandolo averebbe dato il non udirla! Le cause che incitavano a far il concilio esser in aperto e note a tutti; quelle che dissuadevano, esser in occulto e note a pochissimi. Finalmente il giuramento dato e repetito dover esser stimato; e se ben obbligava a proseguir il concilio senza prescrizione di luoco, era però certo che contra il voler di Cesare imperatore, re di Spagna e di Napoli, principe dei Paesi Bassi e con altre aderenze in Italia, era impossibile far concilio generale; tanto che l’istesso era negar di rimetterlo in Trento, come non voler proseguirlo. In questa parte inclinava piú, come piú conforme alla natura sua, avida piú di fuggir le incomoditá presenti che evitar li pericoli futuri. Eleggendo questa, si liberava dalla molestia che l’imperator li averebbe dato: quanto alli pericoli che il concilio apportava, incominciò a stimarli meno. Pensava non esser l’istessa fortuna di Cesare allora, che giá doi anni: allora era stimato, aspettando la vittoria, e poi ottenuta; ora si vede che quella lí è piú di peso e difficultá. Tiene doi principi pregioni, come il lupo per l’orecchie; le cittá di Germania hanno aperti spiriti di rebellione; li ecclesiastici sono sazi di quella dominazione; esservi anco li domestici mali per il figlio e il fratello e il nepote che aspirano all’imperio, negozio che li dará forse travaglio sopra le sue forze. In fine fece conclusione secondo il suo naturale: «Usciamo della difficoltá presente con speranza che la nostra buona fortuna non ci abbandonerá».
E ritenendo in sé la risoluzione, deputò una congregazione de cardinali e altri prelati, per la maggior parte imperiali, acciò capitassero alla risoluzione da lui presa, frappostovi pochi suoi confidenti per tener regolato il negozio secondo l’intenzione sua: alla quale propose la richiesta dell’imperatore, ordinando che senza alcun rispetto ciascun dicesse quello che li pareva esser servizio di Dio e della sede apostolica; e quando si reputasse bene condescendervi, pensasse anco la maniera di farlo con dignitá, sicurezza e frutto. La congregazione, dopo che ebbe piú volte consultato, riferí al pontefice che giudicava necessario proseguir il concilio, perché cosí s’era giurato nel conclave e da Sua Santitá dopo l’assonzione, e per levar lo scandolo dal mondo, che senza dubbio sarebbe grandissimo, non lo facendo. Il proseguirlo aver due modi: uno continuandolo in Bologna, l’altro rimettendolo in Trento. Il continuarlo in Bologna non si poteva fare, avendo Paulo avocato a sé la cognizione della translazione e inibito il proceder piú oltre. Se Sua Santitá non sentenziava prima che la traslazione fosse stata valida, non si poteva camminar inanzi in quella cittá: il che quando avesse voluto fare, averebbe dato legittimo pretesto d’esser allegato per sospetto, essendo noto che fu opera sua come di primo legato e presidente. Per il che restava solo l’altra via di rimetterlo in Trento: con che si levava anco l’occasione alla Germania di recalcitrare, e si sodisfaceva l’imperatore, che era punto assai essenziale. Questo conseglio, portato al papa, fu da lui approvato, onde si passò al rimanente.
E prima fu concluso che era necessario aver il consenso e assistenza del re di Francia e l’intervento dei prelati del suo regno, senza le qual cose sarebbe molto debole la riputazione del concilio, e s’incorrerebbe il pericolo di perder la Francia, che si ha, per acquistare la Germania perduta; e secondo l’apologo, lasciar cader il corpo per acquistar l’ombra. Pareva difficile poter indurvi quel re e levarli li sospetti, celebrandosi in luoco soggetto a Cesare e vicino alle sue armi. Ma esaminando che sospetti potessero esser questi, altro non si trovò, se non che il concilio non deliberasse qualche cosa pregiudiciale al governo di quel regno o contra li privilegi di quella corona, o contra l’immunitá della chiesa gallicana; di che quando fosse assicurato, non si poteva dubitare che, per l’obbligo ereditario di protegger e favorire la sede apostolica, non fosse per assistere e mandar li prelati suoi.
La seconda difficoltá nasceva perché li prelati italiani, che sono per il piú poveri, aborriscono quel luoco, non potendo sostener le spese; e la camera apostolica esausta malamente può sovvenirli quanto fa bisogno, oltre le spese per mantener li legati e ufficiali del concilio e altri straordinari. Al che pensato e ripensato, non seppero trovar rimedio di far concilio senza spendere, ed esser necessario bever questo calice: ben si poteva troncar le superfluitá, ispedendo il concilio presto e non dimorandovi se non quanto fosse necessario. La terza difficoltá nacque se li protestanti avessero voluto rivocar in dubbio le cose determinate: nel che tutta la congregazione prontamente risolse che conveniva farsi chiaramente intendere che si dovessero aver per indubitate, e non permettere che fossero poste in disputa, e di ciò dechiararsi inanzi il concilio e non aspettar a farsi intender allora. La quarta e piú importante di tutte era l’autoritá della sede apostolica cosí nel concilio come fuori e sopra d’esso; la qual certa cosa era che non solo li protestanti impugnavano, ma molti principi averebbono voluto restringere; e tra li vescovi non mancava buon numero che pensavano a moderarla: che era stata potissima causa perché li pontefici passati non s’avevano lasciato indurre a concilio; e Paulo, che vi si era trasportato, se n’era avveduto in fine, e con la transazione aveva rimediato. Questo pericolo era da tutti veduto, né alcun sapeva trovarci scappatorio, se non dicendo che Dio, qual aveva fondato la chiesa romana e postala sopra tutte le altre, averebbe dissipato ogni conseglio: il che da alcuni creduto per simplicitá, da altri per interesse, e da alcuni detto solo per non saper che altro dire, non pareva che bastasse.
Ma il Cardinal Crescenzio, fatto prima gran fondamento sopra questa confidenza, aggionse non esservi alcun negozio umano dove non convenga correr qualche pericolo; la guerra dimostrarlo, che è l’apice delle umane azioni, quale mai s’intraprende, sia pur con quanta sicurezza della vittoria si vuole, che non resti pericolo di una perdita e destruzione totale; né alcun negozio s’intraprende con tanta certezza di buon esito, che non possi, per cause incognite o stimate leggieri, precipitare in grand’inconvenienti. Ma chi è necessitato, per evitar altri mali, a condescender a qualche deliberazione, non debbe averci risguardo. Le cose esser in un stato che, se il concilio non si fa, vi è maggior pericolo che il mondo e li principi scandaliggiati s’alienino dal pontefice e facciano piú de facto, che nel concilio con dispute e con decreti. Il pericolo si ha da correre in ogni modo; meglio è pigliar il partito piú onorevole e meno pericoloso. Ma esservi ben anco diverse provvisioni per divertirlo: prima con tener li padri in concilio occupati quanto piú sará possibile in altre materie ed esercitargli, sí che non abbiano tempo di pensare a questa; tenersi amorevoli molti, e li italiani massime, con gli uffici, con le speranze e con li modi altre volte usati; tener anco contrappesati li principi, nutrendo qualche differenze d’interessi tra loro, acciocché non possino facilmente trattar un’impresa tal in comune, e trattandola uno, l’altro abbia interesse d’opporsegli; e altri rimedi occorrono sul fatto all’uomo prudente, con quali porta inanzi li negozi e li fa svanire. Fu approvato da tutti questo parere, e risoluto che non si dovesse mostrar d’aver questo timore; solo accennar all’imperatore che si prevede, ma insieme mostrarli che non si dubita, ma si ha preparato il rimedio.
Maturata questa consultazione, e risoluto di rimetter il concilio in Trento, il papa ne diede conto al cardinale di Ferrara e all’ambasciator francese; e spedí anco corriero espresso al re di Francia a significarli il suo pensiero, soggiongendo che gli averebbe per questo mandato un noncio per darli conto piú particolare delle ragioni che l’avevano mosso. E in fine di giugno spedi tutt’in un tempo due nonci, Sebastiano Pighino arcivescovo sipontino all’imperatore, e il Triulzio vescovo di Tolone al re di Francia. A questi diede instruzione di parlare conforme alle deliberazioni prese nella congregazione. Al Triulzio ordinò che andasse per le poste, acciò potesse dar presto avviso della mente del re, la quale voleva aspettar di sapere, prima che passar piú inanzi. Li diede instruzione di dar conto particolare delle cause perché deliberava ritornar il concilio in Trento: l’essersi la Germania sottomessa; il farne instanza l’imperatore; il non potersi continuare in Bologna per la causa sopra narrata; e acciò le cose de’ protestanti non si fossero accomodate in qualche maniera pregiudiciale, versando la colpa sopra il papa. Ma che il primo e precipuo fondamento lo faceva sopra l’assistenzia di Sua Maestá cristianissima e l’intervento delli prelati del suo regno: le qual cose sperava ottenere, per esser Sua Maestá protettor della fede e imitator de’ suoi maggiori, mai discostatisi dal parere e consegli de’ pontefici. Che nel concilio s’attenderebbe alla dechiarazione e purificazione delli dogmi e riformazione delli costumi, né si tratterebbe di cosa pertinente alli stati e domini, né a privilegi particolari della corona di Francia. Che alla richiesta dell’imperatore di voler intendere se il pontefice era per voler proseguir il concilio di Trento o no, il pontefice aveva risposto di si, con le condizioni discusse nella congregazione, le quali ordinava al nuncio che comunicasse tutte alla Maestá sua; della quale desiderava intender quanto prima qual fosse la mente, sperando di doverla trovar conforme alla pietá di Sua Maestá e all’amore che porta ad esso pontefice ed alla confidenzia che ha in lui. Diede anco carico al noncio di comunicar tutta la sua instruzione col Cardinal di Ghisa, e congionto con lui, o come meglio ad esso paresse, esporla al re e a chi facesse bisogno.
All’altro noncio diede simile instruzione; in particolare di dir all’imperator che il pontefice mostrava con effetti l’osservanza di quanto promesse a don Pietro di Toledo, cioè di procedere con Sua Maestá puramente, apertamente e senza artificio, e di rappresentarli la prontezza dell’animo in proseguir il concilio a gloria di Dio, per scarico della conscienzia propria e per il comodo che ne può risultare a Sua Maestá e all’Imperio. E per rispondere al moto dato dall’imperatore, cioè che si lasciasse intendere delle capitulazioni che ricerca, gli dicesse che mai sognò di far patti né capitulazioni per proseguir il concilio, ma ben di far alcune considerazioni necessarie, le quali anco dava carico al noncio di esponer alla Maestá sua. Ed erano quattro.
La prima, che era necessaria l’assistenza del re cristianissimo e l’intervenzione dei prelati del suo regno, senza le qual cose il concilio averebbe poca riputazione, e si potrebbe temere di far nascer un concilio nazionale o perdere la Francia. Non doversi ingannar se stessi che, sí come il luoco de Trento è molto confidente a Sua Maestá cesarea, cosí è troppo diffidente alla cristianissima; e però doversi trovar modo di assecurarla. Che comunicasse all’imperator il modo trovato, il quale quando non bastasse, sarebbe necessario che Sua Maestá ci aggiongesse qualche altra cosa. La seconda considerazione, per le spese che converrá fare alla camera apostolica, esausta e carica de debiti, per li legati e per altri straordinari che porta seco il concilio, e parimente per le spese che li prelati italiani poveri non possono sostener in quel luoco; per il che converrá calcular bene il tempo, cosí dell’incominciare, come del procedere inanzi, sí che non si spendi un’ora in vano: altramente la sede apostolica non potrá supplire al dispendio, né si potrá ovviare che li prelati italiani non diano nella impazienza, come l’esperienzia per il passato ha insegnato. Oltra che non ci è la dignitá della sede apostolica tener li suoi legati oziosi e su le áncore, e senza far frutto. Per il che esser necessario che, inanzi si venghi all’atto, Sua Maestá si assicuri ben della intenzione e obedienzia cosí de’ cattolici di Germania, come de’ protestanti, stabilendo le cose di novo nella dieta, e facendo espedir li mandati autentici delle terre e delli principi, obligandosi Sua Maestá e tutta la dieta insieme all’esecuzione dei decreti del concilio, acciò la fatica, spesa e opera non riesca vana e derisa, e anco per levar con questo ogni speranza a chi pensasse dar disturbo. Che in terzo luoco consideri Sua Maestá esser necessaria una dechiarazione che li decreti giá fatti in Trento in materia di fede, e quelli delli altri concili passati, non possino esser in alcun modo revocati in dubbio, né li protestanti sopra quelli possino dimandar d’esser uditi. Considerasse in fine all’imperatore che il pontefice confidava e teniva per certa la buona volontá di Sua Maestá verso lui esser reciproca, e sí come egli prontamente condescendeva a favorir le cose di Sua Maestá e del suo Imperio con metter il concilio in luoco tanto a suo proposito, cosí ella desidera che la sinceritá e lealtá di lui non abbiano a riportarli carico. Ma se alcuno tentasse altramente o con cavillazioni o con calunnie, Sua Maestá non averá da maravigliarsi se egli userá li remedi che occorreranno per defension dell’autoritá data da Dio immediatamente a lui e alla sede apostolica, cosí in concilio, come fuori.
Stimò il pontefice utile per le cose sue che la risoluzione presa fosse intieramente saputa in Italia e in Germania, e fece che Giulio Cannano suo secretario, mostrando di favorir alcuni cortegiani suoi amici, comunicasse loro, con obbligo di secreto, l’instruzioni sopraddette, col qual modo furono sparse per tutto. Di Francia ebbe il papa dal novo noncio presta risposta, perché quel re, sapendo le cause che il pontefice aveva di fidarsi poco dell’imperatore per le cose passate, e stimando che grande fosse l’inclinazione sua alla parte francese, fece gran dimostrazione di aggradire il nuncio e l’ufficio, offerí al pontefice tutti li suoi favori, e promesse l’assistenza al concilio e la missione delli prelati del suo regno, con promessa d’ogni favor e protezione per mantenimento dell’autoritá pontificia.
L’imperatore, udita l’esposizione del sipontino, e deliberato maturamente sopra di quella, rispose lodando l’ingenuitá e prudenza del pontefice che, conoscendo la pubblica necessitá di far il concilio in Trento, avesse trovato modo ispediente di rimetterlo senza far andar innanzi la causa della translazione, cosa aromatica, di molta difficoltá e di nessuna utilitá. Aggionse che le quattro considerazioni erano tutte importanti e ragionevolmente proposte da Sua Santitá. Che quanto alle cose di Francia, non solo lodava quanto ella aveva deliberato, ma si offeriva ancora di coadiuvare e dar ogni possibil sicurtá a quel re. Che era molto ragionevole lo scampar le spese superflue e non lasciar il concilio aperto e ocioso; che giá l’anno inanzi s’era fatto il decreto in Augusta che la Germania tutta, eziandio li protestanti, si sottomettessero; che di quello averebbe dato copia al nuncio, e nella dieta d’allora l’averebbe fatto confermare. Che non li pareva tempo di trattar al presente che le cose giá decise in Trento non siano avocate in dubbio, perché ciò s’averebbe fatto piú opportunamente in quella cittá, quando il concilio fosse stato ridotto. E per quel che tocca l’autoritá di Sua Santitá e della sede apostolica, egli, sí come nelli tempi passati n’era stato protettore, cosí voleva esser all’avvenire: deliberava di mantenerla con tutte le sue forze, e con la propria vita, se fosse stato bisogno. Che non poteva prometter a Sua Santitá che in concilio non fosse da qualche inquieto detto o trattato; ma li dava ben parola, quando ciò avvenisse, di opporsi talmente, che ella dovesse lodarsi dell’opera sua.
Era Cesare, come di sopra s’è detto, in Augusta per far la dieta; la qual, se ben non era circondata da tante arme come fu la precedente, nondimeno tuttavia era armata. Propose di proseguir il concilio di Trento e di servar l’Interim constituito nella dieta precedente, e di trovar modo alla restituzione delli beni ecclesiastici e alla redintegrazione della giurisdizione. Alli principi cattolici piacque che il concilio si seguitasse; ma li ambasciatori di alcuni principi protestanti non consentirono, se non con queste condizioni: che le cose giá determinate per inanzi in Trento fossero reesaminate; che li teologi della confessione augustana non solo fossero uditi, ma avessero anco voto decisivo; che il pontefice non fosse presidente, ma si sottomettesse esso ancora al concilio e rilasciasse il giuramento alli vescovi, acciò potessero parlar liberamente. Si lamentò l’imperator con li protestanti che il suo decreto della interreligione non fosse da loro ubidito; e con li cattolici, che la reforma dell’ordine ecclesiastico non fosse esequita. Si scusarono questi, dicendo parte che bisognava camminar lentamente per fuggir le dissensioni, e parte con dire che li esenti, pretendendo privilegi, non volevano ubidire. Li protestanti davano la causa al populo, il quale trattandosi della conscienzia si ammutinava, e non si poteva sforzare. Di tutti questi particolari l’imperatore diede conto al noncio, narrato non solo il consenso de’ cattolici e del numero maggior de’ protestanti, ma anco la limitazione proposta da quegli altri, acciò, se per altra via li fosse andato alle orecchie, non facesse cattivo effetto; soggiongendo però non aver voluto che fosse posta negli atti, perché da quei principi aveva avuto parola che non si sarebbono scostati dal suo volere: e però poteva affermar al pontefice che tutta Germania si contentava del concilio. Trattò poi piú strettamente Cesare con li principali ecclesiastici, proponendo che si dasse principio inanzi Pasca e che vi andassero in persona; e avutane promessa dalli elettori, sollecitò il pontefice di venir all’atto della convocazione per Pasca, o almeno immediate dopo, poiché aveva per stabilito il consenso di tutta Germania. Il qual per fermar meglio ancora, pregava Sua Santitá che, formata la bolla, prima che pubblicarla mandasse la minuta, acciò con quella occasione egli potesse (fattala veder a tutti nel recesso) ordinar il decreto e operare che fosse da tutti ricevuto.
Al pontefice pareva che niente fosse concluso delle cose da lui proposte, mentre non era deciso che li decreti fatti fossero ricevuti: non voleva che nel bel principio del concilio si mettesse questo in disputa, perché era chiaro l’esito, cioè che si consumarebbe molto tempo senza niente fare, e in fine si dissolverebbe senza conclusione. Era cosa chiara da veder che la disputa generale, se si dovevano ricevere, tirava una particolare di ciascuno, e che egli non averebbe potuto interporsi, ché sarebbe stato allegato per sospetto, come quello che fu presidente e autore principale. L’insister maggiormente con l’imperatore che questo ponto fosse deciso, era darli disgusto grande e metterlo in difficoltá insuperabili. Fu consegnato che senz’altro dire avesse il ponto per deciso, e nella bolla sua presupponesse che li decreti fatti fossero da tutti accettati; perché andando la bolla alla dieta con quel tenore, o li todeschi se ne contentaranno, e cosí egli averá l’intento, o non l’accettaranno, e in quel caso la disputa cominciará nella dieta, ed egli sará uscito di pensiero. Li parve buono il conseglio: il qual seguendo, ordinò la bolla, e per compiacer l’imperatore in parte, la mandò non in minuta, parendoli esser contra la dignitá sua, ma formata, datata e bollata, non però pubblicata: il giorno del dato fu sotto il 15 novembre.
In quella diceva che, per levar le discordie della religione di Germania, essendo ispediente e opportuno, come anco l’imperator li aveva significato, rimetter in Trento il concilio generale, giá convocato da Paulo III, principiato, ordinato e proseguito da esso, allora cardinale e presidente, e in quello statuiti e pubblicati molti decreti della fede e dei costumi, perciò egli, al qual s’aspetta congregar e indrizzar li concili generali a fine dell’aumento della religione ortodossa, e restituir la tranquillitá alla Germania, che per li tempi passati non ha ceduto ad altra provincia in ubidir e riverir li pontefici vicari di Cristo, sperando che anco li re e principi lo favoriranno e assisteranno, esorta e ammonisce li patriarchi, arcivescovi, vescovi, abbati e altri, che per legge, consuetudine o privilegio debbono intervenir nei concili, che il 1° di maggio debbino ritrovarsi in Trento. Per il qual giorno ha ordinato, per autoritá apostolica e con consenso dei cardinali, che il concilio sia reassonto nello stato in quale si ritrovava, e proseguito; dove egli invierá li suoi legati, per i quali presederá al concilio, se non potrá trovarvisi personalmente, non ostante qualunque translazione o suspensione o altra cosa che vi fosse in contrario; e specialmente quelle cose che Paulo III, nella bolla della convocazione e altre spettanti al concilio, ordinò che non ostassero: le quali bolle egli vuole che restino in vigore con tutte le sue clausole e decreti, confermandole e renovandole quanto faccia di bisogno.
Li ministri imperiali e altri cattolici zelanti, a chi Cesare la comunicò, giudicavano che quel tenore dovesse esacerbar li protestanti e darli occasione di non accettar quel concilio, nel quale il papa dechiarava non tanto di volervi presedere, ma anco di volerlo indrizzare; oltre che il dire di resumerlo e proseguirlo era metterli in troppo suspezioni, e il parlar cosí magnificamente della autoritá sua era un irritarli. Consegnarono l’imperatore di far opera che il pontefice moderasse la bolla e la riducesse in forma che non dasse occasione a’ protestanti di alienarsi maggiormente. Ne trattò l’imperatore col noncio, e scrisse al suo ambasciatore che ne parlasse al papa, pregando Sua Santitá affettuosamente ed efficacemente e per la caritá cristiana che indolcisse quelle parole, che potevano divertir la Germania da accettar il concilio. Trattò l’ambasciator in Roma con la destrezza spagnola: proponeva che sí come le fiere prese al laccio conviene tirarle al passo mostrando di cederli, né farli veder il fuoco o le armi per non irritarle e ponerle in disperazione che li fa accrescere le forze, cosí bisogna con li protestanti, quali con dolci maniere e con instruirli e ascoltarli conveniva tirarli al concilio, dove, quando saranno ridotti, sará tempo di mostrarli la veritá. Che il farli la sentenzia contra inanzi che udirli, era un esacerbarli e irritarli maggiormente. Il papa con la solita libertá rispose non voler esser insegnato a combattere col gatto serrato, ma volerlo in libertá che possi fuggire; che a punto il ridur protestanti con belle parole al concilio, e lá non corrispondere con li fatti, era far che, entrati in desperazione, pigliassero qualche precipitosa risoluzione; che quello che s’ha da fare, se gli dica pur alla chiara. L’ambasciator secondando diceva che lodava ciò quanto alle cose che era necessario e opportuno dire, non vedersi opportunitá di dire che a lui tocca d’indrizzar li concili. Queste cose esser verissime, ma la veritá non aver questo privilegio d’esser detta in ogni tempo e in ogni luoco; esser ben tacerne alcuna, quando il dirla sia per far cattivo effetto. Si raccordasse che, per il duro parlare di Leone X e del Cardinal Gaetano suo legato, è acceso il fuoco che vede ardere, il quale con una dolce parola si poteva estinguere; che li seguenti pontefici, e massime Clemente e Paulo, principi savi, molte volte se n’erano doluti; se adesso con destri modi si può acquistare la Germania, perché con le amarezze separarla maggiormente?
Il papa quasi sdegnato diceva che s’ha da predicar sempre apertamente e inculcare quello che Cristo ha insegnato; che Sua divina Maestá lo ha fatto suo vicario, capo della Chiesa e principal lucerna del mondo: che questa veritá era di quelle che bisognava dire, che sempre bisognava aver in bocca in ogni tempo e in ogni luoco e, secondo san Paolo, «opportunamente» e «importunamente»; che il far altramente sarebbe, contra il precetto di Cristo, porre sotto il staio la lucerna che si debbe alzar nel candeliero; che non era dignitá della sede apostolica procedere con artifici e dissimulazioni, ma parlar all’aperta. L’ambasciator cosí in dolcezza di ragionamento disse anzi parerli che l’ascondere la sferza e il mostrarsi benigno e condescendere a tutti era il vero ufficio apostolico; aver sentito legger in san Paulo «che essendo libero s’era fatto servo di tutti per guadagnar tutti: con li giudei giudeo, con li gentili gentile, con li deboli debole, per guadagnar anco quelli»: e che quella era la via di piantar l’Evangelio. In fine il pontefice, per non entrar in disputa, si ritirò a dire che la bolla era formata secondo lo stile di cancellaria, quale non si poteva alterare; che egli era alieno dalle novitá; che conveniva seguire le vestigia de’ precessori: usando la solita forma, nessun poteva attribuir a lui quello che fosse riuscito; se ne avesse inventato una nova, tutto il male sarebbe attribuito a lui. L’ambasciator, per dargli tempo di meglio pensare, concluse di non volere ricever la risposta per una negativa, ma confidare che Sua Santitá averebbe con affetto paterno compatito alla Germania, disegnando di lasciar passar le feste di Natale, perché allora era mezzo decembre, e poi di novo darli un altro assalto.
Ma il papa, risoluto di non mutare un iota, dicendo spesso: «Voglio prevenire e non esser prevenuto», e di levarsi ogni molestia di ragionamento, fece il dí di san Gioanni un breve, nel qual, narrato sommariamente il contenuto della bolla sua sopraddetta e preso pretesto che, per non esser pubblicata, alcun potrebbe pretender ignoranza, ordinava che cosí quel breve come la bolla fossero lette, pubblicate e affisse nelle basiliche di San Pietro e San Gioanni Laterano, con intenzione di mandarne esemplar stampato alli arcivescovi, acciò da loro fossero intimate alli vescovi e altri prelati. Fu levato il modo di parlarne piú col papa all’ambasciatore, il quale immediate spedí corrier espresso a significar il tutto all’imperatore. Ed egli, vedendo la risoluzione del papa, e pensato come rimediare, fece legger la bolla nel pubblico consesso. La qual veduta, produsse a punto l’effetto che egli aveva preveduto, cioè che sarebbe revocata la parola data dai protestanti di rimettersi, e da’ cattolici di andare al concilio. Alli cattolici dispiacque per il duro modo e intrattabile, a’ protestanti per le cose dette. Queste erano: pertener a lui non solo congregar, ma indrizzar anco e governar li concili; che avesse risoluto di continuare e proseguire le cose incominciate, il che levava il reesaminar le giá trattate; che fuor di luoco e senza occasione dicesse la Germania aver riconosciuto li pontefici per vicari di Cristo; che si avesse dechiarato presidente del concilio e che non chiamasse se non ecclesiastici che li obedivano, e confermasse con tanta ampiezza di parole affettatamente la bolla della convocazione di Paulo. Dicevano protestanti che vanamente si farebbe il concilio con quei fondamenti; che il sottomettersi a quelli era far contra Dio e contra la conscienzia. Li cattolici dicevano che, quando non vi era speranza di ridur li protestanti, vanamente si pigliava la fatica e la spesa. Cesare temperò l’ardire d’ambidua le parti, con dire che il concilio era generale di tutte le nazioni cristiane; che obedendo tutte le altre al pontefice, egli aveva formato la convocazione come conveniva a quelle; che per quanto s’aspetta alla Germania, rimettessero il tutto alla cura sua, che sapeva come trattare; lasciassero convenir le altre nazioni; che egli sarebbe andato personalmente, se non lá, almeno in luoco prossimo, e averebbe operato non con parole ma con fatti che le cose passassero per li debiti termini; non avessero risguardo a quello che il papa diceva, ma a quello che egli prometteva sopra la parola imperiale e regia.
Con questa maniera l’imperator quietò gli animi, e a’ 13 febbraro si fece il recesso pubblicando il decreto, il tenor del quale fu: che essendo proposto nella precedente dieta non esservi modo di componer le discordie di Germania per causa della religione, se non per mezzo d’un pio e libero concilio generale, tutti gli ordini dell’Imperio hanno confirmato la proposizione e deliberato di accettarlo, approvarlo e sottomettersegli; la qual cosa non avendosi eseguito ancora, nella presente dieta è stata fatta la medesima proposizione e deliberazione. Per il che Cesare aveva operato e finalmente impetrato dal papa che rimettesse il concilio di Trento al 1° di maggio dell’anno venturo; il che avendo il pontefice fatto, ed essendo la convocazione stata letta e proposta nella dieta, è cosa giusta che si resti nella medesima risoluzione di aspettare con la debita obedienzia il concilio e intervenir in quello, al quale tutti li principi cristiani assisteranno; ed esso Cesare, come avvocato della santa Chiesa e defensor delli concili, opererá tutto quello che si conviene al suo carico d’imperatore, si come ha promesso. E pertanto notifica a tutti esser sua volontá che per l’autoritá e potestá imperiale sia sicuro ciascuno che anderá al concilio di poter liberamente andare, stare e ritornare, e proponer tutto quello che in sua conscienzia giudicherá necessario; e perciò stará nei confini dell’Imperio e in luoco piú prossimo che si potrá; e ammonisce li elettori, principi e li stati dell’Imperio, massime li ecclesiastici e quelli che hanno innovato nella religione, che si preparino per ritrovarsi lá ben instrutti, acciò non possino aver alcuna scusa, dovendo egli aver cura che tutto passi legittimamente e con ordine, e operare che si tratti e difinisca ogni cosa pia e cristianamente, conforme alla sacra Scrittura e dottrina dei Padri. E per quel che s’aspetta alla transgressione delli decreti della interreligione e riforma, fatto certo che era impossibile superar le difficoltá, e che quanto piú si operava tanto le cose piú peggioravano, acciò maggior confusione non nascesse, avocò a sé ogni cognizione delle contravvenzioni passate, incaricando però li principi e ordini dell’Imperio alla osservanza in futuro.
Il decreto, veduto per il mondo, fu stimato, come era, un contrapposto alla bolla del papa, a punto in tutte le parti. Questo vuole indrizzar li concili, quel vuole aver cura che tutto si faccia con ordine e giuridicamente; questo vuol presedervi, e quello vuol che si decidi secondo la Scrittura e Padri; questo vuol continuare, quello vuol che ognun possi propor secondo la conscienzia. In somma la corte non poteva digerir questo affronto, e si doleva che fosse un’altra convocazione del concilio; ma il papa con la solita piacevolezza diceva: «L’imperatore m’ha reso la pubblicazione della bolla fatta senza di lui».
Entrato l’anno 1551, applicando il pontefice l’animo al concilio intimato, ebbe due principal mire: di mandar persone confidenti a presedervi, e di far minor spesa che fosse possibile. A fuggir la spesa consegliava che non si mandasse piú d’un legato. Ma era con troppo carico della persona di quello; prima, il non aver appresso persona con li medesimi interessi, di che potersi confidare pienamente, e di tutto quello che si facesse dover esser stimato unico autore; per tutti li quali rispetti era necessario che il carico fosse compartito in piú persone. Trovò il papa via di mezzo, mandando un legato con doi nonci con autoritá pari, pensando anco di dover esser meglio servito, poiché le speranze fanno operar con diligenza maggiore. Voltato l’occhio sopra tutti li cardinali, non trovò il piú confidente suo, e insieme di valore, che Marcello Crescenzio cardinale di San Marcello: a questo aggionse per nonci Sebastiano Pighino arcivescovo sipontino, e Alovisio Lippomano vescovo di Verona: in quello elesse una stretta confidenza tenuta con lui inanzi il ponteficato, in questo una fama di pietá, bontá e lealtá grande. Con tutti tre avendo tenuto molti secreti consegli, e apertogli il sincero del suo core, e instruttigli intieramente, diede un ampio mandato di intervenir per nome suo al concilio. La continenza del quale fu: al padre di fameglia appartiene sostituir altri a far quello che comodamente non può esso medesimo; per il che, avendo ridotto in Trento il concilio generale intimato da Paulo, sperando che li re e principi averebbono prestato il loro favore e assistenza, citò li prelati soliti ad intervenire per il 1° di maggio, per riassumere il concilio nello stato che si ritrovava. Ma per la sua grave etá e altri impedimenti non potendo, secondo il suo desiderio, trovarvisi personalmente presente, non volendo che la sua assenza porti impedimento, constituisce Marcello, cardinale zelante, prudente e saputo, per legato; e il sipontino e veronese, conspicui in scienza ed esperienza, nonci, con special mandato con le clausule oppurtune, mandandoli come angeli di pace, dando loro autoritá di reassumer, indrizzar e proseguir il concilio e far tutte le altre cose necessarie e opportune, secondo il tenore delle lettere di convocazione sue e del precessore.
L’imperatore ancora, a chi maggiormente premeva il negozio del concilio e l’avea per unico mezzo di farsi assoluto patrone di Germania, mandò a tutti gli ordini dell’Imperio protestanti il salvocondotto in amplissima forma per loro medesimi, o vero per gli ambasciatori loro e per li teologi che inviassero.
Ma mentre che si gettano questi fondamenti in Roma e in Augusta per fabbricarvi sopra il concilio di Trento, altrove erano ordite tele, che poi tesciute fecero grand’ombra alla dignitá e autoritá di quella sinodo; e fabbricate macchine che lo conquassorono e disciolsero. Il pontefice, immediate dopo la sua assonzione, per osservanza di quello che aveva promesso in conclavi, restituí Parma ad Ottavio Farnese, la quale Paulo aveva tirato in mano sua per nome della Chiesa, e li assegnò anco due mila scudi al mese per defenderla. Ottavio, per l’inimicizia di Ferrante Gonzaga viceduca di Milano, e per molti indici che aveva che l’imperatore disegnasse impatronirsi anco di Parma, avendoli anco il pontefice levata la provvisione assegnata di due mila scudi, dubitando di non poter defendere la cittá con le sue forze, trattò col pontefice per mezzo del Cardinal suo fratello, che li dasse aiuto, o vero li concedesse di provvedersi con la protezione di altro principe sufficiente di sostentarlo contra Cesare. Il pontefice, senza piú considerarvi, rispose che facesse il fatto suo al meglio che sapeva; per il che Ottavio, adoperando per mezzo Orazio suo fratello, genero del re di Francia, si mise sotto la protezione di quello, e recevette guarnigione francese nella cittá. La qual cosa dispiacendo a Cesare suo suocero, persuase il pontefice che fosse contra la dignitá di lui, che era di quella cittá e di quel duca principe supremo. Per il che il papa promulgò contra il duca un grave editto, citandolo a Roma e dechiarandolo rebelle quando non comparisse, e dimandando aiuto all’imperatore contra di lui: il quale si dechiarò di approvare la causa del pontefice, e con le arme defenderla: onde fu fatto apertura a manifesta guerra tra l’imperator e il re di Francia, e a disgusti grandi dell’istesso re col pontefice. E in Sassonia sopra l’Albi fu tra sassoni e Brandeburg dato principio a ragionamenti d’una lega contra Cesare, per impedirlo dal soggiogarsi totalmente la Germania, come a suo luoco si dirá.
Non ostanti queste ed altre semenze di guerra, che in Italia nel principio d’aprile si vedevano giá pullulare, volle il pontefice che il legato e nonci andassero a Trento, e diede loro commissione che il 1° maggio, giorno statuito, aprissero il concilio con quel numero che vi era, ed eziandio senza numero alcuno, con l’esempio delli nonci di Martino V, che apersero il concilio di Pavia soli, senza intervento di alcun prelato.