Istoria del Concilio tridentino/Libro terzo/Capitolo II
Questo testo è completo. |
◄ | Libro terzo - Capitolo I | Libro terzo - Capitolo III | ► |
CAPITOLO II
(settembre 1547-maggio 1549).
[Vane insistenze del papa presso l’imperatore per la restituzione di Piacenza alla Chiesa. — Tentativi per una lega con la Francia e Venezia. — Interim imperiale di Augusta, aspramente criticato a Roma. — Giudizio datone dal papa. — Censure e riserve del legato cardinale Sfondrato. — Proemio aggiunto all’Interim e sua solenne presentazione alla dieta. — L’imperatore promulga pure una Formula reformationis, su richiesta dei cattolici, e domanda al papa dei legati per applicarla in Germania. — Invio di tre legati, con bolla di concessioni e indulti. — Ostilitá dei cattolici e dei protestanti all’Interim e difficoltá incontrate nell’applicarlo. — Confutazioni scritte di esso. — Contrasti religiosi in Inghilterra durante la minoritá di Edoardo VI. — Difficoltá incontrate in Germania dall’ordinamento di riforma: i sinodi diocesani e provinciali, e varietá di credenze fra gli stessi cattolici. — Contrastata azione dei legati papali nell’applicazione della bolla papale.]
Mentre queste cose si trattano, dopo la morte del duca suo figlio il papa con continue instanze fece dimanda della restituzione di Piacenza e di altri luochi occupati nel Parmegiano, valendosi degl’interessi della figlia dell’imperatore, moglie del duca Ottavio, figlio del defonto. Ma Cesare, che disegnato aveva di tenere quella cittá per il ducato di Milano, e dar ricompensa al genero in altro, portava il tempo inanzi in varie risposte e partiti, sperando che il papa, giá ottuagenario e addolorato per la morte del figlio e tanti altri disgusti, dovesse, lasciando la vita, dar luoco e fine a tutte le controversie. Ma il papa, vedendosi deluso con la dilazione e molestato con le instanze di far ritornar il concilio in Trento, e offeso con la demora continuata delli prelati spagnoli in quella cittá, per far almeno una diversione fece intender a Cesare che li occupatori di Piacenza, terra di soggezione della sede apostolica, erano incorsi nelle censure, alla dechiarazione de quali egli voleva passare, fulminandone anco di nove, se fra un dato termine non gli era restituita. Rescrisse l’imperatore una lettera acerba, avvertendo il papa a non dar fomento alli fuorusciti di Napoli, narrando che tutti li macchinamenti gli erano passati a notizia, che aveva inteso le calonnie eccitate contra di lui, che procurasse scisma, mentre per unire la cristianitá dimanda il concilio in Trento; e quanto a Piacenza, che quella è membro del ducato di Milano, occupata indebitamente dalli pontefici giá pochi anni; e se la Chiesa vi ha ragioni sopra, si mostrino, che non mancará di far quello che sará giusto. Il papa, vedendo che le arme spirituali senza temporali non averebbono fatto effetto, si volse a restringer una lega contra l’imperatore; nel che scontrò molte difficoltá, per non poter indurre li veneziani ad entrarvi, e chiedendo li francesi, attesa la decrepitá del papa, assenso del consistoro e deposito de danari; de’ quali il papa non voleva privarsi, per le molte spese che faceva e per il timore di doverle far maggiori. Per la qual causa anco aveva gravato li sudditi quanto potevano portare, e venduto e impegnato quanto poteva, e ordinato che si spedisse ogni sorte di dispense e grazie a chi componeva in danari per li bisogni della sede apostolica. Per conto del concilio, di non farlo fuori delle terre sue era risolutissimo; e oltra le urgenti ragioni che aveva, s’aggiongeva anco quella della riputazione sua e della sede apostolica, se l’imperatore l’avesse potuto constringere. Ma come potesse indurre l’imperatore e la Germania a consentirvi, non sapeva vederlo. Il lasciarlo andar in niente ora li pareva bene, ora male; piú volte ne tenne proposito con li cardinali, e in consistoro e in privati discorsi. Ma finalmente risolvè di rimettere alla buona ventura quella deliberazione alla quale si conosceva insufficiente, non tanto per le suddette cause, come per altri gravi rispetti che passavano in Germania.
Imperocché Cesare, col ritorno in Augusta del Cardinal di Trento intesa la mente del pontefice, e la risposta che in fine di decembre diede al Mendoza, sopra la quale diede ordine della protestazione, come s’è detto, e stimando che con ricercare la restituzione di Piacenza fosse posto il pontefice a divertire di parlare di concilio, restò certificato in se stesso che, vivendo quello, o non si farebbe, o vero in ogni modo anderebbe la resoluzione in longo; e giudicò necessario, inanzi che disarmarsi, trovar via per metter pace della religione in Germania. Di ciò fu fatta proposizione in dieta; e ordinato che fossero elette persone atte a fare questa buon’opera, fu fatta scelta delli deputati migliori; quali non convenendo tra loro, finalmente fu rimesso il tutto a Cesare. Egli elesse tre: Giulio Flugio, Michiel Sidonio e Gioanni Islebio. Questi dopo longa consultazione composero una formula di religione, la qual anco fu molte volte esaminata, riveduta e mutata, prima da loro stessi, poi da diverse persone dotte, a quali Cesare la diede a vedere; e furono chiamati alcuni ministri de’ protestanti principali per fargliela approbare. Ma tante volte fu alterata e mutata, aggiorna e sminuita, che ben dimostra esser opera di molte persone che tra loro miravano a fini contrari. Finalmente si ridusse nella forma che si vede, e ne mandò il legato a Roma una copia, cosí volendo l’imperatore, per intendere anco la mente del pontefice; consegnando cosí la maggior parte dei prelati, li quali, vedendo le controversie tra l’imperatore e ’l papa, temevano di qualche divisione, e che l’imperatore non levasse l’obedienzia, cosa da loro sommamente abborrita, per l’innata e inveterata opinione delli prelati tedeschi di sostentare la dignitá del pontificato, che sola può contrappesare l’autoritá degl’imperatori, a’ quali essi senza l’appoggio del papa non possono resistere, se, conforme all’uso de’ principi cristiani antichi, vogliono tenergli in officio e levare gli abusi della decantata libertá ecclesiastica.
Il libro conteneva ventisei capi: dello stato dell’uomo nella natura integra; dello stato dell’uomo dopo il peccato; della redenzione per Cristo; della giustificazione; delli frutti di essa; del modo come è ricevuta; della caritá e buone opere; della fiducia della remissione de’ peccati; della Chiesa; delli segni della vera Chiesa; dell’autoritá di essa; delli ministri della Chiesa; del sommo pontefice e delti vescovi; delli sacramenti; del battesmo; della confermazione; della penitenzia; dell’eucaristia; della estrema onzione; dell’ordine; del matrimonio; del sacrificio della messa; della memoria, intercessione e invocazione de’ santi; della memoria de’ morti; della comunione; delle ceremonie e uso de’ sacramenti. Il recitar qui la sostanzia sarebbe cosa prolissa e tediosa, inutile ancora; poiché per poco tempo durarono le consequenze che da questo libro ebbero origine. Egli acquistò il nome Interim, prescrivendo il modo di tener le cose della religione tra tanto che dal concilio generale fossero stabilite.
Andata la copia a Roma, ognuno restò stordito, prima per questo generale, che un principe temporale in un convento secolare metta mano nella religione, e non in un solo articolo, ma in tutte le materie. Li letterati si ricordavano dell’Enotico di Zenone, della Ectesi d’Eraclio, e del Tipo di Costante, e di quante divisioni furono nella Chiesa per causa de constituzioni imperiali in materia di religione; e dicevano che tre nomi erano sino a quel tempo, sotto pretesto d’unitá, infausti nella Chiesa per le divisioni introdotte: a questi si potrá aggiongere per quarto l’Interim di Carlo V. Dubitarono che questa azione dell’imperatore fosse un principio per capitare dove era arrivato Enrico VIII d’Inghilterra, di dechiararsi capo della Chiesa, con tanta maggior ampiezza, quanto non averebbe compreso un’isola, ma Spagna, Italia, Germania e altre regioni adiacenti; che in apparenza mostrava contenere una dottrina cattolica, ma era dalia cattolica lontanissima. Descendendo a particolari, riprendevano che nelle materie del peccato originale, della giustificazione, dei sacramenti, del battesmo e della confermazione non fosse portata la stessa dottrina determinata dal concilio, essendo quella raccolta fatta per tenersi sino al concilio: poiché quanto a quei capi il concilio era giá fatto, che occorreva altro dire, se non che precisamente fosse tenuto? Ma l’aver pubblicato altra dottrina, esser un annichilar il concilio; e l’arte dell’imperator molto sottile dover esser piú che mai sospetta, poiché insieme faceva cosí gagliarda instanza che il concilio fosse tornato a Trento, e levava tutta l’autoritá alle cose giá statuite da quello. Dannavano tutto il corpo di quella dottrina, che contenesse modi di parlare ambigui, che superficialmente considerati ricevevano buon senso, ma internamente erano venenati; che affettatamente in alcune parti stasse sul solo universale, acciò li luterani avessero modo d’interpretarlo per loro. Ma della concupiscenza parlava affatto alla luterana, sí come anco nell’articolo della giustificazione, riponendola nella fiducia sopra le promissioni, e attribuendo troppo, anzi il tutto alla fede. Nel capo delle opere niente parlarsi del merito de condigno, che è il cardine in quella materia. Nel capo della Chiesa non aver presa l’unitá dal capo visibile, che è essenziale, e, quello che è peggio, aver statuito una Chiesa invisibile per la caritá, e poi fatta la stessa visibile; esser un’arteficiosa e occulta maniera di destruggere la ierarchia e stabilir l’opinione luterana; l’aver posto per note della Chiesa la sana dottrina e il legittimo uso de’ sacramenti aver dato modo a tutte le sette di ostinarsi a tenersi per Chiesa, taciuta la vera marca, che è l’obedienzia al pontefice romano. Non essere comportabile d’aver posto il sommo pontefice in remedium schismatis, e li vescovi iure divino. Che il sacramento della penitenza era fatto luteranissimo, quando si diceva che, credendo di ricevere con questo sacramento quello che Cristo ha promesso, gli avviene come crede. Del sacrificio ancora essere taciuto il principale, che egli è espiativo e propiziatorio per li vivi e per li morti. Quel che dicevano poi dell’aver concesso le mogli a’ sacerdoti e il calice nella comunione de’ laici, ognuno lo può da sé comprendere, ché con questi doi abusi era destrutta tutta la fede cattolica. Era una la voce di tutta la corte, che si trattava de summa rerum, che erano crollati li fondamenti della Chiesa, che bisognava metterci tutte le forze, eccitare tutti li principi, mandar alli vescovi di tutte le nazioni, e urtar in ogni maniera questo principio, dal qual indubitatamente era necessario che ne seguisse non la destruzione della chiesa romana (essendo ciò impossibile), ma bene una deformazione e deturpazione la maggiore che mai.
Ma il pontefice, vecchio sensatissimo, che piú di tutti vedeva con la finezza del suo giudicio, penetrò immediate sino al fondo, e giudicò l’impresa salutifera per sé, e per l’imperatore perniciosa. Si maravegliò molto della prudenza d’un tanto principe e del conseglio suo, che per una vittoria avuta si pensasse essere diventato arbitro del genere umano, e presuppostosi di potere solo contrastare con ambe le parti. Potere un principe, aderendo ad una, opprimer l’altra; ma combattere con tutte due esser cosa ardita e vana. Previde che quella dottrina piú dispiacerebbe generalmente alli cattolici che alla corte, e piú a’ protestanti ancora; e che da ognuno sarebbe impugnata, da nessuno difesa; e non esservi bisogno che egli travagliasse: averebbono operato per lui gl’inimici suoi piú che egli medesmo: che meglio per lui era lasciarla pubblicare che impedirla; e meglio ancora nello stato che si trovava, che riformata in meglio, acciò piú facilmente precipitasse. Solo v’era bisogno di tre cose: che all’imperator non fosse aperto questo senso, che si aiutasse a dar il moto al negozio quanto prima, e che il primo colpo toccasse i protestanti. Per effettuare il primo, conveniva leggiermente e senza molta insistenza opponere ad alcune cose; per il secondo, incitar gli interessi delli prelati tedeschi; e per il terzo, con destrezza operare che quella dottrina paresse raccolta non per unire ambe le parti, ma solo per metter freno a’ protestanti, ché cosí era guadagnato un gran punto, cioè che il principe non faceva statuti di fede alli fedeli, ma alli sviati.
Per il che il pontefice mandò instruzione al cardinale Sfondrato che facesse alcune opposizioni; e per non trovarsi quando fosse la dottrina pubblicata, pigliasse licenza e si partisse. Il cardinale, esequendo la commissione, espose per nome del pontefice che la permissione di continuar in ricever il calice nella santa comunione, eziandio con condizione di non riprendere chi non lo riceve, essendo giá abrogata la consuetudine di ricever il sacramento sotto ambedue le specie, era cosa riservata al pontefice, sí come anco il conceder matrimonio alli preti, tanto piú quanto questo non è mai stato in uso nella Chiesa; e li greci e altri popoli orientali, che non obbligano al celibato, concedono che li maritati ricevine gli ordini, e, ritenendo le mogli, esercitino il ministerio; ma che li giá ordinati si possino maritare non lo permettono, né mai l’hanno permesso. Soggionse non esser dubbio alcuno che, quando la Maestá sua concedesse tal cose come lecite, offenderebbe gravissimamente la Maestá divina; ma avendole per illecite e illegittime, le debbe permettere per minor male alli sviati. È cosa tollerabile, anzi appartiene alla prudenzia del principe, quando non può impedire tutti li mali, permettere il minore, a fine di estirpar il maggiore: che Sua Santitá, veduto il libro, ha inteso che non sia se non permissione a quei della setta luterana, acciò non passino d’un error in l’altro in infinito: ma per quello che appartiene alli cattolici, non li sia concesso né credere né operare se non il prescritto dalla santa sede apostolica, che, sola maestra delli fedeli, può far decreti delle cose della religione; ed essendo certo che cosí era la mente di Sua Maestá, li considerava che sarebbe necessario farne una dechiarazione espressa, e restringere ancora la briglia a’ luterani alquanto piú, massime nella potestá di mutar le ceremonie, poiché l’ultimo capo pare che dia loro troppo ampia libertá, dove concede che siano levate le ceremonie, le quali possono dar causa alla superstizione. Aggionse poi il legato che li luterani si sarebbono fatto lecito ritenere li beni ecclesiastici usurpati e la giurisdizione occupata, se non li era comandata la restituzione: né di questo si doveva aspettar concilio, ma venir all’esecuzione immediate, e constando notoriamente dello spoglio, non si dovevano servar pontigli di legge, ma proceder de plano, e con la mano regia.
Questa censura fu comunicata da Cesare alli elettori ecclesiastici, li quali l’approvarono, ma particolarmente quanto al capo della restituzione dei beni ecclesiastici; anzi raffermarono necessaria, e altrimenti non potersi ricuperar il culto divino, né conservar la religione, né securare bene la pace. E perché consta del spoglio, il giusto vuole che si tratti con pochi termini. Al parer de’ quali s’accostarono tutti li vescovi. Li principi secolari per non offender Cesare si tacquero, e a loro esempio gli ambasciatori delle cittá parlarono poco, né di quel poco fu tenuto conto. Per la remostranza del legato ordinò Cesare un proemio al libro, di questa sostanza: che mirando esso alla tranquillitá di Germania, aveva conosciuto non esser possibile introdurla, se non composti li dissidi della religione, onde sono nate le guerre e odi; e vedendo esser perciò utile rimedio un concilio generale in Germania, aveva operato che s’incominciasse in Trento, e indotti tutti li stati dell’Imperio ad aderirvi e sottoporvisi. Ma mentre pensa di non lasciar le cose sospese e confuse sino al celebrar del concilio, da alcuni grandi e zelanti li fu presentata una formula, la quale avendo fatto esaminare a persone cattoliche e dotte, l’hanno trovata non aborrente dalla religione cattolica, intendendola in buon senso, eccetto nelli due articoli della comunione del calice e del matrimonio de’ preti. Per il che richiede dalli stati, che sino al presente hanno osservato li statuti della Chiesa universale, che perseverino in quelli, e sí come hanno promesso, non mutino cosa alcuna; e quelli che hanno innovato, o vero ritornino all’antico, o si conformino a quella confessione, ritirandosi a quella dove avessero trapassato, e si contentino di quella, non impugnandola, non insegnando, né scrivendo, né predicando in contrario, ma aspettando la dechiarazione del concilio. E perché nell’ultimo capo si concede di levar le cerimonie superstiziose, riserva a sé la dechiarazione di quel capo e di tutte le altre difficoltá che nascessero.
Il quindicesimo giorno di maggio fu recitato il libro nel pubblico consesso. Non si pigliarono i voti di tutti secondo il consueto, ma l’elettor magontino solo si levò, e come in nome comune ringraziò Cesare, il quale pigliò quel ringraziamento per un’approbazione e assenso di tutti. Da nessun fu parlato; ma a parte poi molti delli principi, che giá seguivano la confessione augustana, dissero di non poterlo accettare; e alcune delle cittá ancora dissero parole che significavano l’istesso, se ben per timore di Cesare non parlavano apertamente. Fu il libro per ordine dell’imperatore stampato in latino e tedesco, poi anco tradotto e stampato in italiano e francese.
Oltra di questo, a’ 14 di giugno pubblicò Cesare una riforma dell’ordine ecclesiastico, la qual dalli prelati e altre persone dotte e religiose era stata con maturitá digesta e raccolta. Quella conteneva ventidue capi: dell’ordinazione ed elezione delli ministri; dell’ufficio del li ordini ecclesiastici; dell’ufficio del decano e canonici; delle ore canoniche; delli monasteri; delle scole e universitá, delli ospitali; dell’ufficio del predicatore; dell’amministrazione delli sacramenti; dell’amministrazione del battesmo; dell’amministrazion della confermazione; delle ceremonie della messa; dell’amministrazion della penitenzia; dell’amministrazion dell’estrema unzione, dell’amministrazion del matrimonio; delle ceremonie ecclesiastiche; della disciplina del clero e del populo; della pluralitá de’ benefici; della disciplina del popolo; della visita; delli concili; della scomunica. In questi capi sono da centotrenta precetti cosí giusti e pieni d’equitá, che se alcun dicesse non esser mai uscita inanzi quel tempo una formula di riformazione piú esatta e meno interessata, senza cavilli e trappole per pigliar gli incauti, non potrebbe facilmente esser redarguito. Se quella fosse stata dalli soli prelati constituita, non sarebbe dispiaciuta a Roma, eccetto in doi luochi dove autorizza il concilio basiliense, in alcuni altri dove mette mano nelle dispense ed esenzioni pontificie, e in altre cose riservate al papa. Ma perché per autoritá imperiale fu stabilita, parve piú insopportabile che il fatto dell’Interim; essendo una massima fondamentale della corte romana che li secolari, di qualsivoglia dignitá e bontá di vita, non possino dar legge alcuna al clero, eziandio per buon fine. Non potendo però altro fare, sopportavano quella tirannide (cosí dicevano), alla quale per allora non si potevano opponere.
Pochi giorni dopo ordinò anco Cesare che le sinodi diocesane fossero tenute a san Martino, e le provinciali inanzi quaresima. E perché li prelati desideravano che il pontefice s’accomodasse a consentire almeno a quei capi che parevano non esser in diminuzione dell’autoritá pontificia, si offerí loro l’imperatore, per scrittura data sotto li 18 di luglio, di usar ogni diligenzia con Sua Santitá, acciò si contentasse di non mancar del suo ufficio. Fu stampata questa reformazione in molti luochi cattolici di Germania, e anco l’istesso anno in Milano da Innocenzio Ciconiaria. Fu l’ultimo di giugno il fine della dieta d’Augusta; e si pubblicò il recesso, nel quale promise Cesare che il concilio si sarebbe continuato in Trento, e che egli averebbe operato che presto fosse reassonto; il che quando fosse fatto, comandava che tutti gli ecclesiastici v’intervenissero, e quelli della confessione augustana vi andassero con suo salvocondotto; dove tutto sarebbe trattato secondo le sacre lettere e la dottrina de’ Padri, ed essi sarebbono uditi.
Il cardinale d’Augusta e altri prelati, gelosi che con questi principi de confessione e riforme fatte e pubblicate in diete non fosse esclusa di Germania l’autoritá del papa, pregarono Cesare che l’invitasse a mandare legato espresso, quale aiutasse l’esecuzione delle cose decretate, allegando che ciò sarebbe un mezzo di facilitare grandemente; perché molti, in quali ancora vive il rispetto al pontefice, s’adopereranno piú prontamente, vedendo intervenire anco l’autoritá sua. L’imperator, avendo concepito nell’animo che, quietandosi li moti della religione, Germania dovesse restar oppressa sotto il suo servizio, abbracciava ogni proposta di facilitá, sicuro che averebbe poi ridotto il tutto come li fosse piaciuto. Fece dar conto al pontefice di tutte le cose fatte per riformazione, e l’invitò a mandar uno o piú legati. Il papa mandò immediate il vescovo di Fano, prelato grato all’imperatore, per noncio, con pretesto d’intender meglio la volontá di Sua Maestá intorno la richiesta sua, e per proponere la restituzione di Piacenza e il far partire li spagnoli da Trento. Poi, ricevuta la prima risposta dal Fano, e posto il negozio in consultazione con li cardinali, presto risolvè non esser sua dignitá mandar ministro che fosse esecutor de decreti imperiali; ma, per la ragione che mosse il cardinale d’Augusta, prese un termine medio di mandar nonci, non per quello che l’imperator disegnava, ma per conceder grazie e assoluzioni, considerando che questo dovesse far effetti mirabili per sostener l’autoritá sua, senza incorrer il pregiudizio di assentire che altri s’avesse assonto l’autoritá, che pretendeva non potere convenir salvo che a lui.
Adonque destinò appresso il Fano li vescovi di Verona e Ferentino suoi nunci in Germania, a’ quali spedí con participazione delli cardinali una bolla sotto l’ultimo agosto, dando loro commissione di dechiarar a quelli che vorranno tornar alla veritá cattolica che egli è pronto d’abbracciarli senza rendersi difficile a perdonarli, purché non voglino dar le leggi, ma riceverle; e rimettendo alla conscienzia delli nonci di relasciar qualche cosa della vecchia disciplina, se giudicheranno potersi fare senza pubblico scandolo. E per questo dá loro facoltá di assolvere in utroque foro pienamente qualunque persone secolari, eziandio re e principi, ecclesiastiche e regolari, collegi e comunitá da tutte le scomuniche e altre censure, e dalle pene eziandio temporali incorse per causa di eresia, ancora che fossero relassi; e dispensar dalle irregolaritá contratte per ogni rispetto, eziandio per bigamia; e restituirli alla fama, onore e dignitá; con autoritá anco di moderar o rimetter in tutto ogni abiurazione e penitenzia debita, e di liberar le comunitá e singulari persone da tutti li patti e convenzioni illeciti contratti con li sviati, assolvendoli dalli giuramenti e omaggi prestati, e dalli pergiuri che fossero sin allora incorsi per qualche passata inosservanza; e ancora assolver li regolari dall’apostasia, dandoli facoltá di portar l’abito regolare coperto sotto quello di prete secolare; e di conceder licenzia ad ogni persona, eziandio ecclesiastica, di poter mangiar carne e cibi proibiti ne’ giorni di quaresima e di digiuno, col conseglio del medico corporale e spirituale, o vero spirituale solo, o anco senza, se a loro fosse paruto; e di moderar il numero delle feste; ed a quelli che hanno ricevuta la comunione del calice, se la dimanderanno umilmente e confesseranno che la Chiesa non falla negandola ai laici, concedergliela in vita, o per il tempo che a loro parerá, purché sia fatta separatamente, quanto al luoco e quanto al tempo, da quella che si fa per decreto della Chiesa. Concesse anco a loro facoltá di unir li benefici ecclesiastici alli studi e scole o vero ospitali, ed assolvere li occupatori delli beni ecclesiastici dopo la restituzione delli stabili, concordando anco per li frutti usurpati e per li mobili consumati, con autoritá di poter comunicar queste facoltá ad altre persone insigni.
Andò questa bolla per tutto, essendo stampata per l’occasione che si dirá, e diede da parlare, prima per il proemio, nel qual diceva il papa che nelle turbulenze della Chiesa si era consolato sopra il rimedio lasciato da Cristo, che il grano della Chiesa crivellato da Satana sarebbe stato conservato per la fede di Pietro; e maggiormente dopo che egli vi ebbe applicato il rimedio del concilio generale, quasi che non avesse la Chiesa dove fondarsi che sopra lui e sessanta persone di Trento. Poi attribuivano a gran presonzione il restituir agli onori, fama e dignitá li re e li principi. Era anco avvertita la contradizione di assolvere da giuramenti illeciti, perché l’illeciti non hanno bisogno d’assoluzione, e li veri giuramenti nissun può assolverli. Era riputata similmente contradizione il conceder il calice solo a chi credi la Chiesa non errare, proibendo il calice a’ laici, imperocché come sarebbe possibile aver tal credulitá e ricercar di non esser compreso nella proibizione? Ma non contenevano le risa, leggendo la condizione, nell’assolver li frati usciti, di portar l’abito coperto, quasi che il regno di Dio fosse in un colore o forma di veste, che non portandola in mostra fosse necessario almeno averla in secreto. Ma con tutto che in diligenza fosse fatta la deputazione delli nunci, nondimeno l’espedizione si differí sino l’anno futuro, perché Cesare non si contentò del modo, nel quale non si faceva menzione d’assister né autorizzar le provvisioni da lui fatte, né il pontefice volle mai lasciarsi indurre che ministro alcuno v’intervenisse per suo nome.
Partito Cesare di Augusta, fece ogni diligenza acciò l’Interim fosse ricevuto dalle cittá protestanti; e trovò per tutto resistenza e difficultá, e nessun luoco vi fu dove non succedesse travaglio, perché li protestanti detestavano l’Interim piú che li cattolici. Dicevano che fosse un stabilimento locale del papismo; biasmavano sopra tutto la dottrina della giustificazione, e che fosse posta in dubbio la comunione del calice e il matrimonio de’ preti. Il duca Giovanni Federico di Sassonia, se ben pregione, liberamente disse che Dio e la propria conscienzia, a’ quali era sopra tutti tenuto, non glielo permettevano. Dove fu ricevuto successero infiniti casi, varietá e confusioni, sí che fu introdotto in qualonque luoco diversamente e con tante limitazioni e condizioni, che piú tosto si può dire che da tutte fosse reietto che da alcune accettato. Né li cattolici si curavano d’aiutare l’introduzione, come quelli che non l’approvavano essi ancora. Quello che fermò Cesare assai fu la modesta libertá di una picciola e debole cittá, la quale lo supplicò che, essendo padrone della roba e della vita di tutti, concedesse che la conscienzia fosse di Dio: che se la dottrina proposta a loro fosse ricevuta da esso e tenuta per vera, averebbono un grand’esempio da seguire; ma che Sua Maestá vogli constringer loro ad accettare e credere cosa che la medesima Maestá sua non l’ha per vera e non la séguita, pareva a loro di non potersi accomodare.
Al settembre andò l’imperatore nell’inferior Germania, dove ebbe maggior difficoltá, perché le cittá di Sassonia si valsero di molte escusazioni per non riceverlo, e la cittá di Maddeburg si oppose con maniere anco di sprezzo: per il che fu posta in bando imperiale e sostenne la guerra, che fu longhissima; la qual mantenne il fuoco vivo in Germania, che tre anni dopo abbruggiò li trofei dell’imperatore, come a suo luoco si dirá. Per questa confusione, e per dar ordine di far giurare il figlio alli Ramenghi, Cesare finalmente, lasciata la Germania, passò nelli stati suoi di Fiandra. E quantunque avesse severamente proibito che la dottrina dell’Interim non fosse impugnata da alcuno, né fosse scritto, insegnato o predicato in contrario, nondimeno fu scritto contra da molti protestanti. E il pontefice, che giudicò cosí esser ispediente per le cose sue, ordinò a fra’ Francesco Romeo, generale di San Dominico, che congregati li piú dotti del suo ordine, facesse col loro parere e fatica una gagliarda e soda confutazione. Fu anco in Francia da diversi scritto in contrario, e in breve vi fu uno stuolo di scritture de cattolici e protestanti, massime delle cittá anseatiche, in contrario. E seguí quello che ordinariamente avviene a chi vuol conciliar opinioni contrarie, che le rende ambedue concordi all’oppugnazione della media, e piú ostinati ciascuno nella propria. Fu anco causa di qualche divisione tra li medesimi protestanti; perché quelli che, costretti, avevano ceduto in parte a Cesare e restituite le vecchie ceremonie, si scusavano dicendo che le cose da loro fatte erano indifferenti, e per consequente alla salute non importava piú il reprobarle che il riceverle; e che era lecito, anzi necessario tollerar qualche servitú, quando l’impietá non è congionta; e per tanto in queste doversi obedir a Cesare. E gli altri, che la necessitá non aveva costretto, dicevano esser vero che le cose indifferenti non importavano alla salute, ma che per mezzo delle indifferenti s’introducevano delle perniciose. E passando inanzi formarono una general conclusione, che le ceremonie e riti, quantunque di natura indifferenti, diventano cattivi allora quando chi le usa ha opinione che siano buone o necessarie; e de qua nacquero due sette, che passarono poi ad altre differenze tra loro, e non furono mai ben reconciliate.
Non passavano le cose della religione con minor tumulti in Inghilterra; perché Odoardo conte di Hertford, zio materno del giovane re Edoardo, acquistata autoritá appresso al nepote e li grandi del regno, insieme con Tomaso Crammero arcivescovo di Cantorberi favorendo li protestanti, e introdotti alcuni dottori di loro, e gettato qualche fondamento della dottrina, tra la nobiltá massime, congregati li stati del regno che chiamano il parlamento, per pubblico decreto dal re e da quello fu proibita per tutto il regno la messa; e poco dopo levatasi sedizione populare, che richiedeva la restituzione degli editti di Enrico VIII a favore della vecchia religione, nacque grandissima confusione e dissensione nel regno.
Venuto il san Martino, con tutto che grandi fossero le confusioni di Germania, li concili diocesani furono in molte cittá celebrati, ricevuta la riforma nuova dell’imperatore, mutata solo la forma secondo che piú pareva convenire al modo di decretare di ciascuna diocesi, senza però provvisione per l’esecuzione; e parevano ben cose statuite per pura apparenza. Inanzi quaresima non fu tenuta alcuna sinodo provinciale, secondo il decreto imperiale. Nel principio di quaresima l’elettor di Colonia incominciò la sua; e narrato il bisogno di emendazione del clero, soggionse tutta la speranza esser stata posta nel concilio di Trento, che era principiato con qualche successo felice; qual speranza tutta perduta, per l’inaspettata dilazione suscitata per le discordie dei padri nel trasferirlo, Cesare, per non mancar di suo debito, poiché ebbe con la guerra soggiogati li rebelli, restituí la dottrina e ceremonie cattoliche, rimesse al concilio solamente la determinazione di due articoli, e ordinò la reformazione del clero; in esecuzione di che la sinodo, dopo molte trattazioni, per la dominica di Passione aveva stabilito una forma conveniente alla sua metropoli. Soggionge poi li decreti in quali non è trattata alcuna materia di fede, ma solo li mezzi di reformare, al numero di sei, la disciplina: la restaurazione delli studi, l’esame de ordinandi, l’ufficio di ciascun ordine, la visita, le sinodi, la restituzione della giurisdizione ecclesiastica, con molti decreti in ciascun capo. Sopra ciascun de’ quali, fatto un longo discorso con molti precetti, cosa bella per speculativa trattazione, finalmente sono aggionti trentotto capi per restituzione delle antiche ceremonie e usi ecclesiastici. Li Paesi Bassi, ereditari dell’imperatore, sono soggetti alla metropoli colognese; onde l’imperatore, ricevuto quel concilio e fattolo esaminare dalli conseglieri e teologi suoi, lo approvò con sue lettere delli 4 luglio, comandò che per tutte le terre sue fosse ricevuto e osservato, imponendo alli magistrati che, ricercati, assistano all’esecuzione.
Non servò l’istesso stile Sebastiano elettor di Magonza, che ridotto nel concilio della provincia sua la terza settimana dopo Pasca, fece quarantotto decreti di dottrina di fede e cinquantasei in materia di riforma. In quei capi della dottrina decisi dal concilio di Trento seguí l’istessa dottrina; negli altri l’opinione piú comune de’ scolastici, astenendosi da luochi fra loro controversi. Fra questi, li capi XLI e XLII sono notabili, dove insegna e replica che le immagini non sono proposte per adorarle o prestarli culto alcuno, ma solo per ridur a memoria quello che si debbe adorare; e se in alcun luoco sará fatto popular concorso ad alcuna immagine, e si vederá che gli uomini gli attribuiscano quasi qualche opinione della divinitá, si debbia levar via o reponerne un’altra differente da quella in quantitá, acciocché il populo non si persuada a credere che Dio e li santi s’inducano a far quello che gli è dimandato per mezzo di quell’immagine e non altrimente. Né di minor avvertenzia è degno il capitolo LV, dove asserisce che li santi debbono esser onorati, ma con culto di societá e dilezione, come anco possono esser legittimamente onorati li santi uomini in questa vita, se non che piú divotamente si doveranno onorar li santi beati, come quelli che sono in stato piú sicuro. Le qual esplicazioni ben considerate mostrano quanto fosser in quei tempi differenti le opinioni delli prelati di Germania cattolici da quelle della corte romana e dalla pratica che s’è introdotta dopo il concilio di Trento. E ciascun, preso esempio da questo concilio che ha decretato tanti articoli della religione, potrá certificarsi quanto sia vero quello che tante volte hanno fatto dir li pontefici in Germania: che le cose della religione non si possono trattare in un concilio nazionale. E se ben maggior fondamento si può fare sopra diversi concili provinciali celebrati in Africa, Egitto, Sorta e altri luochi orientali, nondimeno questo, come moderno, quantonque non cosí relevante, provocherá forse piú l’avvertenza del lettore. L’elettor di Treveri ancora celebrò la sinodo sua, e gli altri metropolitani non partiti dalla comunione del pontefice, tutti pubblicando li editti imperiali d’Augusta, cosí per la interreligione, come per la riforma ecclesiastica.
Li nunci, che sino l’anno inanzi furono dal papa destinati e differiti per le cause dette, si posero in viaggio per Germania, dove per qual si voglia luoco che passavano erano sprezzati dalli cattolici medesimi, cosí per li dispareri con Cesare e li modi usati era venuto esoso il nome del pontefice e l’abito e insegne d’ogni ministro suo! E finalmente nel fine di maggio andarono a Cesare nei Paesi Bassi, dove, dopo molta discussione del modo di esequir le commissioni del pontefice, trovando difficoltá in qualunque delli proposti, o per una o per l’altra parte, in fine risolvè l’imperatore che, essendo loro data la facoltá dal pontefice di sostituire, sostituissero li vescovi, ciascuno nella diocesi loro, e altri principali prelati in altre giurisdizioni, rimettendo il tutto alla conscienzia di quelli. Non molto prontamente fu ricevuto il partito dalli nunci: con tutto ciò, condescendendo essi, si fece stampar un indulto sotto li nomi delli tre nunci, lasciato in bianco il nome del prelato a chi si dovesse indrizzare; e inserto prima tutto il tenore della bolla papale, e allegato per causa del sostituire il non poter esser in ogni luoco, comunicarono la loro autoritá, con avvertenza di non conceder la comunione del calice e l’uso della carne, se non con gran maturitá e utilitá evidente, proibendo che per quelle grazie non si facesse pagar cosa alcuna. Cesare pigliò l’assonto di mandarle a chi e dove occorreva; e dovunque le inviava, faceva intendere che si trattasse con piacevolezza e destrezza. Leggerissimo fu l’uso di queste facoltá; perché chi perseverava nell’obedienzia pontificia non ne aveva bisogno, e chi s’era alienato, non solo non curava la grazia, ma la rifiutava ancora. Pochi giorni dopo parti Ferentino: Fano e Verona restarono appresso Cesare, sinché da Giulio III fu mandato l’arcivescovo sipontino, come a suo luoco si dirá.