Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo III

Libro settimo - Capitolo III (13-20 ottobre 1562)

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CAPITOLO III

(13-20 ottobre 1562).

[I legati si oppongono che nella formula del decreto dell’ordine si accenni all’istituzione episcopale de iure divino. — Nella congregazione generale l’arcivescovo di Granata, seguito da molti padri, insiste perchè si dichiari de iure divino l’istituzione dei vescovi e la loro superioritá sul sacerdozio. — Lunga e vivace disputa, che porta pure a trattare della posizione del papa nella Chiesa, e di fronte ai vescovi ed ai concili. — I legati comprendono che l’offensiva mira all’autoritá di Roma e ne vedono il grave pericolo, anche per l’imminente arrivo dei francesi. — Tentativi per vincere la coalizione degli spagnoli.— Importante discorso del Lainez: reazioni e discussioni suscitate da esso.]

Ma in Trento li deputati a formar li anatematismi e la dottrina, considerate le sentenze de’ teologi, fecero una minuta, in quale fu posto che li vescovi sono superiori iure divino, perché l’arcivescovo di Zara e il vescovo di Coimbra, principali tra li deputati, furono di quel parere. Ma li legati non permisero, dicendo che non era giusto interporvi concetto non contenuto negli articoli; che se poi li padri nelle congregazioni avessero richiesto, si sarebbe pensato. Il che li spagnoli immediate si risolverono di richiedere; e li legati intesolo, consultati, deliberarono di far intendere alli prelati suoi soliti a contradire che, se quella materia era proposta, tacessero e non la mettessero in disputa, per non dar occasione alli spagnoli di repliche, con le quali si tirassero in longo le congregazioni e si eccitassero delli inconvenienti nati nel proposito della residenza; ma se da Granata o da altri fosse fatta instanzia, il Cardinal varmiense interrompesse, rispondendo non esser capo da trattar in concilio, per non esser controverso con protestanti. [p. 38 modifica]

Il di 13 ottobre 1562, non avendosi fatte congregazioni dopo quelle de’ teologi, nella prima de’ prelati, che fu questo giorno, avendo con poche parole li patriarchi e alcuni arcivescovi inanzi approvato gli anatematismi come erano formati, l’arcivescovo di Granata, avendo esso ancora con poche parole detto il suo voto circa li sei primi canoni, nel settimo fece instanza che si dicesse li vescovi, instituiti de iure divino, esser superiori alli preti; che questo egli lo poteva e doveva di ragione chiedere, perché in questa forma fu proposto in concilio dal Cardinal Crescenzio in tempo di Giulio III, e approbato dalla sinodo. Addusse per testimoni il vescovo di Segovia, che intervenne come prelato in quel concilio, e fra’ Ottaviano Preconio da Messina arcivescovo di Palermo, che, non ancora prelato allora, v’intervenne come teologo. Soggionse che non si poteva mancar di dechiarare l’uno e l’altro delli due ponti, cioè li vescovi esser instituiti iure divino ed esser iure divino superiori alli preti, per esser negati dagli eretici; e si estese con molti argumenti, ragioni e autoritá a comprobar il suo parere. Allegò Dionisio, che disse l’ordine dei diaconi riferirsi in quello de’ preti, quello de’ preti in quello de’ vescovi, e quello delli vescovi in Cristo, vescovo delli vescovi. Aggionse Eleuterio pontefice romano, che in una epistola alli vescovi di Francia scrisse che Cristo aveva commesso a loro la Chiesa universale. Aggionse Ambrosio, che sull’epistola ai corinti disse che il vescovo tiene la persona di Cristo ed è vicario del Signore. Aggionse ancora l’epistola di Cipriano a Rogaziano, dove piú volte replica che sí come li diaconi sono creati dalli vescovi, cosí li vescovi sono fatti da Dio; e aggionse quel celebre luoco del medesimo santo, «che il vescovato è uno, e ciascuno delli vescovi tiene una parte di quello». Disse che il papa era vescovo come gli altri, essendo egli e loro fratelli figliuoli di un padre, Dio, di una madre, la Chiesa: per il che anco il pontefice gli chiama fratelli: onde se il papa era instituito da Cristo, dal medesmo erano parimente instituiti li vescovi. Né si può dire che il papa li chiami fratelli per termine di civiltá o di umiltá, [p. 39 modifica] perché li vescovi ancora nelli secoli incorrotti hanno chiamato lui fratello. Esservi l’epistole di Cipriano a Fabiano. Cornelio, Lucio e Stefano, dove egli li dá titolo di fratelli: esservi epistole in Agostino, e per nome suo e per nome d’altri vescovi d’Africa, dove parimente Innocenzio e Bonifacio pontefici sono chiamati fratelli. Ma quello che piú di tutto è chiaro, non solo nelle epistole di questi due santi, ma di molti altri ancora, il pontefice è chiamato collega: esser contra la natura del collegio che consti di persone di diverso genere. Quando tanta differenzia fosse che il papa fosse instituito da Cristo e li vescovi dal papa, non potrebbono esser in un collegio. Comporta ben la natura che nel collegio vi sia un capo, e cosí avviene dell’episcopale, del quale è il papa capo; però in sola edificazione, e, come si dice in latino, in beneficientem causam, nel modo che san Gregorio dice nell’epistola a Gioanni siracusano, che quando alcun vescovo è in colpa, egli è soggetto alla sede apostolica; ma del rimanente, quando non vi è colpa, tutti per ragion d’umiltá sono uguali: e questa è l’umiltá cristiana non mai separata dalla veritá. Allegò san Geronimo ad Evagrio, che dovunque sará vescovo, o in Roma o in Augubio o in Constantinopoli o in Reggio, tutti sono dell’istesso merito e del medesimo sacerdozio, e tutti successori degli apostoli. Inveí contra quei teologi che dissero san Pietro aver ordinato gli altri apostoli vescovi; li ammoní a studiar le Scritture e guardare che a tutti fu dato ugualmente la potestá d’insegnar per tutto ’l mondo, di ministrar li sacramenti, di rimetter li peccati, di ligar e sciogliere, di governar la Chiesa, e finalmente mandati nel mondo, sí come il Padre ha mandato il Figliuolo; e però sí come gli apostoli ebbero l’autoritá non da Pietro, ma da Cristo, cosí li successori degli apostoli non hanno la potestá dal successor di Pietro, ma dal medesimo Cristo. Addusse a questo proposito l’esempio dell’arbore, in quale sono molti rami, ma un solo tronco. Si rise poi di quegli altri teologi che avevano detto tutti gli apostoli esser da Cristo instituiti e pari in autoritá, ma che in loro era personale, e non doveva passar in [p. 40 modifica] successori, se non quella di Pietro; interrogandoli, come in presenza, con che fondamento, con che autoritá, con che ragione si lasciassero indur ad una cosí audace affermazione, inventata da cinquant’anni solamente, espressamente contraria alla Scrittura; nella quale avendo detto Cristo a tutti gli apostoli che sará con loro sino alla fine del mondo, il che non intendesi delle loro proprie persone, convien bene per necessitá intender della successione di tutti; e cosí esser stato inteso da tutti li Padri e da tutti li scolastici, a’ quali quella nova opinione per diametro repugna. Argumentò ancora che se li sacramenti sono instituiti da Cristo, per consequenza erano anco instituiti li ministri delli sacramenti; e chi vuol dire che la ierarchia sia de iure divino e il sommo ierarca instituito da Sua Maestá, li convien dire che anco gli altri ierarchi abbiano l’istessa instituzione. Esser dottrina perpetua della chiesa cattolica che gli ordini si danno per mano di ministri, ma la potestá è conferita da Dio. Concluse che, essendo tutte queste cose vere e certe, e negate dagli eretici in piú luochi che il vescovo di Segovia aveva raccolti insieme, era necessario che fossero dechiarate difinite dalla sinodo, e dannati gli errori contrari.

Prese da questo il Cardinal varmiense occasione d’interromperlo, ché pur ancora seguiva, e disse, secondo il concerto, che di questo non era alcuna controversia con gli eretici, anzi che nella confessione augustana tenevano il medesmo; però era soverchio e inutile il metterlo in dubbio, e che li padri non dovevano entrar in dispute di cosa nella quale convenissero insieme cattolici ed eretici. Per il che Granata, levatosi in piedi, replicò che la confessione augustana non confermava questo, anzi contradiceva, e non poneva distinzione alcuna tra il vescovo e il prete, se non per constituzione umana; e asseriva che la superioritá dei vescovi fu prima per costume, e poi per constituzione ecclesiastica; e tornò a ricercare che nella sinodo fosse fatta questa difinizione, o vero che si rispondesse alle ragioni e autoritá da lui allegate. Il Cardinal tornò a replicare che gli eretici non negavano le cose [p. 41 modifica] dette, ma solamente multiplicavano l’ingiurie e maledizioni e invettive contra li costumi presenti. E passate tra loro altre repliche, Granata tutto sdegnato e infocato disse che si rimetteva alle nazioni.

Dopo di questo, fatto e quietato qualche tumulto, degli altri parlarono, ricevendo le cose come erano proposte senza l’aggionta, chi fondati sopra il detto di varmiense, e chi tenendo che solo il papa sia instituito de iure divino; sin che toccò all’arcivescovo di Zara, il qual disse esser necessario aggionger le parole de iure divino per dannar quello che gli eretici dicono in contrario nella confessione augustana. Dove ritornando varmiense a dire che in detta confessione non vi era cosa alcuna dove gli eretici dissentissero in questo, e allegando Zara il luoco e le parole, la contenzione s’allongò tanto, che per quel giorno finí la congregazione.

In quelle delli seguenti furono parimente varie le opinioni. Di singolar vi fu che l’arcivescovo di Braganza fece instanzia per la medesima aggionta, dicendo che non si poteva tralasciare; e si allargò a provar l’instituzione de’ vescovi de iure divino, portando ragioni e argomenti poco differenti da Granata. E passò a dire che il papa non può levar ai vescovi l’autoritá datagli nella loro consecrazione, la qual contiene in sé non solo la potestá dell’ordine, ma della giurisdizione ancora, perché in quella gli è assegnata la plebe da pascere e reggere, e senza quella non è valida l’ordinazione. Di che n’è manifesto indicio che alli vescovi titulari o portativi si assegna tuttavia una cittá, che quando potesse star l’ordine episcopale senza giurisdizione, non sarebbe necessario. Oltra di ciò, nel darli il pastorale, si usa la forma di dire che è un segno della potestá, che se gli dá, di corregger vizi. Quel che piú importa, se gli dá l’anello, dicendo che con quello sposa la Chiesa; e nel darli il libro dell’Evangelio, con che s’imprime il carattere episcopale, si dice che vada a predicar al populo commessogli; e in fine della consecrazione si dice quell’orazione: Deus omnium fidelium pastor et rector (che poi è stata nelli messali appropriata al pontefice romano), con voltarsi a Dio e [p. 42 modifica] dire che egli ha voluto che quel vescovo presedesse alla Chiesa: gionto che Innocenzio III disse esser il matrimonio spirituale del vescovo con la sua chiesa un legame instituito da Dio e insolubile per potestá umana; e che il pontefice romano non può transferir un vescovo, se non perché ha special autoritá da Dio di farlo: le qual cose tutte sarebbono molto assurde, se la instituzione de’ vescovi non fosse de iure divino.

L’arcivescovo di Cipro disse che si doveva dichiarare li vescovi esser superiori alli preti iure divino, riservando però l’autoritá nel papa. Ma il vescovo di Segovia, avendo aderito in tutto e per tutto alle conclusioni e ragioni di Granata, fece una longa recitazione de’ luochi degli eretici, dove negano la superioritá dei vescovi e l’instituzione esser de iure divino. Disse che sí come il papa è successor di Pietro, cosí li vescovi sono successori degli apostoli; disse apparir chiaro dalla lezione dell’istoria ecclesiastica e dalle epistole de’ Padri che tutti li vescovi si davano conto l’uno all’altro delle cose che succedevano nelle loro chiese, e ne ricevevano l’approbazione dagli altri; e il medesimo faceva il pontefice di quello che a Roma occorreva. Aggionse che li patriarchi principali, quando erano creati, mandavano agli altri un’epistola circulare, dando conto della loro ordinazione e della loro fede; e questo si vede osservato ugualmente dalli pontefici con gli altri, come dagli altri con loro: che debilitandosi la potestá de’ vescovi, si vien a debilitar anco quella del papa; che la potestá dell’ordine e della giurisdizione è data alli vescovi da Dio, e dal pontefice non viene se non la divisione delle diocesi e l’applicazione della persona. Disse che il vescovato non è vescovato senza giurisdizione. Allegò un’autoritá d’Anacleto, che l’autoritá episcopale si dá nell’ordinazione con l’onzione del sacro crisma; che il vescovato è cosí ben ordine da Cristo instituito, come il presbiterato; che tutti li pontefici sino a Silvestro, o professatamente o incidentemente, hanno detto che il vescovato è ordine che viene da Dio immediate; che le parole dette agli apostoli: «Quello che ligarete sopra la terra ecc.» dánno potestá di giurisdizione, la qual è necessariamente [p. 43 modifica] conferita alli successori. Che Cristo instimi gli apostoli con giurisdizione, e dagli apostoli in qua la Chiesa perpetuamente li ha con giurisdizione instituiti; adonque questo s’ha d’aver per tradizione apostolica; ed essendo difinito che li dogmi della fede si hanno per la Scrittura e per le tradizioni, non si può negare che questo dell’instituzione episcopale non sia dogma di fede; e tanto piú, quanto sant’Epifanio e santo Agostino pongono Aerio tra gli eretici, per aver detto che li preti fossero uguali ai vescovi: che non potrebbe esser, se non fossero de iure divino.

Cinquantanove padri furono di questa opinione; e sarebbe forse il numero stato maggiore, quando molti non si fossero trovati indisposti in quel tempo per un’influenza, che generalmente regnava allora, de catarri, e alcuni altri non avessero finto il medesimo impedimento, per non ritrovarsi in quella meschia e non offendere alcuno in cosa trattata con tanto affetto; e massime quelli che, per aver parlato della residenzia come sentivano, si trovavano incorsi in indignazione de’ loro patroni; e ancora se il Cardinal Simonetta, quando gli parve che le cose passassero troppo inanzi, non avesse fatto diversi uffici, adoperando a questo Giovanni Antonio Fachinetto, vescovo di Nicastro, e Sebastiano Vanzio vescovo di Orvieto, li quali con molta destrezza persuasero che il tentativo de’ spagnoli era a fine di sottrarsi dall’obedienzia del papa, che sarebbe stata un’apostasia dalla sede apostolica, con gran vergogna e danno dell’Italia, la qual non ha altro onore tra le nazioni oltramontane se non quello che riceve dal pontificato.

Il Cinquechiese disse che era giusta cosa che di tutti gli ordini e gradi della Chiesa si dechiarasse quo iure fossero instituiti, e da chi ricevessero l’autoritá. Al qual aderirono alquanti altri, e in particolare Pompeio Piccolomini vescovo di Tropeia, il qual, facendo la medesima instanza, soggionse che quando si trattasse de tutti li gradi della Chiesa, dal maggiore al minore, e si dechiarasse quo iure fossero, egli direbbe la sua sentenza anco nella materia del vescovato, se fosse concessa [p. 44 modifica] licenza dalli legati. Di questo numero furono alquanti, che con brevi parole aderirono alla sentenzia d’alcuni di quelli che prima avevano parlato, e altri si diffusero in amplificar e rivoltar in diverse forme le medesime ragioni, che longo sarebbe far narrazione di tutti quelli voti che mi sono venuti in mano.

Merita bene d’esser commemorato quello di fra’ Giorgio Zivcovic franciscano, vescovo di Segna; il qual, dopo aver aderito al voto di Granata, soggionse che non averebbe mai creduto dover sentir a metter in difficoltá se li vescovi sono instituiti e se hanno l’autoritá da Cristo, perché, quando non l’abbino dalla Maestá sua divina, meno il concilio, che è un integrato de vescovi, l’ha da quella. Esser necessario che una congregazione, quantunque numerosissima, abbia l’autoritá da chi l’hanno le singolar persone: che se li vescovi non sono da Cristo, ma dagli uomini, l’autoritá di tutti insieme è umana; e chi ode dire: «li vescovi non sono instituiti da Cristo», non poter restar di pensare che questa sinodo sia una congregazione d’uomini profani, nella quale non preseda Cristo, ma una potestá precaria dagli uomini ricevuta; e tanti padri vanamente starebbono con tanta spesa e incomodo in Trento, potendo con maggior autoritá trattar le stesse cose quello che ha dato la potestá alli vescovi e al concilio di trattarle; e sarebbe stata una general illusione di tutta la cristianitá il proporlo come mezzo non solo migliore, ma unico e necessario per decidere le presenti controversie. Aggionse che egli era stato cinque mesi in Trento con questa persuasione, che mai nessun dovesse metter in difficoltá se il concilio ha l’autoritá da Dio e se può dire quello che il primo concilio gerosolimitano disse: «È parso allo Spirito santo ed a noi»; che mai sarebbe venuto al concilio, quando non avesse creduto che Cristo dovesse esser nel mezzo di esso. Né poter alcun dire che dove Cristo assiste, l’autoritá da lui non sia; e quando alcun vescovo credesse in contrario e riputasse l’autoritá sua umana, nelle difficoltá passate averebbe usato grand’ardire a dir anatema, e non piú tosto inviare il tutto a quello che ha autoritá maggiore; e quando l’autoritá [p. 45 modifica] del concilio non fosse certa, il giusto voleva che la prima cosa, quando del 1545 fu questo concilio congregato, si fosse ventilata questa materia, e deciso qual fosse l’autoritá del concilio, come nelli fòri si costuma che nel primo ingresso della causa si disputa e si decreta se il giudice è competente, acciò non sia opposto in fine alla sua sentenzia nullitá per defetto della potestá. Li protestanti, che ogni occasione pigliano per detraere e ingiuriare questa santa sinodo, non potranno aver la piú apposita, quanto che ella non sia certa della propria autoritá. Concluse che guardassero ben li padri quello che risolvevano in un punto che, risoluto per la veritá, stabilisce tutte le azioni del concilio, e per il contrario, sovverte ogni cosa.

Finirono tutti li padri di parlar in questa materia il giorno 19 ottobre, eccetto il padre Lainez, generale dei gesuiti, il quale dovendo esser l’ultimo, fu ordinato studiosamente che quel giorno non si ritrovasse in congregazione, per darli comodo di poterne occupar una egli solo. Del che per far intender la causa, conviene ritornar alquanto indietro, e raccontare che, quando da principio fu messo in campo la questione, pensarono li legati che solamente si mirasse ad aggrandire l’autoritá dei vescovi con darli maggior reputazione. Ma non fu finita la seconda congregazione, che dalli voti detti e dalle ragioni usate s’avviddero ben tardi di quanta importanza e consequenza fosse, poiché s’inferiva che le chiavi non fossero a solo Pietro date, e che il concilio fosse sopra il papa; e si facevano li vescovi uguali al pontefice, al quale non lasciavano se non preeminenza sopra gli altri; che la dignitá cardinalizia superiore alli vescovi era a fatto levata, e restavano puri preti o diaconi; che da quella determinazione si passava per necessaria consequenza alla residenza, e s’annichilava la corte; che si levavano le prevenzioni e reservazioni, e la collazione de’ benefici si tirava alli vescovi. Era notato che pochi giorni inanzi il vescovo di Segovia aveva ricusato di ricever ad un beneficio della sua diocesi uno provvisto da Roma; le qual cose sempre piú manifestamente si vedevano, quanto alla giornata s’aggiongevano novi voti e nove ragioni. [p. 46 modifica]

E per queste cause li legati adoperarono gli uffici di sopra narrati, acciò maggior parte d’italiani non si aggiongessero alli spagnoli. E con tutto ciò, se ben molto si fece, non però tanto si potè, che quasi la metá non fosse entrata nell’opinione: e li legati ne sostenevano reprensione appresso gli altri pontifici, che gl’incolpavano di non premeditare le cose che possono occorrere, se non quando sopravvengono li grandi pregiudici; che operavano a caso, non admettevano li consegli e avvertimenti delli prudenti; che da principio, udito il voto di Granata, raccordarono che si mettesse mano efficace agli uffici; il che poi è convenuto fare, ma poco a tempo; che per loro inadvertenza (se in alcuni non è stata malizia) sono poste in trattazione materie di consequenze le piú importanti che potessero occorrere in concilio. E s’aggionse che l’ambasciator Lansac con molti negoziamenti fatti con diversi prelati s’era scoperto fautore, e piú tosto promotore, di quell’opinione; e si considerava quanto aumento averebbe ricevuto alla venuta de’ francesi che s’aspettavano; e se ne parlava in modo che qualche parole giongevano anco all’orecchio delli legati medesimi. Li quali, veduto il non preveduto pericolo, oltre li uffici fatti, consegnarono che, per esser la cosa tanto inanzi, e scoperto cosí gran numero, non era piú da pensar di divertir la questione, ma di trovar temperamento per dar qualche sodisfazione a’ spagnoli: e dopo molta consulta pensarono di formar il canone con queste parole: cioè che li vescovi hanno la potestá dell’ordine da Dio, e in quella sono superiori alli preti; non nominando la giurisdizione, per non dar ombra, poiché con una tal forma di parole s’inferiva poi che la giurisdizione resti tutta al papa senza dirlo.

Con questa forma mandarono il padre Soto a trattar con li prelati spagnoli, non tanto per speranza di rimover alcuno di loro, quanto per penetrare quello a che si potessero ridurre. Da Granata non ebbe altro che audienza, senza altra risposta. Si travagliò anco con gli altri, né acquistò se non concetto di buon cortegiano di Roma, in luoco di quello, in che era prima, di buon religioso. Pensavano appresso li pontifici, per acquistar [p. 47 modifica] alcuni delli titubanti e di quelli che incautamente erano passati nell’opinione, ma nel rimanente devoti al pontefice, di far con loro uffici che, conosciuta la difficoltá, dicessero di rimettere al pontefice, o vero almeno parlassero piú ritenutamente: e per far questo, alli doi soprannominati aggionsero l’arcivescovo di Rossano e il vescovo di Ventimiglia. E acciò quelli che si riconoscessero avessero colore di ritirarsi con onore, ordinarono che il Lainez facesse una piena lezione di questa materia; la quale acciò fosse attentamente udita e potesse far impressione, volsero, come s’è detto, che essendo egli l’ultimo, non parlasse dopo gli altri in fine di congregazione, ma ne avesse una tutt’intiera per lui; e fu il voto suo consultato tra tutti e quattro essi gesuiti, adoperandosi sopra gli altri il Cuveglione. E per non tralasciare un buon rimedio di diversione, occuparono li prelati in altra materia, ora ritornando alle cose occorse in quella congregazione. Delle quali dopo ch’ebbe votato per ultimo il general de’ Servi, e confermatosi con li sensi de’ spagnoli, il cardinale di Mantova fece un’ammonizione a’ padri deputati sopra l’Indice, mostrando quanto importante negozio avevano per mano, poiché tutte le sovversioni nascono e l’eresie si disseminano col mezzo de’ libri: li esortò ad usar diligenza e far vedere alla sinodo il fine dell’opera presto; esser ben certo che è di molta fattura e lunghezza, ma considerar anco che tutti li padri contribuiranno fatica per aiuto delli deputati; che si consumano le congregazioni in trattar questioni di nessuna utilitá, e si va procrastinando in opera cosí necessaria: esortò in fine a far opera che questo particolar dell’Indice si potesse definire nella sessione seguente.

Ma la mattina venuta, il Lainez parlò piú di due ore molto accomodatamente con gran veemenzia e magistralmente. L’argumento del discorso suo ebbe due parti. La prima consumò in provare la potestá della giurisdizione esser data tutta intieramente al pontefice romano, e nessun altro nella Chiesa averne scintilla, se non da lui: la seconda passò in risoluzione di tutti gli argomenti addotti nelle precedenti congregazioni [p. 48 modifica] in contrario. La sostanza fu: esser gran differenzia, anzi contrarietá tra la Chiesa di Cristo e le comunitá civili, imperocché queste prima hanno l’essere, e poi si formano il suo governo; e perciò sono libere, e in loro è originalmente e fontalmente ogni giurisdizione, la qual comunicano alli magistrati senza privarsene. Ma la Chiesa non si fece se stessa, né si formò il suo governo; anzi Cristo prencipe e monarca prima statuí le leggi come dovesse esser retta, poi la congregò e, come la divina Scrittura dice, l’edificò; onde nacque serva, senza alcuna sorte di libertá, potestá o giurisdizione, ma in tutto e per tutto soggetta. Per prova di questo allegò luochi della Scrittura, dove l’adunazione della Chiesa è comparata ad un seminato, ad una tratta di rete, ad un edificio; aggionto quello dove si dice che Cristo è venuto al mondo per adunar li fedeli suoi, per congregar le sue pecorelle, per instruirle e con dottrina e con esempio. Poi soggionse: «Il primo e principal fondamento sopra quale Cristo edificò la chiesa fu Pietro e la successione sua, secondo le parole che a lui disse: ‘Tu sei Pietro, e sopra questa pietra fabbricherò la mia Chiesa’; la qual pietra se ben alcuni delli Padri hanno inteso Cristo stesso, ed altri la fede in lui, o vero la confessione della fede, è nondimeno esposizione piú cattolica che s’intenda l’istesso Pietro, che in ebreo o siriaco è detto ripa, cioè ’pietra’». E seguendo il discorso disse che, mentre Cristo visse in carne mortale, governò la Chiesa con assoluto e monarchico governo; e dovendo di questo secolo partire, lasciò l’istessa forma, constituendo suo vicario san Pietro, e li successori, per amministrarlo come era da lui stato esercitato, dandoli piena e total potestá e giurisdizione, e assoggettandogli la Chiesa nel modo che è soggetta a lui. Il che provò di Pietro, perché a lui solo furono date le chiavi del regno de’ cieli, e per consequenza potestá d’introdurre ed escludere, che è la giurisdizione; e a lui solo fu detto: «Pasci (cioè reggi) le mie pecorelle», animale che non ha parte né arbitrio alcuno nella propria condotta. Le qual cose, cioè l’esser clavigero e pastore, essendo perpetui uffici, conviene che siano conferiti in perpetua persona, cioè non nel [p. 49 modifica] primo solamente, ma in tutta la successione. Onde il romano pontefice, incominciando da san Pietro sino alla fine del seculo, è vero e assoluto monarca, con piena e total potestá e giurisdizione; e la Chiesa è a lui soggetta come fu a Cristo. E sí come quando la Maestá sua la reggeva, non si poteva dire che alcuno delli fedeli avesse pur minima potestá o giurisdizione, ma mera, pura e total soggezione, il medesimo s’ha da dire in tutta la perpetuitá del tempo; e cosí s’ha da intender che la Chiesa è un ovile, che è un regno, e quello che san Cipriano dice, che «il vescovato è uno, e da ciascun vescovo n’è tenuta una parte», cioè che in un solo pastore è collocata tutta la potestá indivisa, il quale la partecipa e comunica al li comministri secondo l’esigenza. E a questo risguardando, san Cipriano fece la sede apostolica simile alla radice, al capo, al fonte, al sole, con queste comparazioni mostrando che in quella sola è essenzialmente la giurisdizione, e nelle altre per derivazione o participazione: e questo è il senso delle parole usitatissime dall’antichitá: che Pietro e il pontefice hanno la pienezza della potestá e gli altri sono a parte della cura. E che questo sia solo e unico pastore si prova chiaramente per le parole di Cristo, quando disse che «egli ha altre pecorelle, quali adunerá, e si fará un ovile e un pastore». Quel pastore, di che in quel luoco parla, non può esser esso Cristo, perché non direbbe nel tempo futuro che si fará un pastore, essendo egli giá il pastore; adunque convien intendersi d’un altro unico pastore che dopo di lui doveva esser constituito, che non può esser se non Pietro con la successione sua. E qui notò che il precetto di pascere il gregge non si trova se non due volte nella Scrittura, una in singolare, detto da Cristo a Pietro: «Pasci le mie pecorelle»; l’altra in plurale, da Pietro agli altri: «Pascete il gregge assegnatovi»; e se li vescovi da Cristo ricevessero qualche giurisdizione, quella sarebbe in tutti uguale, e si leverebbe la differenza de’ patriarchi, arcivescovi e vescovi; e in quella autoritá il papa non potrebbe metter mano, minuendola o levandola tutta, come non può metterla nella potestá dell’ordine, che è da Dio. Però guardinsi, che mentre vogliono far l’instituzione

Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino - in.

4 [p. 50 modifica] de’ vescovi de iure divino, che non levino la ierarchia e introducano un’oligarchia, o piú tosto un’anarchia. Aggionse anco che, acciò Pietro ben reggesse la Chiesa, sí che «le porte dell’inferno non prevalessero contra di quella», Cristo vicino alla morte pregò efficacemente che la sua fede non mancasse, e gli ordinò che «confirmasse li fratelli», cioè gli diede privilegio d’infallibilitá nel giudicio della fede, dei costumi e di tutta la religione, obbligando la Chiesa tutta ad ascoltarlo e star confermata in quello che fosse determinato da lui. Concluse che questo era il fondamento della dottrina cristiana e la pietra sopra qual la Chiesa era edificata; e passò a censurare quelli che tenevano esser alcuna potestá nei vescovi ricevuta da Cristo, perché sarebbe un levar il privilegio della chiesa romana, che il pontefice sia capo della Chiesa e vicario di Cristo. E si sa molto bene quello che dall’antico canone Omnes sive patriarchæ è statuito, cioè chi leva le ragioni delle altre chiese commette ingiustizia, ma chi leva i privilegi della chiesa romana è eretico. Aggionse esser una mera contradizione voler che il pontefice sia capo della Chiesa, che il governo sia monarchico, e poi dire che vi sia potestá o giurisdizione non derivata da lui, ma ricevuta da altri.

Nel risolvere le ragioni in contrario dette, discorse che, secondo l’ordine da Cristo instituito, li apostoli dovevano esser ordinati vescovi non da Cristo, ma da Pietro, ricevendo da lui solo la giurisdizione: e cosí molti dottori cattolici anco tengono che fosse fatto: la qual opinione è molto probabile. Li altri però, che dicono li apostoli esser stati ordinati vescovi da Cristo, aggiongono che, ciò facendo, la Maestá sua prevenne l’ufficio di Pietro, facendo per quella volta quello che a lui toccava, dando agli apostoli esso quella potestá che dovevano aver da Pietro, appunto come Dio pigliò dello spirito di Mosè e lo comparti alli settanta giudici. Onde tanto fu, come se da Pietro fossero stati ordinati e da lui avessero ricevuto tutta l’autoritá; e però restarono soggetti a Pietro quanto alli luochi e modi di esercitarla: e se non si legge che Pietro li correggesse, ciò non esser stato per defetto di potestá, ma perché [p. 51 modifica] esercitarono rettamente il loro carico. E chi leggerá il celebrato e famoso canone Ita Dominus, si certificherá che cosí debbe tenir ogni uomo cattolico: e cosí li vescovi, che sono successori degli apostoli, la ricevono tutta dal successor di Pietro. E avvertí anco che li vescovi non si dicono successori degli apostoli, se non perché in luoco loro sono, al modo che un vescovo succede a’ suoi precessori; non che da loro siano stati ordinati. Rispose poi, a quelli che avevano inferito che adunque il papa potrebbe lasciar di far vescovi e voler esso esser unico, esser ordinazione divina che nella Chiesa vi sia moltitudine de vescovi coadiutori del pontefice, e però esser il pontefice ubbligato a conservarli; ma esser gran differenzia a dire alcuna cosa de iure divino o veramente ordinata da Dio. Le cose de iure divino instituite sono perpetue, e da lui solo dependono, e in universale e in particolare, in ogni tempo. Cosí de iure divino è il battesmo e tutti gli altri sacramenti, nelli quali Dio opera singolarmente in ogni particolare. Cosí è da Dio il romano pontefice; perché quando uno muore, le chiavi non restano alla Chiesa, perché a lei non sono date; e creato il novo, Dio immediatamente gliele dá. Ma altrimenti avviene nelle cose di ordinazione divina, dove da lui solamente vien l’universale, e li particolari sono eseguiti dagli uomini. Cosí dice san Paulo che li prencipi e potestá temporali sono ordinati da Dio, cioè da lui vien un universal precetto che vi siano i prencipi, ma però i particolari sono fatti per leggi civili. A questo medesimo modo li vescovi sono per ordinazione divina; e san Paulo disse che sono posti dallo Spirito santo al reggimento della Chiesa, ma non de iure divino. E però il papa non può levar l’ordine universale del far vescovi nella Chiesa, perché è da Dio; ma ciascun particolare, essendo de iure canonico, per autoritá pontificia può esser levato. E all’opposizione fatta che li vescovi sarebbono delegati e non ordinari, rispose che conveniva distinguere la giurisdizione in fondamentale e derivata: e la derivata in delegata e ordinaria. Nelle repubbliche civili la fondamentale è nel prencipe, in tutti li magistrati è la derivata. Né gli ordinari sono differenti da’ [p. 52 modifica] delegati, perché ricevino l’autoritá da diversi; anzi dalla medesima sopranitá derivano ugualmente tutti; ma la differenzia sta perché gli ordinari sono per legge perpetua, e con successione, li altri hanno autoritá singolare, o in persona, o anco in caso. Però sono li vescovi ordinari, per esser instituiti per legge pontificia, dignitá di perpetua successione nella Chiesa. Soggionse che quei luochi dove pare che da Cristo sia data autoritá alla Chiesa, come quello dove dice: «che è colonna e base della veritá», e quell’altro: «chi non udirá la Chiesa, sia tenuto per etnico e pubblicano», tutti s’intendono per ragion del capo suo, che è il papa; e perciò non può fallar la Chiesa, perché non può fallar il capo; e cosí è separato dalla Chiesa chi è separato dal papa, capo di quella. E per quello che fu detto, che né meno il concilio averebbe autoritá da Cristo se nessun delli vescovi l’avesse, rispose che ciò non era inconveniente, ma consequenza molto chiara e necessaria; anzi se ciascuno delli vescovi in concilio può fallare, non si poteva negar che non potessero fallar anco tutti insieme; e se l’autoritá del concilio venisse dall’autoritá dei vescovi, mai si potrebbe chiamar generale un concilio, dove il numero delli presenti è incomparabilmente minore che delli assenti. Raccordò che in quel concilio medesimo sotto Paulo III furono difiniti principalissimi articoli (de’ libri canonici, dell’autoritá delle interpretazioni, della paritá delle tradizioni alla Scrittura) in un numero di cinquanta e meno; che se la moltitudine dasse autoritá, tutto caderebbe. Ma sí come un numero de prelati dal pontefice congregati per far concilio generale, sia quanto picciolo si vuole, non d’altronde ha il nome e l’efficacia di esser generale, se non perché il papa gliela dá, cosí anco non ha d’altrove l’autoritá; e però se statuisce precetti o anatemi, quelli non operano niente se non in virtú della futura confirmazione del pontefice. Né il concilio può astringere con li anatemi suoi, se non quanto averanno forza dalla confermazione. E quando la sinodo dice d’esser congregata in Spirito santo, altro non vuol dire se non che li padri siano congregati secondo l’intimazione del pontefice per trattar quello che, [p. 53 modifica] venendo approbato dal pontefice, sará decreto dello Spirito santo. Altrimenti come si potrebbe dire che un decreto fosse fatto dallo Spirito santo, e potesse per autoritá pontificia esser invalidato o avesse bisogno di maggior confermazione? E però nelli concili, quanto si voglia numerosi, quando il papa è presente, egli solo decreta; né il concilio vi mette del suo, se non che approva, cioè li riceve; e in tutti li tempi s’è detto solamente: sacro approbante concilio; anzi, che nelle determinazioni di supremo peso, come fu la deposizione dall’imperio di Federico II, nel concilio generale di Lione, Innocenzo IV, sapientissimo pontefice, ricusò l’approbazione della sinodo, acciò non paresse ad alcuno che fosse necessaria, e li bastò dire: sacro præsente concilio. Né per questo si debbe dir superfluo il concilio, perché si congrega per maggior inquisizione, per piú facile persuasione, e anco per dar gusto alle persone; e quando giudica, lo fa in virtú dell’autoritá pontificia, derivata dalla divina, datagli dal papa. E per queste ragioni li buoni dottori hanno sottoposto l’autoritá del concilio all’autoritá del pontefice, come tutta dependente da questa, senza la quale non ha né assistenzia dello Spirito santo, né infallibilitá, né potestá di ubbligar la Chiesa, se non in quanto li è concessa da quel solo a chi Cristo ha detto: «Pasci le mie pecorelle».

Non fu in questo concilio discorso piú lodato e biasmato, secondo il diverso affetto degli audienti. Dalli pontifici era predicato per il piú dotto, risoluto e fondato; dagli altri notato per adulatorio, e da altri anco per eretico: e molti si lasciavano intendere d’esser offesi per l’aspra censura da lui usata, e aver animo nelle seguenti congregazioni con ogni occasione d’arguirlo e notarlo d’ignoranza e di temeritá. E il vescovo di Parigi, che era indisposto in casa nel tempo che sarebbe a lui toccato di votare, diceva ad ognuno che, quando si fosse fatta congregazione, voleva dir il parer suo contra quella dottrina, senza rispetto; la quale, inaudita nelli passati secoli, era stata inventata giá cinquant’anni dal Gaetano per guadagnar un cappello; che dalla Sorbona fu in quei tempi censurata; e in luoco del regno celeste, che cosí è chiamata la Chiesa, [p. 54 modifica] fa non un regno, ma una tirannide temporale; che leva alla Chiesa il titolo di sposa di Cristo e la fa serva prostituta ad un uomo; vuole un solo vescovo instituito da Cristo, e gli altri vescovi non aver potestá se non dependente da quello; che tanto è quanto a dire che un solo sia vescovo, e gli altri suoi vicari amovibili a beneplacito. Che egli voleva eccitare tutto il concilio a pensar come l’autoritá episcopale, tanto abbassata, si possi tener viva che non vadi a fatto in niente; perché ogni nova congregazione de regolari che nasce li dá qualche notabil crollo. Li vescovi aver tenuto l’autoritá sua intiera sino al 1050: allora, per opera delle nove congregazioni cluniacense e cistercense, e altre in quel secolo nate, esser dato un notabil colpo, essendo per opera di quelli ridotte in Roma molte delle funzioni proprie ed essenziali alli vescovi. Ma dopo il 1200, nati li Mendicanti, esser stato levato quasi tutto l’esercizio dell’autoritá episcopale, e dato a loro per privilegio. Ora questa nova congregazione l’altro dí nata, che non è ben né secolare né regolare (come otto anni prima la universitá di Parigi aveva molto ben avvertito, e conosciutola pericolosa nelle cose della fede, perturbatrice della pace della Chiesa e destruttiva del monacato) per superar li suoi precessori tenta di levar a fatto la giurisdizione episcopale col negarla data da Dio, ma volere che sia riconosciuta precaria dagli uomini.

Queste cose, a diversi dal vescovo replicate, mossero molti altri a pensarvi, che prima non vi attendevano. Ma fra quelli che qualche gusto dell’istoria sentivano, non meno si parlava di quell’osservazione: sacro præsente concilio, la qual appariva in tutti li testi canonici, [ma], per non esser stata avvertita, era a tutti nova: e chi approvava l’interpretazione del gesuita, chi interpretava in senso contrario a lui che il concilio avesse ricusato di approbare quella sentenzia: altri, per diversa via procedendo, discorrevano che, trattandosi in quell’occasione di cosa temporale e contenzioni mondane, può essere che il negozio passasse in uno o in l’altro modo, ma non bisognava da questo tirare consequenza che convenisse [p. 55 modifica] l’istesso fare, trattando materia di fede o de riti ecclesiastici; massime osservato che nel primo concilio degli apostoli, che doverebbe esser norma ed esemplare, il decreto non fu fatto né da Pietro in presenza del concilio, né da lui con approbazione, ma fu intitolata l’epistola con li nomi di tre gradi intervenienti in quella congregazione: apostoli, vecchi e fratelli; e Pietro restò incluso in quel primo senza prerogativa. Esempio che per l’antichitá e autoritá divina debbe levar il credito a tutti quelli che dai tempi seguenti, eziandio da tutti insieme, possono essere dedotti. E per qualche giorno in tutto Trento quel ragionamento del gesuita, per li sopradetti e altri ponti, somministrò materia a molti discorsi, e per ogni luoco d’altro non si parlava.

Li legati sentivano dispiacere che quel rimedio, applicato da loro per medicina, partorisse effetto contrario, vedendo che doveva esser causa di far allongar li voti nelle congregazioni; né sapevano come impedirli; perché avendo quel padre parlato due ore e piú, non si vedeva come interrompere chi li volesse contradire, e massime a propria difesa. E intendendo che egli distendeva il suo discorso per darlo fuori, lo chiamarono, e li proibirono che non lo comunicasse con alcuno, per non dar occasione ad altri di scrivere in contrario, avendo inanzi gli occhi il male che seguí per aver il Catarino dato fuori il voto suo della residenza, di dove ne riuscí tutto il male che ancor continuava piú ingagliardito. Ma egli non si potè contenere di darne copia ad alcuni, cosí stimando di onorare e ubbligare li pontifici alla Societá sua nascente, come anco per moderare in scrittura alcuni particolari, detti troppo petulantemente in voce. Molti si accinsero per scriver in contrario, e durò questo moto sin tanto che la venuta de’ francesi fece andar in oblivione questa differenza, con introdurne di piú considerabili e importanti.

Si frequentavano tuttavia li consegli de’ pontifici contra li spagnoli, e le pratiche appresso li prelati che stimavano poter guadagnare. E opportunamente si offerí alli legati un dottor spagnolo, cognominato Zanel, che li propose modi di metter [p. 56 modifica] li prelati di quella nazione in difesa e darli altro che pensare; e li presentò tredici capi di riforma che li toccavano molto al vivo. Non però se ne potè cavar il frutto aspettato, perché quelle riforme ricercavano altre parimente toccanti la corte, quali fecero desister dal proseguir inanzi, per non far secondo il proverbio, di perder due occhi per privar d’uno l’avversario. Le pratiche furono tanto scoperte che in un convito de molti prelati, in casa delli ambasciatori francesi, essendo introdotto ragionamento della consuetudine de’ concili vecchi (non servata in questo) che li presidenti del concilio e li ambasciatori de’ prencipi dicevano il voto loro, rispose Lansac tutt’ad alta voce che li legati dicevano vota auricularia; e fu benissimo inteso da tutti che inferiva delle pratiche.