Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo IV
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CAPITOLO IV
(21 ottobre - 2 novembre 1562).
[L’imperatore insiste perché il concilio dia opera alla riforma, rinviando la trattazione dogmatica. Rifiuto dei legati. — Ricevimento dell’ambasciatore polacco. — Difficoltá in concilio per il prossimo arrivo dei francesi e pel dissenso sul de iure divino. — Le congregazioni sospese per piú giorni. — Insistenze dei due partiti presso i legati perché si giunga ad una decisione, ciascuno nel proprio senso. — Opera di persuasione del Pescara presso gli spagnoli, i quali appellano al re. — I legati ripropongono la trattazione della riforma: difficoltá di accordarsi sul decreto. — Ancora dell’istituzione dei vescovi de iure divino: contrasto su quanto giá ne aveva pensato il concilio nella convocazione al tempo di Giulio III.]
In questi giorni che le congregazioni si tenevano, presentò il Cinquechiese lettere dell’imperatore alli legati, dove scriveva che, avendo essi sodisfatto l’animo loro in pubblicare li canoni del sacrificio della messa, si trattenissero di camminar inanzi intorno li sacramenti dell’ordine e del matrimonio, e in tanto trattassero della riforma, rimettendo alla prudenzia loro, intorno le cose proposte per suo nome, di trattare quella parte che piú loro piacesse. E in conformitá della lettera parlò il Cinquechiese, facendo la medesima richiesta, instando che essendo la materia dell’ordine tanto oltre, si dovesse almeno trattenir quella del matrimonio, acciò che tra tanto nella dieta l’imperator potesse disporre li germani ad andare e sottomettersi al concilio: imperocché quando tedeschi e francesi restino nella resoluzione loro di non voler andarvi né riconoscerlo, vanamente li padri si trattengono con tanta spesa e con tanti incomodi: e quando Sua Maestá vederá di non poterli persuadere, procurerá che il concilio si suspendi, giudicando dover esser piú servizio di Dio e beneficio della Chiesa il lasciar le cose indecise e nello stato che sono (aspettando tempo piú opportuno per la conversione di quelli che si sono separati), che col precipitare (come sino a quell’ora si era fatto) la decisione delle cose controverse, in assenza di chi le ha messe in disputa e senza alcun beneficio delli cattolici, render li protestanti irreconciliabili: ma in questo mezzo si trattasse della riforma. Che li beni ecclesiastici siano distribuiti a persone meritevoli, e fatta la parte sua a tutti; e l’entrate siano ben dispensate, e la parte de’ poveri non sia usurpata da alcuno; e altre tali cose. In fine ricercò se, andando il conte di Luna con titolo d’ambasciator dell’imperatore, cesserá la differenza di precedenza tra Spagna e Francia. Li legati a quest’ultimo risposero che non credevano che resterebbe alcun pretesto a’ francesi di contendere: e quanto alle altre parti, dissero che non si può lasciar di trattar de’ dogmi, ma che ben insieme si tratterá della riforma gagliardamente, seguitando l’instituto del concilio. Lodarono l’intenzione dell’imperatore di ricercar che li protestanti si sottomettino, non restando però di aggiongere che con questa speranza non si debba mandar il concilio in longo, perché anco Carlo imperatore nel ponteficato di Giulio III procurò il medesimo, e l’ottenne anco, ma fu dalli tedeschi camminato fintamente, con danno e della Chiesa e dell’imperatore medesimo. Però non era giusto che il concilio si movesse di passo, se prima l’imperator non fosse ben certificato dell’animo delli prencipi e populi, cosí cattolici come protestanti, e della qualitá dell’obedienzia che fossero per prestare alli decreti stabiliti e da stabilirsi in questo concilio e ne’ passati, ricercando l’osservanza del concilio con mandati autentici delle terre e delli principi, e ricevendo obbligazioni da loro dell’esecuzione delli decreti, acciò le spese e le fatiche non fossero vane e derise. E in conformitá di questo risposero anco alla Maestá cesarea.
Il 25 ottobre fu fatta congregazione per ricever Valentino Erbuto vescovo premisliense, ambasciator di Polonia, il quale fece un breve ragionamento della devozione del re, delli tumulti del regno per causa della religione, del bisogno che vi era d’una buona riforma e di usare qualche remissione, condescendendo alle richieste dei populi nelle cose che sono de iure positivo. Al che fu resposto dal promotore per nome della sinodo, ringraziando il re e l’ambasciatore e offerendosi in tutti li servizi del regno. Né permisero li legati che in quella congregazione fosse di altro trattato, per la causa che di sotto a luoco suo si dirá.
La corte in Roma e li pontifici in Trento non erano meno travagliati per la molestia che ricevevano dalli spagnoli e aderenti in concilio, che per l’espettazione della venuta di Lorena e delli francesi; della quale non furono tanto commossi quando vi era speranza di qualche intoppo che li fermasse, come dopo che andò certa nova che egli doveva far il giorno di Tuttisanti col duca di Savoia. Alla corte di Francia, prima che partisse, e nel viaggio in diversi luochi, il Cardinal, o per vanitá o a disegno, con molti s’era lasciato intendere di voler trattar assai e diverse cose in diminuzione dell’autoritá pontificale e contrarie alli comodi della corte; le quali rapportate per diverse vie a Roma e a Trento, fecero impressione nell’uno e l’altro luoco che in generale l’intento de’ francesi fosse di portar in longo il concilio, e secondo le occasioni andar scoprendo e tentando li particolari disegni: e avevano giá congetture per credere che non fosse senza intelligenza dell’imperatore e altri principi e signori di Germania. E se bene si teneva per certo che il re cattolico non avesse intiera intelligenza con questi, nondimeno potenti indici inducevano a credere che esso ancora disegnasse mandar in longo il concilio, o almeno non lo lasciar chiudere. E per contrapporsi si pensava di metter inanzi gli abusi del regno di Francia, e far passare alle orecchie degli ambasciatori che vi sia disegno di provvederci; imperocché tutti li principi che fanno instanza di reformar la Chiesa non vorrebbono sentir toccar i loro abusi; laonde quando si mettesse mano in cosa importante che a loro potesse portar pregiudicio, desisterebbono e farebbono desistere li loro prelati dalle cose pregiudiciali alla sede apostolica. Però, passate qualche mani di lettere tra Roma e Trento, essendo giudicato buon il rimedio, furono posti insieme gli abusi che si pretendeva esser in Francia principalmente, e in parte negli altri domini; e di qui ebbe principio la riforma de’ principi, che nella narrazione delle cose seguenti ci dará gran materia.
Ma oltre di questo fu giudicato in Roma buon rimedio che li legati troncassero il tanto ardir delli prelati, usando l’autoritá e superioritá piú di quello che per il passato avevano fatto. E in Trento era stimato buon rimedio che fossero tenuti uniti, ben edificati e sodisfatti li prelati amorevoli, perché, se ben crescessero li voti della parte contraria, essi sempre avanzerebbono di numero e sariano patroni delle risoluzioni; e senza rispetto si camminasse inanzi all’espedizione per finir il concilio, o per suspenderlo, o per trasferirlo. Scrissero anco, e fecero scrivere da molti delli prelati pontifici agli amici e patroni loro in Roma, che miglior risoluzione o provvisione non si potrebbe fare quanto porger qualche occasione, la qual agevolmente si potrebbe trovare, che la suspensione fosse ricercata da qualche prencipe, non lasciando passar la prima che si presentasse; e per questo effetto dimandavano da Roma diversi brevi in materia di translazione, suspensione e altri modi, per valersene secondo l’occasione. Consigliarono anco il pontefice che si transferisse personalmente a Bologna; imperocché oltra il ricever piú frequenti e freschi avvisi, e poter in un momento far le provvisioni occorrenti e necessarie, averebbe colorata ragione con ogni minima occasione di transferir il concilio in quella cittá, o vero di suspenderlo; avvertendo che sí come essi di questo non comunicavano cosa alcuna col Cardinal Madruccio, cosí in Roma non si lasciasse penetrar all’orecchie del Cardinal di Trento suo zio, li quali per molti rispetti e particolari interessi si poteva esser certi dover far ogni ufficio acciò che non si levasse di Trento.
E per fermar il bollor concitato nella controversia della instituzione de’ vescovi, anzi acciò non crescesse per tanti preparati a contradir al Lainez, fermarono per molti giorni di far congregazione. Ma l’ozio fomentava le opinioni, né d’altro si sentiva parlar in ogni canto; e li spagnoli si trovavano spesso insieme con loro aderenti sopra questa trattazione, e quasi ogni giorno tre o quattro di loro andavano a ritrovar alcuno delli legati per rinnovar l’instanzia. Ed un giorno avendo il vescovo di Guadici con altri quattro, dopo la proposta, aggionto che sí come confessavano che la giurisdizione appartenesse al papa, cosí si contentavano che si aggiongesse nel canone, credettero li legati che li spagnoli, riconosciuti, volessero confessare tutta la giurisdizione esser nel papa, e da lui derivare. Ma quando furono a voler maggior dechiarazione, disse quel vescovo che, sí come un principe instituisce nella cittá il giudice di prima instanza e il giudice di appellazione, il qual se ben è superiore, non può però levar l’autoritá all’altro né occuparli li casi a lui spettanti, cosí Cristo nella Chiesa aveva instituito tutti li vescovi, e il pontefice superiore, nel qual era la suprema giurisdizione ecclesiastica, ma non sí che gli altri non avessero la propria dependente da solo Cristo. Il Cinquechiese si doleva con ciascuno che si perdesse tanto tempo senza far congregazione, il quale s’averebbe potuto spender utilmente, se li legati a studio, secondo il loro solito, non lo lasciassero perdere, per dare li capi della riforma solo l’ultimo giorno, a fine di non lasciar spazio che se gli possa far considerazione, né meno parlarli sopra. Ma li legati non stavano in ozio essi, pensando tuttavia di trovar qualche forma a quel canone che potesse esser ricevuta, e mutandole anco piú d’una volta al giorno: le qual formule andando attorno, e mostrando la titubazione dei legati, non solo li spagnoli prendevano animo di perseverar nella loro opinione, ma di parlar anco con maggior libertá: tanto che in congresso di gran numero di prelati Segovia non ebbe rispetto di dire «che una parola voleva esser causa della ruina della Chiesa».
Erano passati sette giorni senza alcuna congregazione, quando il dí 30 ottobre, essendo li legati in consultazione come negli altri giorni inanzi, tutti li spagnoli, insieme con alcuni altri, ricercarono audienza, e fecero di novo instanza che si difinisse l’instituzione e superioritá de’ vescovi de iure divino, aggiongendo che se non si facesse, si mancherebbe di quello che è giusto e necessario in questi tempi per dilucidazione della veritá cattolica, e protestando di non intervenir piú né in congregazione né in sessione. Il che udito [da] molti prelati italiani, concertati insieme in casa del Cardinal Simonetta, nella camera di Giulio Simonetta vescovo di Pesaro, la mattina seguente si presentarono alli legati tre patriarchi, sei arcivescovi e undici vescovi, con richiesta che nel canone non fosse posto la superioritá esser de iure divino, essendo cosa ambiziosa e indecente che essi medesimi facessero sentenzia in propria causa, e perché la maggior parte non la volevano; e che l’instituzione non fosse dechiarata de iure divino, per non dar occasione di parlare della potestá del pontefice, la qual volevano e dovevano confirmare. Il che pubblicato per Trento, diede materia di parlare che li medesimi legati avessero procurata questa instanza. Onde dopo il vespero se ne ridusse maggior numero in sacristia a favore dell’opinione spagnola, e altri in casa del vescovo di Modena per la medesima; e con l’arcivescovo d’Otranto e con quelli di Taranto e di Rossano e col vescovo di Parma si fecero quattro altre reduzioni de’ pontifici. E il tumulto passò tanto inanzi, che li legati ebbero dubbio di qualche scandalo; e giudicarono necessario non pensare a poter far la sessione al tempo disegnato, ma, inanzi che venir alla risoluzione di quell’articolo che era causa di tanto moto, far parlar sopra li capi della dottrina e proponer qualche cosa di riforma, lamentandosi spesso Simonetta che era poco aiutato da Mantoa e da Seripando, che, se ben facevano qualche opera, non potevano però a fatto occultar il loro intrinseco, che inclinava agli avversari.
Vennero lettere credenziali del marchese di Pescara alli principali prelati spagnoli, con commissione al suo secretarlo di far gagliardi uffici con loro, avvertendoli di non toccar cosa di pregiudicio della santa sede, con accertarli che il re ne sentirebbe gran dispiacere e ne seguirebbono eziandio pregiudici grandi alli suoi regni; e che non si poteva aspettar dalla prudenzia loro che facessero risoluzione in alcun particolare, non sapendo prima la volontá di Sua Maestá: dandoli anco ordine d’avvisarlo se alcuno delli prelati facesse poca stima dell’avvertimento o fosse renitente nell’eseguirlo, essendo mente del re che stiano uniti in devozione di Sua Santitá: e occorrendo li spedisca corrieri espressi. Granata, uno di quelli, rispose non aver avuto mai intenzione di dir cosa contra il pontefice, e aver giudicato che quanto diceva per l’autoritá de’ vescovi fosse a beneficio di Sua Santitá, tenendo per certo che, diminuendosi l’autoritá loro, si dovesse diminuir l’obedienzia alla santa sede, benché egli per la sua vecchiezza sappia non doversi trovar a quel tempo; che l’opinion sua era cattolica, per quale averebbe sofferto di morire; che vedendo tanta contrarietá, stava mal volontieri in Trento, aspettando poco frutto; e che perciò aveva dimandato licenza a Sua Santitá e a Sua Maestá, desiderando molto di ritornarsene; che nel suo partir di Spagna non aveva ricevuto altro comandamento dal re e da’ suoi ministri, se non di aver mira al servizio divino e alla quiete e riforma della Chiesa, al che anco aveva sempre mirato; che credeva non aver contravvenuto alla volontá del re, se ben non faceva professione di penetrarla; ma ben sapeva che li principi, quando sono ricercati, e massime da’ ministri, facilmente compiacciono di parole generali. Segovia anco rispose l’animo suo mai esser stato di dir cosa alcuna in desservizio di Sua Santitá, ma che non poteva piú ridirsi, tenendo d’aver detto veritá cattolica: né poteva dir piú di quello che aveva detto, non avendo dopo né piú visto né studiato altra cosa intorno tal materia. Si ritirarono poi tutti insieme, e spedirono alla corte un dottore familiare di Segovia, con istruzione d’informar Sua Maestá che non potevano esser ripresi né essi né altri prelati se non sapevano secondare i pensieri di Roma, perché non potevano proponer cosa alcuna, ma solo dir il parer proprio sopra le cose proposte dalli legati, come ben era noto a Sua Maestá; che sarebbe cosa troppo ardua volerli interrogare e obbligarli a rispondere contra quello che in conscienzia sentono; esser sicuri che offenderebbono Dio e Sua Maestá quando altrimenti facessero; non poter esser ripresi del parlar intempestivo, non essendo proposta, ma risposta. Quando in alcuna cosa abbiano commesso errore, esser pronti a correggerlo secondo il comandamento di Sua Maestá; ma aver parlato secondo la dottrina cattolica in termini tanto chiari che sono certi tutto dover essere approbato da lei, supplicandola degnarsi di ascoltarli prima che far di loro alcun sinistro concetto.
Non s’ingannavano quei prelati, credendo che procedesse piú dalli ministri che dal re; imperocché il Cardinal Simonetta fece ufficio in questo tempo medesimo con un altro spagnolo, secretarlo del conte di Luna, persuadendolo che, dovendo esso conte intervenir al concilio, era necessario che vi andasse preparato a tener quei prelati in officio, altrimenti ne seguirebbe non solo pregiudicio alla Chiesa di Dio, ma anco alli regni di Sua Maestá, essendo il principal loro intento di assumersi ogni autoritá e aver nelle loro chiese libera amministrazione; e persuase anco il secretario del Pescara di andar incontra al Luna, e informarlo delli disegni e audacia delli prelati medesmi, e persuaderlo che il reprimerli fosse servizio del re. E il Cardinal varmiense scrisse una longa lettera al padre Canisio alla corte cesarea in conformitá, acciò facesse l’istesso ufficio col medesimo conte.
Data fuori la dottrina tratta dalli pareri detti nelle congregazioni d’innanzi, di novo si cominciarono a dir li voti sopra di quella il 3 del mese di novembre; ma inanzi il Cardinal Simonetta ammoní li suoi a parlar riservatamente e non scorrere in parole irritative, poiché quel tempo ricercava piú tosto che gli animi si addolcissero. Ma avendosi per tre giorni parlato di quella, e per la connessione delle materie ritornandosi spesso nella controversia, pensarono li legati esser necessario proponer anco alcuna cosa di riforma; massime perché, avvicinandosi li francesi, il vescovo di Parigi andava pubblicamente dicendo che sarebbe tempo di darli principio, con satisfazione della francese e delle altre nazioni, deputando prelati di ciascuna che avessero a considerar li bisogni di quei paesi, non potendo gl’italiani né in Trento né in Roma saperli; che sino allora non s’era fatta riformazione alcuna, tenendosi per nullo quello che giá era statuito. Ma li legati, dovendo proponer riforma, giudicarono necessario, per non dar occasione a molti inconvenienti, incominciar dalla residenzia.
Giá è stato narrato quello che il pontefice scrisse in questa materia; dopo il che li legati e li aderenti furono in continuato pensiero di formar un decreto, che potesse satisfare al pontefice, avendo anco risguardo alla promessa fatta alli prelati dal Cardinal di Mantoa. Perché il proponer alla prima di rimetter al papa pareva contrario a quella promissione, e vi era gran difficoltá che decreto proporre; al qual se fosse stato posto difficoltá, si potesse voltar al negozio di rimetterlo. Fecero scandaglio di quelli che s’averebbono potuto tirar nella remissione e delli totalmente contrari; e trovarono il concilio in tre parti quasi pari diviso: in queste due, e in una terza, che averebbe voluto la difinizione in concilio senza offesa di Sua Santitá, de’ quali vi era speranza far guadagno della maggior parte, e superar gli avversari. Fecero il ripartimento, e furono gli uffici cosí efficaci, che oltre agli altri guadagnarono sette spagnoli, tra’ quali furono Astorga, Salamanca, Tortosa, Patti ed Elna, adoperandosi gagliardamente in questo il vescovo di Mazzara.
Quattro partiti furono proposti per venir all’esecuzione. L’uno, un decreto con soli premi e pene; l’altro, che molti prelati facessero instanzia alli legati che il negozio fosse rimesso al papa, e questa richiesta fosse letta in congregazione, sperando che per le pratiche tanti si vi dovessero accostare, che il numero passasse la metá; il terzo, che li legati proponessero la remissione in congregazione; il quarto, che senza altro dire il pontefice facesse una gagliarda provvisione, la qual immediate si stampasse e pubblicasse per ogni parte inanzi la sessione, ché cosí li contrari, prevenuti, sarebbono stati costretti contentarsi. Al primo si opponeva che sarebbono stati contrari tutti quelli che hanno dimandato la dechiarazione de iure divino, e stimeranno li premi e pene non poter far effetto tanto efficace quanto la dechiarazione, massime essendovene giá decreti de concili e pontefici non mai stati stimati. Vi sarebbe anco differenzia nel statuir le pene e nel statuir delli premi. Li prelati faranno dimande impertinenti, vorranno la collazione delli benefici, almeno curati, dimanderanno l’abolizione delli privilegi de’ regolari e altre cose esorbitanti; e si stará sempre in pericolo di mutazione dopo la proposta, sin che sia passata in sessione, e massime venendo li francesi, che potriano dimandar di ritrattarlo. Al secondo era opposto che non s’averebbe potuto eseguir senza strepito nel ridur li prelati insieme a far instanzia; che quelli che non fossero chiamati si sdegnerebbono e piegherebbono alla parte contraria; che li contrari farebbono anch’essi unioni e strepiti, e si lamenterebbono delle pratiche. Al terzo si opponeva che li avversari direbbono non esser stato assentito volontariamente, ma per non mostrarsi diffidenti di Sua Beatitudine, e per non esserci libertá di parlare; e se non fosse consentito, sarebbe un aver posto in dubbio l’autoritá pontificia; senzaché anco si direbbe che questa remissione fosse stata bramata da Sua Santitá. Al quarto si opponeva che, non leggendo in concilio la bolla del pontefice, si dava occasione alli padri di dimandar tuttavia la difinizione; e leggendola anco, si poteva temere che alcuni potessero dimandar provvisione maggiore, e il tutto riuscirebbe con poca dignitá. Ma vedendo tante difficoltá, andavano portando il negozio inanzi, se ben con poca sodisfazione universale. Essendosi giá pubblicato che se ne doveva parlare, finalmente, constretti risolversi, il giorno delli 6 novembre, abbracciato il partito di proponer un decreto con premi e pene, dopo aver parlato alquanti padri sopra la materia corrente, il Cardinal di Mantoa con destre e accomodate parole lo propose, dicendo in sustanzia che era cosa necessaria, ricercata da tutti i principi; che l’imperatore molte volte ne aveva fatto instanzia e dolutosi che non fosse espedito questo capo immediate, e che, coll’aversi occupato in vane questioni che non importano al caso, s’abbia differita la conclusione principale; che questa non è materia che abbia bisogno di disputa, ma solo di trovar modo come esequire quello che ciascun giudica necessario; che il re cattolico e il cristianesimo avevano fatto instanzia del medesimo, e che tutto il populo cristiano desiderava veder la provvisione; che in tempo di Paulo III si parlò in questa materia, e poco pertinentemente da alcuni fu passato in superflue questioni, le quali prudentemente furono messe in silenzio allora: per le medesime ragioni si vede non esser bisogno di trattare adesso altro che quello che nel decreto è proposto. E tra le altre cose disse che si erano confermati col parere dell’ambasciator Lansac, il qual con buone ragioni molte volte aveva dimostrato non doversi altro ricercare, se non che la residenzia si faccia, non importando saper di onde l’obbligo venga.
Nel decreto, tra le altre particole, vi era che li vescovi residenti non fossero tenuti a pagar decime, sussidi o qualunque altro gravame imposto con qualsivoglia autoritá, eziandio ad instanzia de’ re e prencipi. Questo particolare mosse grandemente tutti gli ambasciatori; ma Lansac, dissimulandolo, si dolse col Cardinal di Mantoa che l’avesse nominato senza avergliene fatto motto prima, concedendo d’aver parlato con esso lui in quel tenore, ma come amico particolare e non come ambasciatore; e per far la sua querela piú grave, vi aggionse dolersi anco che avesse nominato il cattolico inanzi il cristianissimo. Delle decime non disse altro, sperando, col moto da lui fatto e con qualche opposizione che averebbono fatto li fautori del ius divino, poter impedir quella forma di decreto. Il Cinquechiese ancora non passò piú inanzi, se non che disse non creder che la mente dell’imperatore fosse come il Cardinal propose. Ma il secretario del marchese di Pescara ricercò apertamente che le parole si accomodassero in modo che non pregiudicassero alla grazia fatta dal pontefice a Sua Maestá cattolica per il sussidio delle galere. Credettero li legati con questo aver guadagnato l’animo delli prelati; ma quelli, dopo intesa l’eccezione per Spagna, incominciarono tra loro a dire che se li voleva far grazia di quello che non se gli poteva concedere, perché in Spagna e in Francia e sotto qualunque altro principe sarebbono stati costretti pagare; e anco nello stato della Chiesa, con un non obstantibus, la grazia li sarebbe resa vana.
Il giorno seguente dalla residenza si passò nell’ordine episcopale. E avendo Segovia replicato che la instituzione delli vescovi de iure divino fu trattata e risoluta nel medesimo concilio nel tempo di Giulio III con approbazione di tutti, e che egli ne aveva detto la sua sentenzia (e specificò il giorno e l’ora, quando ciò fu), il Cardinal di Mantoa fece pigliar gli atti di quel tempo e legger dal secretario quello che fu difinito allora per pubblicare, dandogli esposizione, per la qual concludeva che non fu né deciso, né esaminato, né proposto nel modo che da Segovia era stato detto. Al che replicando quel vescovo, se ben con parole in apparenzia reverenti, successero tante repliche che convenne finir la congregazione.
E perché desidererá forse alcuno d’intendere qual di loro parlava con fondamento, sará a proposito portar qui quello che allora fu deciso nelle congregazioni, se ben non pubblicato in sessione, per la repentina dissoluzione del concilio a suo luoco narrata. Furono allora composti tre capi della dottrina, il terzo de’ quali era inscritto: «Della ierarchia e della differenzia delli vescovi e preti»: e avendo della ierarchia longamente parlato, dice poi cosí, di parola in parola tradotto di latino: «Insegna oltra di ciò la santa sinodo non dover essere ascoltati quelli che dicono li vescovi non esser instituiti iure divino, constando manifestamente dalle lettere evangeliche che Cristo Signor nostro esso medesimo ha chiamato gli apostoli e promossoli al grado dell’apostolato, in luoco dei quali sono subrogati li vescovi. Né ci debbe venir in pensiero che questo cosí necessario ed eminente grado sia stato introdotto nella Chiesa per umana instituzione, perché sarebbe un detraer e vilipender la divina provvidenza, che mancasse nelle cose piú nobili». Queste erano le parole del capo della dottrina. Furono anco notati otto canoni, l’ottavo de’ quali diceva: «Chi dirá che li vescovi non siano instituiti iure divino, o non siano superiori alli preti, o non abbiano autoritá di ordinare, o quella competisca anco alli preti, sia anatema». Ognun, preoccupato d’un’opinione, la ritrova in tutto quello che legge; e non è maraviglia se questi due prelati ciascuno trovava la sua nelle medesme parole, le quali li pontifici intendevano esser dette della sola potestá dell’ordine, e li spagnoli di tutta, che comprende l’ordine e giurisdizione: quantunque alcuni delli pontifici credessero che Mantoa studiosamente, fingendo di sentir con gli altri, facesse leggere la deliberazione vecchia, non per confermare la propria sentenzia, ma la spagnola, che sentiva in secreto.